02 dicembre 2015

LA POVERTA' DELL' HOMO DIGITALIS


Lo Sciame Digitale, i Big Data e la Psicopolitica

di Domenico Talia

La nuova folla senza animo e spirito è lo sciame digitale. Così la pensa Byung-Chul Han, il filosofo nato a Seul che insegna filosofia e teoria dei media a Berlino. Negli ultimi anni Han ha pubblicato alcuni saggi sulla globalizzazione e sugli effetti delle nuove tecnologie sugli esseri umani e sulle loro società. Nello sciame. Visioni del digitale (ed. Nottetempo) è l’ultimo suo breve libro pubblicato in Italia. Le riflessioni di Han stavolta sono dedicate al nuovo popolo che vive nel mondo dei media digitali e che lui ha definito, appunto, “sciame digitale”. Una comunità composta da individui anonimi che solo apparentemente condividono pensieri e azioni, ma che spesso si perdono nella conta dei “mi piace” e dei preferiti e non riescono a trovare modalità efficaci per esprimere le loro energie collettive.
Una caratteristica della manifestazione dello stato di eccitazione dello sciame digitale è rappresentata dalle forme di scrittura più emotiva e informale che la comunicazione digitale favorisce: “La comunicazione digitale rende possibile un istantaneo manifestarsi dello stato di eccitazione.” Sono comunicazioni rapide e imperfette, vicine al parlato anche se sono scritte. Quella digitale, a differenza di quella del potere (La comunicazione del potere non è dialogica;) e di gran parte dei mezzi di comunicazione tradizionali (stampa, radio, televisione), è una comunicazione dialogica. Eppure la simmetria comunicativa potenziale non implica necessariamente una simmetria fattuale. Infatti, la comunicazione digitale può modificare i rapporti tra persone, gruppi e organizzazioni, renderli diretti e bypassare i ruoli e le gerarchie, ma spesso questa disintermediazione si realizza soltanto in apparenza, perché i rapporti di potere e di relazione consolidati non si fanno cortocircuitare facilmente dall’informalità e dalla velocità della comunicazione digitale. Anzi, i possessori di poteri (comunicativi) usano con attenzione la comunicazione per trasmettere il proprio messaggio usando le modalità pervasive facilitate dal mezzo digitale.
“Le ondate di indignazione sono molto efficaci nel mobilitare e mantenere desta l’attenzione. … tuttavia, non sono in grado di strutturare il discorso … montano all’improvviso e si disfano altrettanto velocemente.” Osservazione condivisibile perché la protesta digitale è molto spesso effimera, contingente, molte volte sterile e ormai sempre più sostituisce la protesta storica, per come si era definita e sviluppata negli ultimi due secoli. In questa sua sostituzione, di fatto annulla le forme tradizionali e più efficaci di protesta. In primo luogo, perché sorge molto più rapidamente di quelle che richiedono un’espressione e una presenza fisica e quindi sembra renderle obsolete e di scarsa efficacia pratica. In secondo luogo, perché si spegne altrettanto rapidamente come un fuoco di scarsa consistenza, effimero, mancandole i luoghi e i tempi delle proteste tradizionali nella cui fisicità siamo cresciuti. Luoghi che permettono una persistenza che difficilmente viene cancellata dal prossimo argomento del quale indignarsi, come frequentemente accade con rapida periodicità nella rete che è l’ossatura della macchina digitale globale. In questo contesto, il pubblico più giovane viene coinvolto maggiormente nel senzazionalismo digitale con i suoi picchi che si spengono regolarmente nella calma piatta o vengono neutralizzati da nuovi picchi.
Secondo il filosofo coreano: “La massa indignata di oggi è oltremodo superficiale e distratta.” Paradossalmente, la massa digitale, a differenza della massa di individui nel senso classico del termine, non rispetta né la definizione di Isaac Newton che richiede la presenza di una quantità di materia che alla massa digitale sembra mancare e questa assenza non le permette di acquisire un peso da usare sul piano sociale, civile e politico, né quella di Karl Marx che unisce in quel termine una collettività emergente di individui con significativi elementi condivisi e che intendono agire solidalmente per un obiettivo comune. Insomma, una massa evanescente che appare e scompare come un corpo gassoso a bassa densità e con un peso trascurabile, spesso effimero.
