Due libri in uscita
ripropongono il rapporto difficile della storiografia italiana con la
figura di Benito Mussolini. Ma, come ci insegna la psicanalisi, la
rimozione è sempre spia di un disagio profondo, di una incapacità
di fare i conti con la complessità e contraddittorietà del reale.
Simonetta Fiori
Il Mussolini amputato e il mea culpa dello storico
Il Mulino
pubblica il prossimo anno i diari di guerra di Mussolini. Una cronaca
in presa diretta uscita in quindici puntate, tra il dicembre del 1915
e il febbraio del 1917, sul Popolo d’Italia. Documento di
straordinaria efficacia, dice Ugo Berti che da decenni cura la
saggistica storica per il marchio bolognese: per lo stile asciutto,
per la capacità di evocare la vita in trincea sotto le bombe, per le
annotazioni sapide su commilitoni, canti e dialetti.
Fin qui non c’è
notizia. Che Mussolini sia stato un giornalista brillante non è cosa
da mettere in discussione. E che il Mulino possa pubblicare senza
scandalo il diario del soldato semplice poi caporal maggiore
Mussolini non appare materia opinabile. La notizia va cercata
nell’introduzione di Mario Isnenghi, storico della grande guerra e
in questo caso garante della correttezza politica dell’operazione
editoriale. È Isnenghi a rivelarci che quando pubblicò Il mito
della grande guerra per Laterza, al principio degli anni Settanta,
ritenne fuori luogo attingere ai diari mussoliniani. Il personaggio
era «improponibile» per quei tempi tanto da indurre lo storico a
«un’omissione » grave come può esserlo «un’automutilazione ».
E fin qui è tutto
comprensibile. Ma Isnenghi aggiunge che ancora oggi qualche studioso
della Grande Guerra si rifiuta di citare il diario mussoliniano
perché «inopportuno», imbarazzante sul piano politico. E questo
può apparire una ossessione. Perché è vero che non si tratta di un
documento neutrale. Da retore sapiente, il futuro duce va costruendo
in quelle pagine il mito del leader che più tardi avrebbe messo in
campo per conquistare l’Italia e poi distruggerla. Ma basta dirlo,
come fa Isnenghi nell’introduzione. Ignorarlo dopo settant’anni
appare eccessivo.
Mussolini, ma solo lateralmente, compare anche in un bel libro dedicato a Gandhi che Sellerio pubblica a breve. Che c’entra il capo di un regime violento e illiberale con il simbolo del pacifismo? Gianni Sofri ce l’ha già spiegato in una monografia uscita anni fa e vi torna oggi con il suo Gandhi tra Oriente e Occidente: per il duce come per Giovanni Gentile o Farinacci ammirare Gandhi significava tenerlo lontano.
Le santificazioni
garantiscono sempre questo effetto rassicurante della distanza. Il
libro di Sofri si concentra soprattutto sull’esperienza formativa
di Gandhi che smentisce la favola di un Occidente e di un Oriente
come mondi diversi e incomunicabili. Nella “circolarità culturale”
del leader indiano rientrano le lettere scambiate con Tolstoj tra il
1909 e il 1910 e riproposte in questo volume (è ormai fuori catalogo
una precedente raccolta curata insieme a Pier Cesare Bori).
Ha ragione Sofri quando
dice che nel comune sentire Tolstoj è un uomo dell’Ottocento
mentre Gandhi appartiene al secolo successivo. Li separavano oltre
quarant’anni di età. Tolstoj era uno scrittore celebre, forse il
più famoso nel mondo; Gandhi un uomo politico che cominciava ad
avere una qualche notorietà internazionale. Tolstoj sarebbe morto di
lì a poco. L’ultima lettera a Gandhi fu anche uno dei suoi ultimi
scritti.
La Repubblica - 15
novembre 2015
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