03 maggio 2014

A. MOLTENI: ENIGMA PASOLINI






Angela Molteni
Enigma Pasolini
Appunti su Pier Paolo Pasolini, su Petrolio, sull'assassinio mai chiarito dello scrittore,
sulle connessioni con i casi Mattei-De Mauro.
Protagonisti, ipotesi, testimonianze.

Insulti al poeta degli “scandali annunciati”
    In vita, Pasolini è stato molto odiato: ha subito pestaggi fisici e linciaggi morali. Quasi un record, come le tante rivalutazioni (spesso ipocrite) post mortem, quando l'intento dei più si è indirizzato a ridurne la figura a icona, di esorcizzarlo in qualche modo, di mummificarlo, di ridurlo a un santino, oppure di piegarlo a modi altri  di  osservare  e intendere le cose, di strumentalizzarlo. Ciò che mi aveva profondamente allarmato nel 2005, anno in cui si celebravano in Italia e all'estero commemorazioni di Pier Paolo Pasolini in occasione dei trent'anni dalla sua tragica scomparsa (con un numero elevato di appuntamenti, in grandi città e in minuscoli centri), era che parlare di Pasolini significasse prevalentemente descrivere e commentare le modalità del suo assassinio. Ho considerato inversamente proporzionale al valore dell'uomo e dello scrittore porre in primo piano quasi esclusivamente quell'aspetto della sua vicenda umana e artistica.
     Durante tutta la sua vita, Pasolini era stato insultato da destra, osteggiato dai cattolici, mal sopportato dalla sinistra, anche dai maggiorenti di quel Partito comunista italiano cui aveva aderito nei suoi anni di residenza in Friuli. 
     Una permanenza terminata bruscamente nel 1949, quando Pasolini venne processato (fu il primo processo di una serie sterminata) per essersi  appartato  a Ramuscello presso Casarsa della Delizia (il paese originario della madre in cui Pier Paolo risiedeva a quell'epoca), il 30 settembre 1949 con alcuni ragazzi. I genitori di quei ragazzi non sporsero alcuna denuncia ma i Carabinieri di Cordovado, venuti a conoscenza di alcune voci fatte circolare ad arte in paese, indagarono su una ipotesi di “corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico”. Conseguenza immediata fu che Pasolini venne sottoposto ad azione giudiziaria: si trattò dell'inizio di una delicata e umiliante trafila fatta di denunce e di processi che cambierà per sempre la sua vita [20]. A quell'epoca, Pasolini – per la sua posizione di intellettuale iscritto al Partito comunista di Casarsa in una “regione bianca” – rappresentava un bersaglio molto appetibile. I democristiani locali – verosimilmente proprio coloro che si erano adoperati per diffondere le suddette voci – si accanirono immediatamente a sfruttare lo scandalo. «Poco prima dell'incidente gli hanno fatto delle intimazioni, non direttamente ma in stile mediato e allusivo, il cui senso è: o lui smette di far politica o subirà le conseguenze della sua condotta morale» – è Nico Naldini, cugino di Pier Paolo Pasolini, che parla.
     Prima di un qualsiasi accertamento o di una verifica delle accuse, Pasolini venne espulso dal Pci. Ecco quanto riportava l'“Unità” del 29 ottobre 1949: «La federazione del Pci  di Pordenone ha deliberato in data 26 ottobre l'espulsione dal partito del Dott. Pier Paolo Pasolini di Casarsa per indegnità morale. Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese». 
     A Roma, dove lo scrittore si trasferì, i libri e in seguito anche i film di Pasolini furono sistematicamente considerati scandali annunciati: Pasolini rappresentò una sorta di bersaglio permanente in un Paese, ieri come oggi, culturalmente arretrato, clericale e bigotto. L'Italia gretta, la stampa rozza e fascistoide  non  lo tollerava: «… lo chiamavano “Vate delle marrane”, “Omero della feccia”, lo dipingevano empio e infame…» [21]. E ancora: «[…] Il cantore del sordido, del maleodorante, è un giovane squallido con le bozze frontali troppo preminenti e le palpebre avvizzite. Di lui una giornalista sensibile e marxista, che si è prestata a fare da comparsa nel film Accattone, ha scritto su un quotidiano del Pci che è “candido e crudele come un santo”. Dal canto mio, mentre ascolto la sua voce untuosa e carezzevole, mi sorprendo a considerare che, dopo tutto, la storia della tentata rapina al benzinaio del Circeo potrebbe anche essere vera. […] I suoi goffi pantaloni, larghissimi e verdi, nei quali il corpicciuolo ossuto sciacqua e si perde, mi suscitano una strana impressione. Sospetto gravemente che gli ideali, la morale, le passioni del Pasolini siano tutti lì dentro, nelle pieghe dei suoi pantaloni sbrindellati […] La tentazione di sgonfiargli con una pedata quei pantaloni troppo larghi, mettendo scompiglio fra gli ideali che vi si annidano, mi accompagna oltre la soglia del “vate”» [22].