Gli sciami digitali esprimono un potere labile e apparente che vive, troppe volte, la vita di una farfalla. È un rumore di protesta rispetto ai poteri reali, primo fra tutti il potere finanziario e la denuncia, anche quando riesce ad avere visibilità globale, non incide con effetti persistenti. La moltitudine digitale conferma la scomparsa delle classi sociali come soggetti politici, anzi è ortogonale alle classi sociali. Le attraversa in maniera indistinta e non riesce ad essere caratterizzata dalle istanze di una o più classi affini. Per queste ragioni la folla digitale non può assumere la forma di un contropotere. Su questo versante Han è critico verso le posizioni ottimistiche di Michael Hardt e Toni Negri che credono nel potere della moltitudine in opposizione al potere del capitalismo (l’Impero).
Han riprende il concetto di Vilém Flusser (La cultura dei media, Bruno Mondadori, 2014), che vede gli essere umani come “computazioni digitali” connesse tra loro, per sottolineare che non basta la disponibilità delle reti telematiche per superare il narcisismo di tanti “io” che egoisticamente interagiscono senza diventare un “Noi”. L’ottimismo di Flusser secondo cui “la società dell’informazione realizza una strategia per abolire l’ideologia del Sé isolato” non è condiviso dal filosofo coreano e le sue perplessità hanno ragion d’essere se si guarda ai social network che spesso non eliminano il Sé, ma lo amplificano realizzando una interazione “di un attimo che rende felici (kairos), facendo sparire per incanto la distanza spazio-temporale”, ma che è soltanto temporanea, effimera e fatua e soltanto in casi molto particolari permette il sorgere di aggreg(azioni) efficaci e persistenti.
L’altro grande tema che nella parte finale del suo saggio Han affronta è quello dell’accumulo informativo che le macchine e le reti digitali determinano: “Un aumento d’informazioni non porta necessariamente a decisioni migliori. … Da un certo punto in poi, l’informazione non è più informativa, ma deformativa.” I problemi della raccolta dei dati e delle informazioni sono oggi centrali per la nostra società e coinvolgono aspetti relativi al controllo sociale, alla manipolazione informativa, alla concentrazione in mani improprie dei dati dei cittadini, al loro uso da parte di privati, delle agenzie governative e dei grandi network commerciali. La ricerca informatica ha semplificato tutto questo con il termine Big Data che, forse non del tutto causalmente somiglia al ben noto Big Brother. Le macchine informatiche che state pensate e realizzate nella metà del secolo scorso per calcolare automaticamente, oggi sono lo strumento più formidabile di generazione di dati e informazioni nelle forme più varie. Il grande mare di dati digitali è difficile da navigare ed ormai è quasi impossibile trovare in esso le perle di conoscenza che ci servono per comprendere le cose realmente importanti e per prendere le giuste decisioni. Non è per caso che chi, come Google, è stato capace prima e meglio di altri di cercare nei Big Data della rete, ha assunto un ruolo e un potere enorme, molto più ampio e discrezionale di quello dei governi. L’enorme macchina informatica permette di accedere facilmente a patrimoni di informazione ricchi e preziosi, ma allo stesso tempo permette di immettere con facilità e velocità qualsiasi informazione manipolata, contraffatta e quindi non informativa ma deformativa. Lo possono fare i singoli e meglio di loro lo possono fare le organizzazioni, le lobby, i poteri politici e finanziari, i terroristi. Tutto questo costituisce un rischio enorme e una difficoltà sempre maggiore per chi usa l’informazione digitale globale per capire, per formarsi un’opinione o per fare delle scelte.
Il settore del data mining è nato come risposta tecnologica al problema della bulimia informativa e per identificare le parti utili e significative nel mare magnum dei dati digitali. Chi sarà capace di padroneggiare questa tecnologia avrà vantaggi enormi sugli altri che nuotano tra i dati senza trovare la giusta direzione, avrà un potere conoscitivo che gli permetterà di spostare l’asse dei rapporti sociali ed economici usando la leggerezza di una tecnologia di analisi molto sofisticata che fa vedere chiaro dove gli altri scorgono soltanto opacità. È capace di trovare elementi di conoscenza, tendenze e associazioni nei big data che per molti sono soltanto enorme rumore e confusione informativa. Siamo in presenza di una tecnologia che “calcola” i fatti di ordine superiore, le vite dei singoli e prevede i trend sociali e politici, una modalità molto raffinata di “calcolare” la società presente e quella futura.
