08 gennaio 2014

QUEL CHE DOBBIAMO A NORBERTO BOBBIO

Da sinistra: Natalia Ginzburg, Renzo Foa e Norberto Bobbio




Domani ricorre il decennale della morte di Norberto Bobbio. Mi piace riproporre quanto ho scritto e pubblicato su CNTN  dieci anni fa.


IN MEMORIA DI NORBERTO BOBBIO


         La settimana scorsa è morto uno dei maggiori filosofi della politica e del diritto del 900. Le sue opere, tradotte in tutte le lingue, sono state un punto di riferimento obbligato per diverse generazioni. Ma Bobbio non è stato soltanto un insigne maestro chiuso nell’Accademia. Dopo aver attivamente partecipato alla Resistenza, tra le file del Partito d’Azione,  è stato una delle coscienze critiche della Sinistra italiana ed uno dei pochi intellettuali a segnalare, all’indomani del crollo del comunismo sovietico, la persistenza dei problemi sociali che hanno generato quell’ideologia.

          Il carattere problematico del suo pensiero e del suo stile di vita è stato suggellato dalle ultime volontà espresse alla vigilia della sua dipartita. Si tratta di un documento  che, oltre a fare pensare,  ha la forza di coinvolgere emotivamente  tutti, credenti e non credenti.

           L’ uomo che dichiara di avere sentito la morte vicina a sé per tutta la vita è lo stesso che, poco tempo prima, aveva scritto che “la vita e la morte sono indissolubilmente connessi, la vita  riceve un senso dalla morte e la morte dalla vita”. Bobbio ha preso sempre sul serio sia la vita che la morte e a quest’ultima chiederà soprattutto riposo e pace, ripetendo laicamente l’antico adagio requiem aeternam dona eis domine  e  ricordando l’ultimo verso della Passione secondo Giovanni di Bach “Ruht wohl” (riposa in pace).



           Mi ha colpito particolarmente  il modo in cui ha chiesto funerali civili, semplici, privati e non pubblici. Particolarmente significativo il modo delicato in cui ha respinto ogni cerimonia religiosa: “Credo di non essermi  mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla Chiesa sì. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per tornarvi di soppiatto all’ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare sino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi.”



             Qualche anno fa, invitato a precisare meglio il suo pensiero su questi temi, su MicroMega, n.2/2000, pp.7-8, aveva scritto:   “ Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi però distinguo la religione dalla religiosità. Religiosità significa per me (…) avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino (…) rispetto alla grandiosità, all’immensità dell’universo” , riconoscendo subito dopo di avere sempre avvertito il “senso del mistero” che la ragione non è mai riuscita a penetrare e che le varie religioni hanno interpretato in vari modi. Bobbio proseguiva definendo la sua una “religiosità del dubbio” scaturita dalla consapevolezza socratica di “sapere di non sapere” e dallo sgomento pascaliano di sentirsi “un piccolo granello di sabbia in questo universo”. Il fondo religioso della sua personalità  stava proprio qui, ed il Nostro ne era perfettamente consapevole:

“il fondo religioso della mia persona continuo ad intenderlo come questo non sapere. Ed è un fondo religioso che mi assilla, mi agita, mi tormenta (…).Ho continuato a riflettere sui grandi temi dell’esistenza e nessuna delle risposte della religione mi ha convinto. Però ,(…),neppure io sono riuscito a dare delle risposte ”. 



             E , per un uomo che aveva raggiunto i vertici della scienza, riconoscersi pubblicamente  “umiliato” per non essere riuscito a dare risposte convincenti alle domande ultime dell’esistenza, non è forse una delle più alte dichiarazioni di fede?          



             Come non ricordare infine la bellezza delle parole che stanno dietro alla decisione di essere sepolto nel paese d’origine:

“ E’ bene mantenere le proprie radici. Guai agli sradicati. Le radici  si hanno solo nel paese d’origine, nella terra, non nel cemento delle città. (…) . A Rivalta giocavo coi bambini del paese che non sapevano parlare italiano, erano vestiti con una camiciola e con calzoncini tenuti con lo spago. Non ho mai sentito alcuna differenza tra noi, i signori, e loro, i contadini (…).  Ho imparato che gli uomini sono eguali. Sono più eguali che diversi. Ho imparato che non bisogna darsi troppe arie, e anche quando c’è la banda che suona per te, sei anche tu uno per cui verrà l’ora in cui suonerà non la banda  ma la campana”.   



Palermo 12 gennaio 2004                                     Francesco Virga
















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