     Anche la stampa comunista, rappresentata dall'“Unità”, non risparmiò critiche, se non volgari e violente come quelle riportate nell'articolo appena citato, perlomeno severe nei confronti di Pasolini. Quando nel 1955 venne pubblicato Ragazzi di vita, dalle pagine del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, per esempio, Giovanni Berlinguer si sentì in dovere di fornire il proprio giudizio (29 luglio 1956): «[…] Il linguaggio, le situazioni, i protagonisti, l'ambiente, tutto trasuda disprezzo e disamore per gli uomini, conoscenza superficiale e deformata della realtà, morboso compiacimento degli aspetti più torbidi di una verità complessa e multiforme. E forse certa pubblicità è stata troppo tenera nel definire equivoco un libro fin troppo chiaro, nel trovare senso di pietà e di partecipazione umana ove né pietà né partecipazione umana esistono».
     Da un'agenzia di stampa facente capo a un raggruppamento politico di ispirazione monarchica, l'Agenzia Fert, giunse una notizia (14 luglio 1960) che riguardava le esortazioni nientemeno che del segretario del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti: «[…] l'on. Togliatti ha rivolto ai dirigenti dei settori cultura e stampa del partito l'invito ad andar cauti con il considerare Pasolini un fiancheggiatore del partito e nel prenderne le difese. L'iniziativa di Togliatti, che incontra molte contrarietà, parte da due considerazioni. Togliatti non ritiene, a suo giudizio personale, Pasolini un grande scrittore, ed anzi il suo giudizio in proposito è piuttosto duro. Infine, egli giudica una cattiva propaganda per il Pci, specialmente per la base, il considerare Pasolini un comunista, dopo che l'attenzione del pubblico, più che sui romanzi dello scrittore, è polarizzata su talune scabrose situazioni in cui egli si è venuto a trovare fino a provocare l'intervento del magistrato».
     Roberto Chiesi, responsabile del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna oltreché apprezzato critico cinematografico, scrive nel 2005 le pagine di presentazione di Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni. L'immagine di Pasolini nelle deformazioni mediatiche – catalogo della mostra con lo stesso  titolo  promossa  a  Bologna  dal 2 novembre 2005 all'8 gennaio 2006 (e riproposta anche in altre sedi) di cui Chiesi è stato curatore.
     Si tratta di un saggio che illustra lucidamente ed efficacemente, come del resto la mostra, le vere e proprie persecuzioni riservate a Pasolini soprattutto da parte della carta stampata. Ne riproduco qui di seguito alcuni stralci: «Il magma di articoli, pagine, copertine di giornali, fotografie, schede segnaletiche esposto come un'inquietante cartografia nella mostra […] racconta due storie parallele. La storia della violenta persecuzione diffamatoria che Pier Paolo Pasolini, lungo quasi vent'anni della sua vita, ha subìto da una parte della stampa, poi la crudeltà accanita e gli oltraggi feroci scatenati da quella stessa stampa sulla sua morte e infine alcune mistificazioni orchestrate negli ultimi quindici anni. L'atto che inaugura i drammatici rapporti del poeta con la stampa, è segnato dalla pubblicazione del gelido, succinto articolo de “L'Unità” che annuncia la sua espulsione dal Pci  per “indegnità morale” […] Giornali come “Lo Specchio”, “Il Borghese”, “Il Secolo d'Italia”, “Il Camino di Lodi”, “Il Meridiano” e “L'Italiano”, fabbricano un'immagine di Pasolini come bersaglio da colpire attraverso il dileggio, l'umiliazione pubblica, la denigrazione della sua figura e delle sue opere. Quell'immagine si identifica in un giovane pervertito che riflette in tutto e per tutto la fisionomia dei personaggi dei suoi romanzi: come loro, è “di vita”, è “criminale”, “violento”, “capovolto”, “invertito” e così via. Anche i rotocalchi come “Gente” concorrono ad alimentare quell'immagine di Pasolini, ma vi aggiungono delle variazioni: lo scrittore è un “arrampicatore”, “un furbo”, “un opportunista”.