Anche il consenso nella società del nuovo millennio è sempre più condizionato dai media digitali. Dal punto di vista della partecipazione politica, in questo tempo in cui i partiti si sono rinchiusi in uno stretto recinto di casta e hanno ridotto la loro capacità di rappresentanza democratica, la democrazia digitale non riesce a definire strutture ben formate di discussione, confronto e sintesi. Nella rete “ogni singolo è esso stesso un partito”, le opinioni e i commenti si rincorrono senza una qualsiasi forma di coordinamento o di sbocco fattuale. Tutti gli avvenimenti, in un flusso ininterrotto, passano per gli strumenti digitali e i commenti, le approvazioni e le critiche tanto sono immediate nell’apparire quanto nello svanire nell’infinito streaming di email, post, blog e tweet. Siamo nella democrazia dei like o dei favorite la cui efficacia temporale è quasi nulla. Sono espressioni contingenti che non riescono a costruire una reale dialettica politica che possa giungere a sintesi effettiva e soprattutto ad un vero processo dialettico di costruzione del consenso (o del dissenso); ad una prassi che determini scelte reali.
Tutte le azioni che compiamo nella rete sono memorizzate, da noi, dagli altri, dai singoli dispositivi, dalla rete stessa: Scrive Han: “Ogni click che faccio viene registrato; ogni passo che compio diventa ricostruibile.” Siamo in una prossimità digitale che ci appare simile alla prossimità fisica e in parte lo è, ma non completamente. Nel sistema sociale digitale siamo tutti più vicini, sappiamo degli altri e ognuno di noi è potenzialmente in diretto contatto con tutti gli altri. Riceviamo direttamente le informazioni, le posizioni, le azioni che le persone compiono in tempo reale, come se vivessimo vicini a tutti quelli di cui veniamo a sapere o di quelli ai quali siamo interessati. La macchina digitale diventa un piccolo mondo dove tutti ci possiamo sentire attigui; come in un piccolo paese, in una piccola comunità, possiamo controllare quello che gli altri dicono, dove vanno, cosa fanno. Le altre persone possono fare lo stesso nei nostri confronti in una specie di universo trasparente dove tutti possono controllare tutti. Nasce così un controllo sociale digitale che ci dà un senso di vicinanza senza che mai i nostri corpi si incrocino, senza correre il rischio di inciampare sulla stessa via e con la possibilità di allontanarci se veramente lo desideriamo, sparendo, almeno momentaneamente. Le nostre vite diventano “calcolabili”. Sulla base delle tracce digitali che lasciamo nella rete, possiamo essere studiati, analizzati, la nostra vita può essere prevista con una certa accuratezza. Quando questo avviene su grande scala, è la società in cui viviamo a diventare “calcolabile” per prevederne gli sviluppi, i comportamenti singoli e collettivi, per calcolare il nostro futuro sulla base del protocollo digitale che registra il nostro passato e il nostro presente.
I nostri comportamenti digitali sono osservati, memorizzati e messi insieme per costruire profili di vita. “Il vedere coincide con il sorvegliare. Ciascuno sorveglia ogni altro.” È una sorveglianza digitale fatta di post, tweet, mail, foto, filmati, preferenze, brani vocali registrati o spediti, geolocalizzazioni. Tutti elementi informativi che costituiscono contenuti osservazionali che un tempo poteva acquisire soltanto che viveva in prossimità fisica con noi. Le webcam, le telecamere degli smartphone, i sensori, i Google Glass, oggi svolgono lo stesso ruolo degli occhi dei nostri vicini, dei condomini, dei pettegoli che sorvegliano, registrano e controllano tutto quello che facciamo durante le nostre giornate. In un’altra affermazione di Han, in questo caso per nulla originale: “L’analisi dei big data permette di conoscere modelli di comportamento che rendono possibili anche delle previsioni.” c’è un altro richiamo al desiderio di calcolare i comportamenti dei singoli e della collettività e tramite la calcolabilità delle vite arrivare alla calcolabilità del futuro, desiderio sempre vivo negli uomini. Oggi molti fenomeni complessi del reale vengono modellati e risolti tramite un insieme di algoritmi che eseguiti sui calcolatori ci mostrano soluzioni a problemi che neanche le equazioni della matematica e della fisica ci sanno spiegare. Gli algoritmi di analisi dei big data sono un chiaro esempio di questa trasformazione dei modelli di spiegazione del reale. Non esiste una formula matematica che ci possa descrivere il comportamento dei consumatori di un prodotto o dei pazienti di un ospedale, ma esistono oramai algoritmi di data mining che, a partire dai dati degli acquisti o degli esami sanitari, costruiscono con precisione molto accurata i profili dei consumatori o dei pazienti. Quello che i tecnici chiamano profiling è, a tutti gli effetti, una conoscenza dall’interno dei meccanismi di pensiero e di azione delle persone. Una sorta di analisi psicologica a loro insaputa che fornisce a chi la svolge un vantaggio conoscitivo enorme. Oggi, e domani ancora di più, le teorie comportamentali e le teorie sociali vengono costruite da chi raccoglie i dati sulla vita dei singoli senza che loro lo sappiano, soltanto prelevandoli dall’ecosistema digitale, dove gli stessi soggetti o i loro “contatti” li hanno inseriti, a volte a loro insaputa. La costruzione di una teoria non trae più origine dal definire un insieme di regole che spiegano un fenomeno o un comportamento, ma dall’analisi di grandi quantità di piccoli brandelli di dati (una foto, un tweet, un’email, un record, una pagina web). Tramite l’ingestione e la digestione di tanti di questi dati, il software di analisi costruisce e propone una teoria comportamentale che nessuna equazione prima ha mai saputo definire. Per dirla con Han, “la possibilità di ricavare modelli comportamentali dai big data annuncia l’inizio di una psicopolitica digitale”, scenario inquietante in cui tutti stiamo entrando senza esserne consapevoli.

