Nel '49 Cesare Pavese
affrontò con particolare intensità il tema del lavoro dello
scrittore. Un tentativo di sprovincializzare il mondo stagnante della
cultura italiano che suscitò vivaci polemiche in una sinistra dove
fortemente si faceva sentire il fardello ideologico dello zdanovismo.
Pasquale Briscolini
Ovvero: serve una
ricerca infaticabile anche in letteratura
Il ’49 di Pavese è
ancora un anno di grande pienezza creativa, basti pensare a due dei
mesi finali dell’anno nei quali - dal 18 settembre al 9 novembre –
scriverà “La luna e i falò”, quasi sempre un capitolo al
giorno. Peraltro, scrivendo solo la mattina dalle cinque alle otto,
perché poi lavora alla Einaudi e non tollera di sovrapporre le due
cose. Qui è proprio “maniacale”: “La risposta ancestrale è
solo questa: fare un lavoro bene perché così si deve fare”, come
annota sul Diario il 7 settembre 1949.
Il ’49: anno pieno non
solo di lavoro (scrittore/poeta e direttore editoriale) ma
anche di polemiche, perché Pavese non si accontenta di “produrre”
in modo tradizionale in entrambi i lavori, ma si pone continuamente
nuove domande e cerca di aprire nuovi fronti. In questo, ovviamente,
trova nemici da varie parti in tutti coloro che, anche in buona fede,
sono di fatto conservatori.
Uno dei fronti aperti
riguarda proprio l’ambito del lavoro dello scrittore, quali siano i
giacimenti ai quali attingere e se questi debbano avere limiti o no,
per i pericoli che potrebbe presentare il loro superamento.
Attorno a questa domanda
ruota il saggio che ci accingiamo a commentare, del quale capiamo il
tono fortemente polemico già dai primi titoli che Pavese aveva
scelto e che poi ha cancellato: “Pifferi umanistici” e
“L’umanesimo non è quieto vivere”.
Il primo titolo era un
attacco esplicito ad alcune persone che aveva in mente; il secondo
lasciava intendere un ragionamento più circostanziato con il quale
sostenere le proprie idee, includendo anche l’attacco ma senza
farne l’oggetto del saggio. Il titolo finale sarà poi sulla stessa
linea del secondo, con una coloritura di “comoda immagine”:
“L’umanesimo non è una poltrona”.(1)
Il saggio inizia così,
con la descrizione di una persistente insofferenza:
“Dà noia leggere, di
questi tempi, ancora lamentele sulla cultura umanistica in pericolo,
sullo spezzarsi della tradizione, sull’esotismo e sull’infantilismo
che minacciano (da quanto tempo ormai?) i nostri sudati valori
occidentali. Certe cose una volta si lasciavano dire agli accademici
fascisti, fatti apposta per questo e nel loro piccolo giustificati.
Gente per cui la cultura consisteva – e consiste – nell’imperiale
provincia italica, nelle idee universali, nell’encomiastica di
tutte le romanità (“non ci si va senza un’idea universale”),
faceva l’ufficio suo additando al pubblico disprezzo le deviazioni
laiche della sterile critica e il sovversivo interesse per le
esotiche province della barbarie e dell’irrazionale (surrealismo,
psicologia del profondo, cubismo, Africa nera e altre cose
diaboliche).”
Pavese descrive una
situazione – quella della cultura del ventennio – che per certi
versi giudica comprensibile nella sua “chiusura”. Molto più di
quanto invece si possa comprendere chi dovrebbe essere “intriso”
di una più ampia visione di cultura europea, e che invece si fa
prendere dallo stesso tipo di paure e finisce per ostacolare un
cambiamento vero, o quantomeno il muoversi in terreni più fertili,
che sarebbero l’humus di questa cultura.
Insomma, già nell'
immediato dopoguerra Pavese è preoccupato del provincialismo della
nostra cultura, del suo orgoglio autarchico (di ieri e di oggi), di
cui con forza auspica il superamento:
“Ma non si capisce
(diciamo per dire) come persone intelligenti, nutrite del midollo di
leone della cultura europea, vadano anch’esse scoprendo paurose
crisi e fratture, non mica dove queste minacciano veramente, cioè
nella conservazione caparbia di superati istituti e valori, bensì
proprio in quegli interessi che da secoli, rinnovandosi sempre,
formano l’humus di questa cultura. Sarà vero, anzi è vero
senz’altro che, come dice T. S. Eliot, non si dà cultura senza
religione, che dissolvendosi la seconda si dissolve anche la prima,
ma allora invitiamo i nostri umanisti a dichiararci con chiare parole
quale secondo loro sia stata nei secoli la religione occidentale,
avvertendoli che religione è una parola troppo grossa per esaurirla
nel culto di uno stile, nel rispetto di un’abitudine,
nell’ideologia di un mestiere o di una classe.”