     Giornali come “Lo Specchio” esaltano, senza mezzi termini, le aggressioni fisiche che vengono perpetrate contro Pasolini, come nel caso del celebre episodio avvenuto al cinema Quattro Fontane di Roma, nel settembre del 1962, dopo una proiezione di Mamma Roma. […] In quella che si configura come una vera e propria guerra, sono quotidiani come “L'Unità”, “Paese sera” e settimanali come “Vie nuove” a sostenere (anche se non sempre) la battaglia sollevata da ogni nuova opera del poeta. […] La regia teatrale della tragedia Orgia e lo scandalo del film Teorema, attizzano nuovi triviali attacchi della stampa di destra ed estrema destra, che lo bolla di “pornografo”. Quell'epiteto, in un largo ventaglio di varianti, viene fatto proprio anche da una parte della stampa di sinistra quando lo scrittore-regista realizza la Trilogia della vita e ottiene un immenso successo popolare.
     Al momento di concludere la Trilogia, Pasolini inizia a scrivere sul “Corriere della sera”, i drammatici articoli “corsari” e “luterani” che ispirano un rinnovato vento denigratorio sui giornali di sinistra come di destra. Nasce l'immagine del Pasolini “nostalgico”, “reazionario”, “confuso”. La tragedia oscura dell'assassinio è il culmine di questo processo di accanimento. I giornali che hanno sempre alluso grevemente al “privato” di Pasolini ora possono scagliarsi con dettagliate descrizioni sulla sua vita intima di “diverso”, che viene vivisezionata senza nessuno scrupolo sull'attendibilità di in-formazioni, notizie, testimonianze: viene pubblicato tutto ciò che può offrire l'immagine più turpe del poeta per seppellirlo sotto l'effigie  definitiva  di “violento e perverso corruttore”. L'uscita  del film postumo Salò o le 120 giornate di Sodoma è sfruttata per completare l'identificazione fra i “mostri”, personaggi del film, e Pasolini […]
     Dopo gli anni Ottanta, dopo l'inizio degli anni Novanta, ecco il proliferare di un nuovo fenomeno di mistificazione: quotidiani come “L'Indipendente” e settimanali come “L'Italia”, si affannano a “riabilitare” Pasolini attribuendogli un'identità “reazionaria” sempre più vicina alle frange ideologiche destrorse. […] Non meno mistificante, è anche l'operazione compiuta dalla critica cinematografica italiana che ha fatto del trash la propria bandiera: “riabilitando” il cinema “nazi-porno” assegnano a Salò di Pasolini il ruolo di capostipite di quel sottogenere, come se un'opera non fosse, innanzitutto, stile e linguaggio e la diversità dell'ultimo film pasoliniano da quegli abomini filmici non si misurasse in distanze macroscopiche. Ma questa è soltanto una delle tante conseguenze della moda dell'indifferenziato che costituisce uno dei tratti meno evidenti del degrado culturale della penisola negli anni del berlusconismo. La seconda storia che raccontano indirettamente ma concretamente quei reperti è appunto quel degrado che una parte della stampa ha contribuito ad alimentare con abusi, adulterazioni, mistificazioni e la violenza delle false informazioni. Un degrado che ha trovato la sua espressione più potente e devastante nella televisione. […]».
     Franco Grattarola, studioso, ricercatore di cinema e costume, tra i fondatori della rivista “Cine 70”, ha pubblicato a sua volta Pasolini. Una vita violentata (Coniglio Editore, Roma 2005). Nel suo lavoro, ha esaminato molti documenti d'epoca - prevalentemente periodici e rotocalchi - e ha scovato negli archivi alcuni scritti grondanti odio e disprezzo per l'uomo Pasolini prima ancora che per la sua opera, redatti anche da rappresentanti della cultura di casa nostra come Giovanni Guareschi o Gian Luigi Rondi. Grattarola ha citato tutte le fonti utilizzate con pazienza certosina e ha ricostruito la vita dell'artista attraverso le cronache di molti giornali di destra che osteggiarono Pasolini. "Il Borghese" e "Lo Specchio" sono i settimanali più citati, ma vi sono anche giudizi sprezzanti di molti uomini della sinistra che trovavano scomoda la figura del Pasolini omosessuale.