Articolo pubblicato il 3 dicembre 2015 da    su http://www.nazioneindiana.com
 
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Nello sciameByung-Chul Han: Nello sciame, nottetempo 
Risvolto

La trasparenza e i dispositivi digitali hanno cambiato gli uomini e il loro modo di pensare. Alla comunicazione in presenza, alla capacità di analisi e alla visione del futuro si sono sostituiti interlocutori fantasmatici immersi in un presente continuo e sempre visualizzabile attraverso uno schermo. Il soggetto capace di annullarsi in una folla che marcia per un’azione comune, ha ceduto il passo a uno sciame digitale di individui anonimi e isolati, che si muovono disordinati e imprevedibili come insetti. Han si interroga su ciò che accade quando una società – la nostra – rinuncia al racconto di sé per contare i “mi piace”, quando il privato si trasforma in un pubblico che cannibalizza l’intimità e la privacy. E su che cosa comporta abdicare al significato e al senso per un’informazione ovunque reperibile ma spesso non attendibile.


La povertà dell’homo digitalis 

Marco Dotti, il Manifesto 14.5.2015 

Forse dovremmo tor­nare a ser­virci di una vec­chia parola, da troppo tempo dismessa dalla cas­setta degli attrezzi: alie­na­zione. Marx parla per la prima volta di alie­na­zione (Ent­fre­m­dung) nella sua tesi di lau­rea. Una tesi dedi­cata – come si sa — alle Dif­fe­renze fra la filo­so­fia della natura di Demo­crito e quella di Epi­curo. Qui, discu­tendo di ato­mi­smo, Marx nota come per­sino nell’atomo, nell’apparentemente unico e indi­viso, vi sia con­trad­di­zione, ossia un movi­mento che scinde, divide.
A essere sepa­rati, in que­sta visione delle cose e del mondo, sono esi­stenza e essenza. La prima, alie­nata dalla seconda. Ecco per­ché nell’alienazione — come avrebbe detto Adorno — «la vita non vive». Spe­ri­menta, ma non vive. Non vive e non imprime quelle tracce d’esperienza che siamo soliti chia­mare «il vis­suto».
In tede­sco, due parole indi­cano le forme dell’ «espe­rienza»: Erleb­nis­sen e Erfah­run­gen. Con la prima, siamo nel campo dell’episodico, di ciò che non si con­ca­tena. Con la seconda forma di espe­rienza, Erfah­run­gen, siamo nel campo di ciò che lascia tracce, segni, porta a muta­menti, eppure marca un’unità. Il fatto che, come scri­veva Wal­ter Ben­ja­min, noi si sia entrati in un’epoca ricca di espe­rienze epi­so­di­che e povera di Erfah­run­gen, è un dato autoe­vi­dente. Per ogni epi­so­dio, per ogni fram­mento espe­rien­ziale del primo tipo, cer­chiamo mar­ca­tori esterni. Ma il «fuori» è pre­ci­sa­mente ciò che ci sfugge: il mondo, afferma Byung-Chul Han, è diven­tato addi­tivo, non nar­ra­tivo. Sovrap­po­niamo fram­mento a fram­mento, spe­rando di «fare spes­sore». Dalle vec­chie foto­gra­fie e dai vec­chi cimeli di viag­gio, che ancora ten­ta­vano di «rac­con­tare», siamo pas­sati al mar­ca­tore insta­gram, al «mi piace», al «sono qui», alle mappe che si ride­fi­ni­scono infi­ni­ta­mente per­ché infi­ni­ta­mente mobili e auto-organizzantisi attorno al «pun­tino» che ci rap­pre­senta su uno schermo. Alla messa in scena, con le fun­zioni «peri­scope» e le tele­ca­mere con­nesse ven­ti­quat­tro ore su ven­ti­quat­tro che ver­ranno, si uni­sce il retro scena. 