Si capisce da come Pavese
parla, così, di getto, che è molto preso dall’argomento e anche
un po’ infastidito dal dover continuamente ribadire le sue
posizioni sul come si fa letteratura e poesia. Sfida gli altri (che
non capisce, ma aggiunge con sarcasmo “si fa per dire”) a
dichiarare quale sia stato “il credo” della cultura europea,
invitandoli con decisione a evitare risposte banali, e intanto
precisa la sua posizione:
“Parliamo, com’è
ovvio, di poetica, e non abbiamo difficoltà a dichiarare che per noi
la religione sottesa a tutte le scuole, le ricerche, gli stili e le
polemiche dell’Occidente – da Omero all’ultimo narratore
sovietico o islandese – è il culto della chiarezza, la riduzione
del mitico-mostruoso e dell’arbitrario al razionale e al
prevedibile.”
In altra occasione dirà
che “l’atto della poesia è un’assoluta volontà di veder
chiaro, di ridurre a ragione, di sapere”. Insomma, dal Mito al
Logo, ma con un processo che, in qualche modo, non ha mai fine perché
non hanno mai fine gli spazi da ridurre a chiarezza:
“Ciò vuol dire – si
badi – che il compito della nostra cultura non è mai esaurito; che
per chi viva secondo il suo vero spirito non viene mai il giorno in
cui sia lecito abbandonarsi sul pesto guanciale della realtà
demitizzata. Questa sì che sarebbe la fine, la morte della nostra
cultura. Ci tocca invece perennemente passar oltre; ficcare lo
sguardo e le mani nell’infinito caos mitico dell’amorfo e
dell’irrisolto, e impastarlo, travagliarlo, illuminarlo finché non
lo si possieda nella sua vera oggettività.”
“L’infinito caos
mitico dell’amorfo e dell’irrisolto”: è molto bella e
decisamente attuale questa espressione di Pavese, che distrugge le
certezze deterministiche e fa riferimento invece ad una forma di caos
infinito, che è proprio l’oggetto dei nostri infiniti processi di
apprendimento. E fa l’elogio di tutti coloro che, nei vari campi,
hanno impegnato il loro intelletto per spostare in avanti il limite
dei campi della conoscenza:
“Gli eroi esemplari
della civiltà occidentale sono i semidei cacciatori di mostri, i
missionari mai sazi d’investire nuove terre pagane, gli accademici
del cimento che provarono e riprovarono. Né c’importa se, con
questo discorso, rischiamo di aver detto che dal mito passando per
l’arte si arriva alla scienza. Parliamo di come si fa poesia, non
di ciò ch’essa è.”
Emerge qui la forza della
sua battaglia culturale, anche contro i quadri del partito, convinto
com’è della necessità di operazioni culturali al di fuori e al di
sopra di un taglio politico dogmatico e ottuso. Convinto e
documentato, del tutto fuori anche dallo schema che vuole il poeta
come “fuori dal mondo”, Pavese ha un approccio “quasi
scientifico” al fare poesia, e propone una direzione di ricerca
sistematica verso “una comprensione”, sempre più approfondita,
di quali possano essere le origini del nostro pensiero e del nostro
essere:
“L’uomo occidentale
ha ben poco di comune coi poeti cinesi cui è riuscito per duemila
anni di ripetere lo stesso stile, e coi boscimani che vivono oggi
come usavano nel paleolitico superiore. Dicono allora gli umanisti:
“E dunque. Lasciate stare i cinesi e l’arte negra, i draghi e le
maschere. Queste cose nessuno di noi riandando la tradizione le
ritrova nel suo passato. Queste cose imbarbariscono. Guardate, del
resto, che cosa accade ai cinesi e ai boscimani che tradiscono la
propria cultura per farsi occidentali. Decadono. Muoiono. Non si
possono innestare le rose sui sambuchi”. Agli umanisti si risponde
che, dato e non concesso che cinesi e boscimani volenterosi abbiano i
giorni contati, c’è però un fatto di cui va tenuto conto; a
questi popoli non è offerta altra scelta. Ricusando d’adottare la
tecnica europea, sparirebbero anche più presto, e con loro morirebbe
comunque la loro cultura. In tutte le tradizioni viene un momento in
cui le marche di confine entrano in contatto con una tradizione
diversa: hic Rhodus hic saltus, e negare l’evidenza non serve. Se
mai, questa menzogna potranno tentarla proprio le culture magiche o
manistiche, specializzate nella conservazione del passato, non certo
la nostra di cui la gloria è sempre stata la conquista, il
diboscamento e la messa a coltura di nuove province.”
