11 aprile 2014

Ricordando Cesare Garboli


Cesare Garboli. Il critico è un attore

Repubblica, 10 aprile 2014, p. 41
Dieci anni fa moriva il grande intellettuale. Diceva: “Non sono né uno scrittore né uno storico
“L’Italia ama il proscenio, gli sguardi degli altri e non desidera che fuggire” Un metodo teso a riportare in luce quanto giace inespresso al fondo di un libro
Cesare Garboli il critico è un attore
Franco Marcoaldi

Cesare Garboli moriva l’11 aprile del 2004, domani saranno esattamente dieci anni. La ricorrenza offre l’occasione per riflettere sulla natura del tempo come un proustiano “mostro a due teste”: sembra passato un giorno, e assieme un secolo dalla morte dello scrittore. Basta riprendere in mano Pianura proibita (Adelphi), l’ultimo libro da lui pubblicato, per sentire risuonare la sua voce imperiosa, rivedere il gesto teatrale con cui accompagnava le sue fiammeggianti parole. Eppure quelle stesse parole paiono arrivare da un altro mondo e da un altro tempo rispetto al presente; né potrebbe essere altrimenti visto che a pronunciarle è chi già in vita aveva optato per un’esistenza “postuma”.
A partire da una data precisa: la primavera del 1978, subito dopo l’omicidio di Aldo Moro, quando a cinquant’anni Garboli abbandonò Roma e si ritirò nella casa di Vado di Camaiore, allontanandosi da un mondo in cui non si riconosceva più. Da un’Italia che aveva azzerato le idee di cittadinanza e politica, per lui imprescindibili.
Avrebbe così preso avvio la stagione più fertile della sua scrittura: secondo le modalità proprie del grande inattuale, che procede controvento e controtempo. Sarà per questo che i suoi saggi non hanno perso una briciola del loro valore. Anzi, se possibile, hanno acquistato in peso e intensità, visto che i problemi sollevati sono rimasti inevasi e si sono aggravati.
Garboli era un combattente malinconico, suggestionato da uno splendido scritto di Carlo Ginzburg sull’«antagonista segreto» dello scrittore versiliese, di cui poi dirò. A cui va aggiunta la lettura di alcune sue conversazioni riproposte nel libro La critica impossibile (Medusa, a cura di Silvia Lutzoni, con testi di Massimo Onofri e Marco Vallora).
Da comunista convinto (del segno del Sagittario però, aggiungeva sapido, come a rimarcare un certo anarchismo di fondo), Garboli combatteva contro l’Italia imperitura dei vicereami e del servilismo politico, che alla legalità condivisa preferisce sempre il vantaggio illegale del proprio particulare. Non si stancava di contrastare una certa idea di virilità — tutta fascista — ancora largamente presente nel maschio nostrano, terrorizzato dal dover riconoscere e accettare un proprio tratto infantile e femminile. Ed era altrettanto severo sul carattere nazionale: l’italiano ama «offrire come un bene prezioso e pregiato ciò che è sconcio e scurrile; ama stare al proscenio, ama gli sguardi degli altri su di sé, e non desidera che fuggire».
Garboli parlava dell’intellettuale (parola quasi scomparsa dal nostro vocabolario) e del suo dovere di stare da solo e pensare da solo, senza farsi «utilizzare da nessuno». Sosteneva la radicalità delle idee, la necessità di un pensiero che procede «senza balaustra », per dirla con la Arendt. Detestava la piega presa da un’industria editoriale preoccupata solo di accaparrarsi lo Strega. E combatteva anche con i libri, che non delibava affatto con piacere edonistico, estetizzante, ma con i quali intraprendeva dei “corpo a corpo”, nella speranza di stanare la loro verità latente. Lavorando su quel terrain vague tra l’opera e il destino dell’autore.
Su questo punto, delicato quanti altri mai, si innescarono molti equivoci che lo fecero inviperire. E proprio in un saggio di Pianura proibita Garboli chiarisce che mai si sarebbe sognato di inseguire una corrispondenza lineare tra vita e opera; semmai lo spingeva il desiderio di cercare i possibili isomorfismi «tra due realtà date e riconosciute pacificamente per estranee».
Era questo il punto cruciale della sua battaglia, che si giocava nel dilaniante combattimento con se stesso alla ricerca di un senso e di una direzione di marcia da attribuire al proprio lavoro. Chi era Garboli? Come definirlo? È una domanda che si sono fatti in tanti. E, come è ovvio, lui per primo. «Non sono un critico, non sono uno scrittore, non sono uno storico», diceva. E adduceva buonissime ragioni a sostegno di questa tesi. Va aggiunto che amava più di ogni altra cosa il teatro. Lo dico non tanto per fare la tara a certe sue affermazioni, condizionate da un’innata predisposizione a recitare, quanto perché forse la possibile soluzione al rebus rappresentato da un uomo tanto enigmatico — in bilico tra scienza e magia, rabdomantismo e diagnostica — sta proprio lì. Come bene ci indica lo scritto di Ginzburg, a cui prima accennavo.
In una plaquette del dicembre 2007*, Ginzburg da un lato individua in Gianfranco Contini uno degli avversari del Nostro, dall’altro in Roberto Longhi un possibile “doppio”, che lo stesso Garboli descrive così: «Non solo un maestro, un conoscitore, un vero e grande critico, ma anche, come sa chi lo conobbe, uno straordinario attore “mancato”, come tutti i veri critici».
La predilezione di Garboli per il teatro, a scapito di un più scontato feticismo letterario e libresco, è in tal senso rivelativa. Il testo drammatico è un corpo vitale, in stato di costante metamorfosi, che implica il travestimento dell’interprete. Così, attraverso «la fisicità del teatro, Garboli si congedava dall’idea novecentesca di letteratura che aveva avuto in Contini un interprete altissimo». E in questa prospettiva l’attenzione rivolta allo «spazio intermedio tra vita e opera» diventava sempre più cogente: perché se è necessario riportare alla luce quanto giace inespresso al fondo di un testo, lo stesso sforzo ricreativo va compiuto con il “testo” pulsante della vita. Perché anche la vita può essere considerata alla stregua di un testo da “decifrare” ed “eseguire”. Garboli, secondo Ginzburg, «pensa a se stesso come a un critico pianista, un critico traduttore (…) e soprattutto un critico attore. L’attore esegue un testo come si esegue una partitura, o una vita».
I riflessi sulla lingua di questa postura originale sono memorabili. «Negli ultimi trent’anni nessuno ha usato la lingua italiana come Cesare Garboli: con un’energia, una spavalderia, una contagiosa allegria paragonabili alle sue. Leggere i suoi libri, essere coinvolti nei suoi ragionamenti incalzanti e imprevedibili, è una sorgente di pura gioia». Ginzburg ha ragione. Con Garboli si può concordare o dissentire. Ma non c’è mai in lui una pagina gratuita, di esercizio bellettristico o di vana esibizione da erudito. Sia che parli di un quadro, di uno spettacolo teatrale o di un amico scrittore, sempre lo fa per alimentare un’inquietudine, per cercare un possibile varco in quell’inestricabile groviglio che è l’esistenza. Da qui nasce la gioia: le sue parole risvegliano la mente e le offrono una luce per inoltrarsi in territori sconosciuti.
Repubblica, 10 aprile 2014, p.  41
Nota di Georgia:
* Carlo Ginzburg, Cesare Garboli e il suo antagonista segreto, Polistampa firenze 2007

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