Povertà dell’esperienza 
Passo dopo passo, ma sem­pre col passo del gam­bero, l’alienazione dal mondo diventa, come Marx ci ha inse­gnato, alie­na­zione del mondo. Inu­tile negare che la potenza con cui que­sta dop­pia elica alie­nante si torce ha subito e subi­sce un’accelerazione sem­pre più radi­cale. Sull’assoluta povertà di espe­rienza (Erfah­run­gen), sulla sim­me­trica pro­li­fe­ra­zione di fram­menti espe­rien­ziali e sulla sovrae­spo­si­zione por­no­gra­fica del sé nella nostra post­mo­der­nità digi­tale ha molto insi­stito Byung-Chul Han, filo­sofo tede­sco di ori­gine coreana, che sulla coda lunga della Scuola di Fran­co­forte si è fatto cono­scere anche dai let­tori ita­liani, gra­zie ai tre volumi editi da Not­te­tempo, La società della stan­chezza, Eros in ago­nia e La società della tra­spa­renza oltre a un inte­res­sante ebook edito da goWare pochi mesi fa: Razio­na­lità digi­tale. La fine dell’agire comu­ni­ca­tivo.
A que­sti lavori, si affianca ora Nello sciame. Visioni del digi­tale (tra­du­zione di Fede­rica Buon­gionro, pp. 105, euro 12) che in qual­che modo li inte­gra e ne viene inte­grato. Al cuore della rifles­sione di Byung-Chul Han c’è una cri­tica, molto chiara e evi­dente, a una visione dell’uomo immerso e alie­nato in uno pseudo ambiente digi­tale. È quella che l’autore chiama «antro­po­lo­gia idea­liz­zata dello sciame crea­tivo». Un’antropologia che si è decli­nata in forme di spi­ri­tua­li­smo, più o meno mani­fe­ste, che hanno finito col con­ver­gere verso una sorta di pen­te­co­sta­li­smo digi­tale fon­dato sulla pro­messa di libe­rare l’uomo dal sé iso­lato, pro­du­cendo uno spi­rito capace di into­narsi con il simu­la­cro dell’altro (in realtà: solo una diversa decli­na­zione dell’ «uguale) in uno spa­zio comune di riso­nanza (il web). 
Ciò che si è pro­dotto, dopo i primi decenni di net-entusiasmo, è però nient’altro che uno sciame ace­falo, una folla di tipo oriz­zon­tale l’avrebbe chia­mata Gustave Le Bon, in balia di un mes­sia­ni­smo della con­nes­sione inte­grale sem­pre di là da venire eppure capace, già qui e ora, di dispie­gare i suoi effetti nefa­sti. Assi­stiamo così all’erosione dello spa­zio pub­blico, inteso come luogo del noi – un’erosione con­dotta però pro­prio in nome del «noi». L’Uguale risplende in una società inte­ra­mente depri­vata del suo «nega­tivo», dove non solo ogni forma di oppo­si­zione, ma anche ogni azione è pre­ven­ti­va­mente eli­mi­nata e sosti­tuita da un’informazione. Infor­marsi equi­vale a esserci. Comu­ni­care equi­vale a essere. Que­sto il teo­rema di una società dove ogni inter­sti­zio e ogni chiaro-scuro viene bru­ciato in nome del nuovo idolo: la trasparenza. 
In nome della prestazione 
Domina, in que­sta società, la forma del «sog­getto di pre­sta­zione». Un sog­getto avvinto in pra­ti­che di auto-ottimizzazione dello sfrut­ta­mento di sé anche quando non lavora, anche quando gioca, anche quando crea, anche quando si sente immerso in un flow che chiama «libertà». Ecco per­ché il sog­getto di cui parla Byung-Chul Han tutto è fuor­ché un homo ludens. Asso­mi­glia piut­to­sto a quel homo festi­vus di cui par­lava Phi­lippe Muray: vivendo il car­ne­vale ogni giorno, fini­sce per sov­ver­tire la sov­ver­sione, per lot­tare con­tro la lotta e per resi­stere con­tro ogni resi­stenza. Non sbatte i pugni sul tavolo, non agi­sce: gioca con le dita su una tastiera. Il rein­canto del mondo passa dal suo stordimento. 