     Ai lettori di “Vie Nuove” – settimanale del Pci  i cui scritti sono stati poi raccolti a cura di Gian Carlo Ferretti nel volume Le belle bandiere (Editori Riuniti, Roma 1996) – lo stesso Pasolini confessava ai lettori oltre quarant'anni fa:
«Io patisco ciò che di peggio può patire uno scrittore. La mistificazione della mia opera: una mistificazione totale, completa, irrimediabile. Una vera e propria operazione industriale. Tutto quanto io dico e scrivo subisce, attraverso l'interpretazione calcolata della stampa “libera”, una metamorfosi implacabile […]. I miei romanzi e le mie poesie perdono a vista d'occhio il loro significato, per aggiunte e falsificazioni continue, per un'interpretazione denigratoria portata a un grado d'intensità e di ferocia mai viste».
    E nel suo libro Il sogno del centauro Pasolini dichiarava a Jean Duflot - che è stato poi curatore dell'edizione pubblicata da Editori Riuniti nel 1993:
«Sono vent'anni che la stampa italiana, e in primo luogo la stampa scritta, ha contribuito a fare della mia persona un controtipo morale, un proscritto. Non c'è dubbio che a questa messa al bando da parte dell'opinione pubblica abbia contribuito l'omofilia, che mi è stata imputata per tutta la vita come un marchio d'ignominia particolarmente emblematico nel caso che rappresento: il suggello stesso di un abominio umano da cui sarei segnato, e che condannerebbe tutto ciò che io sono, la mia sensibilità, la mia immaginazione, il mio lavoro, la totalità delle mie emozioni, dei miei sentimenti e delle mie azioni a non essere altro se non un camuffamento di questo peccato fondamentale, di un peccato e di una dannazione».
    Lo scrittore subì innumerevoli denunce e trentatré processi nel corso di ventisette anni; non si sottrasse mai al giudice, al processo. Denunciarlo e processarlo sono stati comportamenti costanti della parte più reazionaria della società italiana che mai apparve disposta ad accettare Pasolini e i suoi lavori, anche se spesso lo scrittore-regista ha riscosso il consenso di una parte di quella società, cioè di molti comunisti e cattolici progressisti. La sua è stata una «vita a microfono aperto», come ha scritto Flavio Santi. Gli attacchi, anche e soprattutto quando si sono manifestati nelle aule giudiziarie, hanno rappresentato lo strumento del quale hanno tentato di servirsi tutti coloro che sostanzialmente intendevano contrastare o porre freno a ciò che di nuovo e originale veniva espresso in una stagione nella quale, in ambito sociopolitico oltreché di costume, molto alta era l'ansia di cambiamento di ampie fasce di popolazione.
     Il poeta aveva compreso fin dagli anni '50 ciò che stava accadendo nel nostro Paese. E, con straordinaria lucidità, preveggenza e una insistenza quasi maniacale non aveva risparmiato attacchi e denunce al potere, non si era stancato di mettere in guardia dai risultati perversi che avrebbero prodotto la “mutazione antropologica”  e l'“ansia consumistica” conculcate. Tutta la sua opera artistica, la sua produzione letteraria e saggistica sono tuttora testimonianza della sua lungimiranza e della sua profonda sofferenza per una situazione che vedeva irrimediabilmente compromessa. In questo senso, sono convinta che il patrimonio prezioso che Pasolini ci ha trasmesso è ora più che mai di una attualità, incisività e freschezza stupefacenti. È necessario quindi, oggi addirittura più di ieri, leggere la sua immensa opera, critica e poetica, per comprendere fatti e misfatti – filtrati dalla sua intelligenza e dalla sua sensibilità – succedutisi in questo nostro Paese.
     In nome di che cosa Pasolini ha fatto tutto questo? Lo dirà con parole fin troppo semplici nella sua deposizione al Tribunale di Venezia, nel processo per Teorema, respingendo la tesi secondo cui l'autore di un film avrebbe obblighi di riserbo a cui sfugge, grazie al pubblico meno vasto e più selezionato, l'autore di un libro: «Non posso tener conto della minor preparazione o capacità a comprendere quello che una proiezione vuol dire, da parte dell'uomo medio, perché in tal caso compirei un'immoralità nei confronti della libertà espressiva, non solo nei miei confronti ma anche nei confronti dello spettatore».