E’ incredibile come
Pavese sia costretto a difendersi nei suoi tentativi di ricerca: si
pensi ai temi dei Dialoghi con Leucò e al tentativo faticosissimo di
avviare la Collana blu, con tutta la polemica con Ernesto De Martino
che non si esaurirà nemmeno con la morte di Pavese. Intendendolo
esattamente al contrario delle sue intenzioni: come se lui volesse
“condurre” in quei territori anziché tentare di comprenderli per
“diboscarli”:
“E siamo al punto. Che
effettivamente noi abbiamo altri ideali dall’immobilità mandarina
o dal tribale ritualismo dei popoli di natura, non abolisce il fatto
che, nel corso della nostra conquista e riduzione a chiarezza del
mondo intero, queste esotiche realtà ci sono state rivelate. Così
come nell’opera di analisi e definizione dei fatti psichici ci è
accaduto di battere il naso in fenomeni inesplicabili se non con una
teoria dell’inconscio.”
Come si diceva prima, è
innegabile che Pavese descriva qui un approccio di tipo scientifico:
ci si imbatte in fenomeni nuovi per spiegare i quali serve una teoria
nuova, come la teoria dell’inconscio per comprendere alcuni
fenomeni psichici o come, ad esempio, la geometria non euclidea per
spiegare fenomeni esistenti in natura sui quali la geometria euclidea
non poteva dire alcunché. E questa è la via da percorrere, dice
Pavese, anche se certo può esserci il rischio che qualche
“rammollito”…:
“Ora, può darsi che
qualche rammollito europeo si compiaccia di smarrirsi in questo
inconscio, di drogarsene, di riempirne il suo orizzonte; come può
darsi che qualche altro sia tentato d’indossarne una maschera
congolese e invocare gli spiriti delle nuvole; ma tutto questo deve
soltanto stimolarci a studiare più a fondo e capire, cioè rendere
europei, sia l’inconscio che le culture della maschera. (Capire
significa, beninteso, vichianamente “intendere”, cioè rivivere e
giudicare).”
Dicevamo della forma
“quasi scientifica” dell’approccio di Pavese, che ritroviamo
ancora quando sostiene che l’antidoto verso certi pericoli sia
quello di “studiare più a fondo e capire, cioè rendere europei,
sia l’inconscio che le culture della maschera”. Non solo, ma
addirittura soffermandosi sul significato profondo del “capire”,
inteso nel senso di Giovambattista Vico.
“Non abbiamo altra
scelta. Ignorare questi fatti culturali, o peggio negarne la
problematicità, esorcizzarli a suon di piffero umanistico,
respingendoli fuori del nostro terreno di caccia, tra le maledizioni
dei nostri preti-stregoni, non è condotta degna dei portatori di
quello spirito occidentale che – non bisogna dimenticarlo – si è
già una volta nella sua storia millenaria trovato di fronte un
esotico Oriente, ha cercato di condannarne l’ideologia come “odio
del genere umano”, e infine entrambi si sono specchiati e
riconosciuti.”
L’espressione “odio
del genere umano” si riferiva ai primi cristiani che, nella società
imperiale, costituivano un gruppo a sé, estraniato dalla vita
pubblica e dalla religiosità comune che era un elemento di coesione
sociale. Il rifiuto di adesione alla religione dello stato era visto
come un atto di sovversione politica, esattamente come la tendenza a
rifiutare costumi ed istituzioni. Alla fine si sa com’è finita, a
riprova che a volte “non c’è altra scelta”.
“Siamo franchi. Non
c’importerebbe gran che se, come qualcuno va profetando, il trauma
di questo novecentesco interesse per la psicologia del profondo e le
culture e istituzioni primitive producesse una “paralisi creativa”
di qualche generazione. Non ci crediamo; il mondo è grande e sono
ben altri i problemi sul tappeto che s’incaricano di tenerci
l’essenziale sotto gli occhi. Ma, se pure ciò accadesse, vorrebbe
dire che lo spirito la creatività occidentale dormono il sonno
dell’aurora e, fedeli alla loro natura, vanno svolgendo quella
segreta opera metabolica che è per dar loro nuovi tessuti e nuova
salute.”
Insomma, anche nel caso
peggiore di “paralisi creativa” non tutto sarebbe perduto.
Si tratterebbe anzi di “opera metabolica” per alimentare il
giacimento della creatività. D’altro canto, non è anche il sonno
dell’aurora che produce i sogni più ricchi e forse rivelatori, in
qualche modo, di alcune parti della realtà?
1. L’umanesimo non è una poltrona, pubblicato su “La Rassegna d’Italia” il 5 maggio 1949
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