La parola «digi­tale», ci ricorda non a caso Byung-Chul Han, rimanda al digi­tus, al dito che conta. L’homo digi­ta­lis conta, cal­cola, misura. Anche quando non lavora, anche quando «crea» il suo mondo è segnato dal cal­colo e dalla prestazione. 
L’homo digi­ta­lis non gioca, non crea, tanto meno agi­sce. L’atrofia della mano per eccesso di non lavoro porta a un’artrosi digi­tale delle dita, ren­dendo impos­si­bile al sog­getto ogni espe­rienza, anche l’esperienza della sot­tra­zione fon­da­men­tale che lo riguarda. 
Piac­cia o meno il tono quasi pro­fe­tico di Byung-Chul Han, la sua dia­gnosi è spie­tata ma impron­tata al rea­li­smo: dal digi­tale non è nata alcuna resi­stenza mate­riale che si possa supe­rare per mezzo del lavoro. Al con­tra­rio, il lavoro si è avvi­ci­nato – que­sto sì – al gioco, ma nella sua dimen­sione digi­tale non ha dato vita ad alcun tempo dell’ozio. L’antropologia idea­liz­zata della classe crea­tiva avrebbe pro­dotto quindi solo l’ennesima alie­na­zione. Anche la bio­po­li­tica, nella visione di Byung-Chul Han, ha fatto il suo corso. 
La società digi­tale è ora­mai post­mor­tale, post­na­tale, post-politica, ma anche post-panottica – avverte Byung-Chul Han. Solo se gli atomi si con­net­tono l’un l’altro, in una rete che li isola nel momento stesso in cui li avvince que­sto sistema può reg­gere. I big data, il data mining, la pos­si­bi­lità di con­trol­lare lo sciame par­tendo dalla pre­vi­sione affet­tiva, emo­tiva, impul­siva dei suoi movi­menti sem­bra aprire le porte a un tempo segnato da qual­cosa che potremmo chia­mare «psi­co­po­li­tica digi­tale». Uscirne è la que­stione cruciale.


Il click che fa movimento
Salone del libro. Dalle strategie militari all’intelligenza artificiale, all’analisi della realtà contemporanea. La fortuna accademica dello «sciame»

Benedetto Vecchi, il Manifesto 14.5.2015

Il Muro di Ber­lino è caduto da pochi mesi e oltre le mace­rie del socia­li­smo reale ha lasciato sul campo i manuali di stra­te­gia mili­tare usati tanto ad Est che ad ovest del vec­chio con­ti­nente. La pia­ni­fi­ca­zione su come orga­niz­zare gli eser­citi della Nato o del Patto di Var­sa­via sono ormai carta strac­cia. In Cina qual­che eccen­trico gene­rale comin­cia a defi­nire nuove stra­te­gie per un mondo uni­po­lare dove Pechino punta a diven­tare una nuova super­po­tenza eco­no­mica e mili­tare. Per que­sto, l’esercito popo­lare deve rior­ga­niz­zarsi, par­tendo da una situa­zione di svan­tag­gio tec­no­lo­gico, ma con una carta vin­cente che gli Stati Uniti non hanno: la cono­scenza del ter­ri­to­rio e un saldo legame con la realtà sociale. Pechino imma­gina sce­nari di resi­stenza a una pos­si­bile inva­sione nemica, ma la teo­ria della «guerra sim­me­trica» è, nel tempo, diven­tata una sorta di bib­bia per gli eser­citi rego­lari del ven­tu­ne­simo secolo.
I robot in azione
Dall’altra parte del Paci­fico, gli Stati Uniti hanno un pro­blema da risol­vere: gestire una poli­tica impe­riale che pre­vede la pos­si­bi­lità di spo­stare in tempi rapidi le truppe ai quat­tro angoli del pia­neta. L’esercito è visto come una forza di inter­vento poli­zie­sco anche per fron­teg­giare insur­re­zioni popo­lari. Ed è in que­sta cor­nice che i think tank legati al Pen­ta­gono comin­ciano a sfor­nare studi su come orga­niz­zare unità dell’esercito a stelle e stri­sce per assol­vere fun­zioni sia mili­tari che di poli­zia. Il testo, che farà scuola, della orga­niz­za­zione non gover­na­tiva e con­ser­va­trice Rand Cor­po­ra­tion ana­lizza a fondo non tanto come debba essere orga­niz­zato un eser­cito, ma come si muo­vono i «movi­menti insur­re­zio­nali».