     Pasolini scrisse su “Paese Sera” l'8 luglio 1974: «[...] Mi hanno arrestato, processato, perseguitato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane non può saperlo... Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l'angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l'arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose relative alla sua persona […]».
     «Ma non ci si può certo fermare alle vicende processuali, quasi che il mondo giudiziario fosse in sé concluso, non comunicante con l'esterno. L'atteggiamento della magistratura innesca un gigantesco processo di controllo sociale, di cui le reazioni e gli atteggiamenti della stampa sono la documentazione più evidente. Se manca la sanzione in forma di una condanna penale definitiva, ci sono sanzioni non formali più pesanti di mesi o anni di galera. Pasolini dovrà scontare pene durissime: ci sarà l'aggressione fascista, morale e fisica, contro la quale mai polizia e magistratura muoveranno un dito; c'è, alla fine, la pena di morte, eseguita una notte, dalle parti di Ostia. Una condanna verrà, nell'ultimo processo in cui Pasolini comparirà come protagonista, ma che, alla fine, non obbedirà a regole diverse da quelle puntigliosamente seguite in tutti i processi precedenti. Formalmente l'accusato è Pino Pelosi, l'assassino […].»: così dichiarò Stefano Rodotà nel corso di una intervista televisiva all'indomani dell'omicidio del poeta.
     Mentre in quegli anni lo sbeffeggiano e gli danno la caccia, e i fascisti Stefano Delle Chiaie e Flavio Campo lo schiaffeggiano non solo metaforicamente, «Pasolini compie una requisitoria che oggi è il suo testamento, indagando il potere dentro il potere e facendone un'autopsia narrativa. Scriveva cose premonitrici, concependo “la verità al di fuori dell'autorità” con il candore dell'innocenza (“difendo una ingenuità di ossesso”). Mentre costruivano ad arte la sua distruzione pubblica, Pasolini colpiva al cuore il Potere, lo raccontava con accanimento forte di verità intellettuale e morale» [23].
 
 
[20] Il processo che ne seguì si risolse con una assoluzione (Tribunali di San Vito al Tagliamento, 1950 e di Pordenone, 1952). Il 28 gennaio 1950 Pier Paolo e la madre avevano lasciato il Friuli per trasferirsi a Roma.
[21] Roberto Chiesi, responsabile del Centro Studi-Archivio Pasolini presso la Cineteca di Bologna, in “Diario”, 28 ottobre 2005.
[22] Claudio Cesaretti, Il “vate” capovolto, in “Il Borghese”, 7 dicembre 1961. La “giornalista marxista” che ha interpretato il ruolo di Nannina in Accattone è Adele Cambria. La tentata rapina al benzinaio Bernardino De Santis, impiegato in un bar-distributore presso S. Felice Circeo, si riferisce a un'aggressione subita dallo stesso De Santis il 18 novembre 1961 da parte di “uno sconosciuto con cappello nero”. Molto romanzesca la versione dell'aggredito: lo sconosciuto dopo aver sorseggiato una Coca-Cola e dopo molte domande, avrebbe calzato un paio di guanti neri, inserito nella pistola un proiettile d'oro e cercato di rapinare l'incasso della giornata. De Santis cerca di reagire e colpisce con un coltello la mano del rapinatore, che fugge non prima di aver minacciato il ragazzo. Il giorno successivo De Santis vede passare sulla strada prospiciente il distributore una Giulietta, in cui riconosce il suo rapinatore, annota la targa che denuncia ai carabinieri. In quella Giulietta c'è Pier Paolo Pasolini. Il nucleo dei carabinieri di Roma perquisisce l'abitazione e la macchina di Pasolini in cerca della pistola. Interrogato dai Carabinieri, Pasolini ammette di essere entrato nel bar, di aver bevuto una Coca-Cola, di aver fatto alcune domande, ma di essersi poi diretto a San Felice Circeo, dove stava lavorando alla sceneggiatura di Mamma Roma. Il processo si conclude nel 1963 con l'assoluzione piena di Pasolini.
[23] Angelo Ferracuti in “Diario” 28 ottobre 2005. 


 Da http://www.pasolini.net/am_enigma09.htm maggio 2010

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