Con straor­di­na­ria capa­cità ana­li­tica, la Rand Cor­po­ra­tion parla dei movi­menti sociali «insor­genti» come «sciami» che si for­mano, col­pi­scono per poi dis­sol­versi. Il testo, repe­ri­bile in rete (www​.rand​.org/​p​u​b​s​/​d​o​c​u​m​e​n​t​e​d​_​b​r​i​e​f​i​n​g​s​/​D​B ​3​1​1​.​h​tml) e fir­mato da John Arquilla e David Ron­feldt, anche se datato è ancora illu­mi­nante per la la chia­rezza nell’esporre il punto di vista dell’esercito sta­tu­ni­tense come forza di poli­zia inter­na­zio­nale, ma anche per la capa­cità di rap­pre­sen­tare il con­flitto sociale nelle società con­tem­po­ra­nee: i movi­menti sociali sono cao­tici, ete­ro­ge­nei, senza una orga­niz­za­zione cen­trale di coor­di­na­mento, ma quando agi­scono appa­iono come uno sciame, dove ogni par­te­ci­pante si muove come se tutto sia stato atten­ta­mente organizzato. 
Nello stesso arco di tempo, fisici, mate­ma­tici, filo­sofi e pro­gram­ma­tori di com­pu­ter sono alle prese con gli scon­for­tanti fal­li­menti dei pro­getti di intel­li­genza arti­fi­ciale. Le spe­ranze di costruire una mac­china «pen­sante» sono, allora, archi­viate come un sogno troppo bello per essere vero. Qual­cuno, però, tira fuori un espe­ri­mento di Alan Turing – ma alcuni sto­rici della scienza dicono che è da attri­buire ad altri – in base al quale se un umano «dia­loga» con una mac­china che for­ni­sce rispo­ste dotate di senso, sarebbe legit­timo par­lare di intel­li­genza. Se pren­diamo un numero più o meno esteso di mac­chine infor­ma­ti­che o di robot che «comu­ni­cano» pos­sono pro­durre com­por­ta­menti che a un osser­va­tore esterno appa­iono «intel­li­genti». I soliti infor­mati qua­li­fi­che­reb­bero i ricer­ca­tori che orga­niz­zano in que­sta maniera il soft­ware, la comu­ni­ca­zione e le moda­lità di rea­zioni di mac­chine infor­ma­ti­che o robot come «con­nes­sio­ni­sti»; Più pro­sai­ca­mente qual­cuno a comin­ciato a par­lare di «sciami intelligenti». 
Stuc­che­vole naturalismo 
La con­ver­genza tra stra­te­ghi mili­tare e ricer­ca­tori di com­pu­ter science nell’uso del ter­mine sciame non deve mera­vi­gliare. Il mondo ani­male è stato infatti spesso usato per par­lare del fun­zio­na­mento della società o della poli­tica – La favola delle api di Ber­nard de Man­de­ville o il Levia­tano di Tho­mas Hob­bes -, anche per rati­fi­care il fatto che anche gli umani sono una spe­cie ani­male, sep­pur par­ti­co­lare. Gli sciami costi­tui­scono, se osser­vati dall’esterno, una forma di sofi­sti­cata e pre­cisa orga­niz­za­zione, dove ogni com­po­nente svolge un’azione sin­cro­niz­zata a quelle dei suoi simili. Ciò che è amorfo, anno­ta­vano gli stu­diosi della Rand Cor­po­ra­tion, appare invece come una per­fetta orga­niz­za­zione. Lo sciame può dun­que essere pre­sen­tato come una forma di orga­niz­za­zione fina­liz­zata a uno scopo che può essere sciolta ogni volta che l’obiettivo è stato rag­giunto. Una pro­spet­tiva ana­li­tica che pecca di «natu­ra­li­smo» e che nulla spiega del come lo sciame si forma e di come viene defi­nito l’obiettivo. In altri ter­mini è una rap­pre­sen­ta­zione che fun­ziona come una foto­gra­fia, o un video che ha biso­gno di una distanza ed ester­nità da quanto accade. Eppure lo sciame è usato per spie­gare le moda­lità della comu­ni­ca­zione in Rete, per descri­vere le azioni dei movi­menti sociali den­tro uno spa­zio defi­nito – quasi sem­pre una metro­poli -, quasi riu­scisse a cogliere un nucleo di realtà altri­menti inafferrabile. 
Lo stile povero del web 
Il filo­sofo tede­sco di ori­gini coreane Han Byung-Chul uti­lizza lo sciame per descri­vere le moda­lità della comu­ni­ca­zione nella Rete, asse­gnando ai social media e ai social net­work la respon­sa­bi­lità di una comu­ni­ca­zione povera dovuta ai «for­mat» impo­sti agli utenti, sia a causa della limi­ta­zione fisi­che – con Twit­ter non si pos­sono usare più di 140 carat­teri – che allo spi­rito gre­ga­rio che favo­ri­scono (i Like di Face­book). Sugli esempi di alie­na­zione, impo­ve­ri­mento e con­for­mi­smo che l’autore pro­pone non c’è molto da obiet­tare. È espe­rienza dif­fusa che tanto più è veloce lo scam­bio di infor­ma­zione, più è facile deviare da quanto sta­bi­li­sce la maggioranza. 
Nella rifles­sione di Han Byung-Chul lo sciame perde dun­que i carat­teri per­tur­banti messi in evi­denza dalla Rand Cor­po­ra­tion e dai «con­nes­sio­ni­sti» per assu­mere il pro­filo di un forma di azione sociale e comu­ni­ca­tiva omo­lo­gata allo spi­rito domi­nante nella società. Lo sciame digi­tale divine folla e a farle da padrone sono quei sen­ti­menti, moda­lità di rela­zione gre­ga­ria che esclu­dono ogni pos­si­bi­lità di tra­sfor­mare l’esistente. 
La fusione oscurata 
La realtà è tut­ta­via più con­trad­dit­to­ria, ambi­va­lente di quella defi­nita dal filo­sofo coreano. Certo, l’azione di bull­shit (la deni­gra­zione attra­verso l’insulto gra­tuito e vio­lento, il bul­li­smo in Rete) assume pro­por­zioni dif­fi­cil­mente con­trol­la­bili da qual­siasi «mode­ra­tore» o cen­sore della comu­ni­ca­zione on line, ma il mail bom­bing è anche una forma di pro­te­sta con­tro il com­por­ta­mento di una impresa nei con­fronti dei lavo­ra­tori, o della poli­zia o di una isti­tu­zione sta­tale. Ciò che appare povero a Han Byung-Chul è, in que­sto caso, denso della ric­chezza delle rela­zioni sociale nella defi­ni­zione dell’obiettivo da rag­giun­gere.
La cate­go­ria dello sciame perde quindi la sua capa­cità ana­li­tica nel descri­vere com­por­ta­menti sociali. In altri ter­mini, fun­ziona solo come una foto­gra­fia scat­tata dall’esterno. Più che il movi­mento defi­ni­sce la sta­ti­cità di una situa­zione. E nulla dice delle dina­mi­che all’interno dello sciame-movimento e tra que­sto e il con­te­sto sociale «esterno». In altri ter­mini, nulla dice dei pro­cessi di for­ma­zione delle sog­get­ti­vità, delle pro­ce­dure attra­verso le quali ven­gono prese le deci­sioni sulla modi­fica dei com­por­ta­menti dello sciame in azione. 
Lo sciame, anche quello assunto dal filo­sofo coreano, riduce l’azione e i con­flitti sociali a feno­meni eto­lo­gici che can­cel­lano quella con­su­mata fusione tra natura e cul­tura che carat­te­rizza lo stare in società e nel mondo. Il sag­gio di Han Byung-Chul è tut­ta­via rile­vante per com­pren­dere il legame tra comu­ni­ca­zione e movi­menti sociali, anche se in forma diversa da quanto pro­spet­tato nel sag­gio Nello sciame. La con­di­vi­sione di un pro­getto e di un obiet­tivo segue logi­che che pos­sono essere rico­struire sem­pre a poste­riori. Per com­pren­dere il per­ché si forma uno sciame – che è imma­gine potente nella sua rap­pre­sen­ta­zione – occorre seguire altri sen­tieri, con­fron­tarsi con la costi­tu­zione mate­riale che pre­cede e tal­volta viene modi­fi­cata dallo sciame. 
Oltre i legami deboli 
Il nodo da scio­gliere è quella sem­pli­cità dif­fi­cile a farsi che è l’elaborazione di un Poli­tico ade­guato all’eclissi dei pro­cessi di for­ma­zione delle iden­tità col­let­tive del pas­sato. Ma per que­sto non ser­vono scor­cia­toie. Nep­pure quelle di mime­tiz­zarsi per ren­dersi visi­bili e tor­nare ano­nimi e dun­que invi­si­bili nel momento in cui sva­ni­scono i legami «deboli» dello sciame. Come inse­gna la gior­nata del primo mag­gio a Milano, esem­pio di uno sciame auto­com­pia­ciuto della sua rap­pre­sen­ta­zione ipermediatica.


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