Lo Sciame Digitale, i Big Data e la Psicopolitica
di Domenico Talia
La nuova folla senza animo e spirito è lo sciame digitale. Così la pensa Byung-Chul Han, il filosofo nato a Seul che insegna filosofia e teoria dei media a Berlino. Negli ultimi anni Han ha pubblicato alcuni saggi sulla globalizzazione e sugli effetti delle nuove tecnologie sugli esseri umani e sulle loro società. Nello sciame. Visioni del digitale (ed. Nottetempo) è l’ultimo suo breve libro pubblicato in Italia. Le riflessioni di Han stavolta sono dedicate al nuovo popolo che vive nel mondo dei media digitali e che lui ha definito, appunto, “sciame digitale”. Una comunità composta da individui anonimi che solo apparentemente condividono pensieri e azioni, ma che spesso si perdono nella conta dei “mi piace” e dei preferiti e non riescono a trovare modalità efficaci per esprimere le loro energie collettive.
Una caratteristica della manifestazione dello stato di eccitazione dello sciame digitale è rappresentata dalle forme di scrittura più emotiva e informale che la comunicazione digitale favorisce: “La comunicazione digitale rende possibile un istantaneo manifestarsi dello stato di eccitazione.” Sono comunicazioni rapide e imperfette, vicine al parlato anche se sono scritte. Quella digitale, a differenza di quella del potere (La comunicazione del potere non è dialogica;) e di gran parte dei mezzi di comunicazione tradizionali (stampa, radio, televisione), è una comunicazione dialogica. Eppure la simmetria comunicativa potenziale non implica necessariamente una simmetria fattuale. Infatti, la comunicazione digitale può modificare i rapporti tra persone, gruppi e organizzazioni, renderli diretti e bypassare i ruoli e le gerarchie, ma spesso questa disintermediazione si realizza soltanto in apparenza, perché i rapporti di potere e di relazione consolidati non si fanno cortocircuitare facilmente dall’informalità e dalla velocità della comunicazione digitale. Anzi, i possessori di poteri (comunicativi) usano con attenzione la comunicazione per trasmettere il proprio messaggio usando le modalità pervasive facilitate dal mezzo digitale.
“Le ondate di indignazione sono molto efficaci nel mobilitare e mantenere desta l’attenzione. … tuttavia, non sono in grado di strutturare il discorso … montano all’improvviso e si disfano altrettanto velocemente.” Osservazione condivisibile perché la protesta digitale è molto spesso effimera, contingente, molte volte sterile e ormai sempre più sostituisce la protesta storica, per come si era definita e sviluppata negli ultimi due secoli. In questa sua sostituzione, di fatto annulla le forme tradizionali e più efficaci di protesta. In primo luogo, perché sorge molto più rapidamente di quelle che richiedono un’espressione e una presenza fisica e quindi sembra renderle obsolete e di scarsa efficacia pratica. In secondo luogo, perché si spegne altrettanto rapidamente come un fuoco di scarsa consistenza, effimero, mancandole i luoghi e i tempi delle proteste tradizionali nella cui fisicità siamo cresciuti. Luoghi che permettono una persistenza che difficilmente viene cancellata dal prossimo argomento del quale indignarsi, come frequentemente accade con rapida periodicità nella rete che è l’ossatura della macchina digitale globale. In questo contesto, il pubblico più giovane viene coinvolto maggiormente nel senzazionalismo digitale con i suoi picchi che si spengono regolarmente nella calma piatta o vengono neutralizzati da nuovi picchi.
Secondo il filosofo coreano: “La massa indignata di oggi è oltremodo superficiale e distratta.” Paradossalmente, la massa digitale, a differenza della massa di individui nel senso classico del termine, non rispetta né la definizione di Isaac Newton che richiede la presenza di una quantità di materia che alla massa digitale sembra mancare e questa assenza non le permette di acquisire un peso da usare sul piano sociale, civile e politico, né quella di Karl Marx che unisce in quel termine una collettività emergente di individui con significativi elementi condivisi e che intendono agire solidalmente per un obiettivo comune. Insomma, una massa evanescente che appare e scompare come un corpo gassoso a bassa densità e con un peso trascurabile, spesso effimero.
Gli sciami digitali esprimono un potere labile e apparente che vive, troppe volte, la vita di una farfalla. È un rumore di protesta rispetto ai poteri reali, primo fra tutti il potere finanziario e la denuncia, anche quando riesce ad avere visibilità globale, non incide con effetti persistenti. La moltitudine digitale conferma la scomparsa delle classi sociali come soggetti politici, anzi è ortogonale alle classi sociali. Le attraversa in maniera indistinta e non riesce ad essere caratterizzata dalle istanze di una o più classi affini. Per queste ragioni la folla digitale non può assumere la forma di un contropotere. Su questo versante Han è critico verso le posizioni ottimistiche di Michael Hardt e Toni Negri che credono nel potere della moltitudine in opposizione al potere del capitalismo (l’Impero).
Han riprende il concetto di Vilém Flusser (La cultura dei media, Bruno Mondadori, 2014), che vede gli essere umani come “computazioni digitali” connesse tra loro, per sottolineare che non basta la disponibilità delle reti telematiche per superare il narcisismo di tanti “io” che egoisticamente interagiscono senza diventare un “Noi”. L’ottimismo di Flusser secondo cui “la società dell’informazione realizza una strategia per abolire l’ideologia del Sé isolato” non è condiviso dal filosofo coreano e le sue perplessità hanno ragion d’essere se si guarda ai social network che spesso non eliminano il Sé, ma lo amplificano realizzando una interazione “di un attimo che rende felici (kairos), facendo sparire per incanto la distanza spazio-temporale”, ma che è soltanto temporanea, effimera e fatua e soltanto in casi molto particolari permette il sorgere di aggreg(azioni) efficaci e persistenti.
L’altro grande tema che nella parte finale del suo saggio Han affronta è quello dell’accumulo informativo che le macchine e le reti digitali determinano: “Un aumento d’informazioni non porta necessariamente a decisioni migliori. … Da un certo punto in poi, l’informazione non è più informativa, ma deformativa.” I problemi della raccolta dei dati e delle informazioni sono oggi centrali per la nostra società e coinvolgono aspetti relativi al controllo sociale, alla manipolazione informativa, alla concentrazione in mani improprie dei dati dei cittadini, al loro uso da parte di privati, delle agenzie governative e dei grandi network commerciali. La ricerca informatica ha semplificato tutto questo con il termine Big Data che, forse non del tutto causalmente somiglia al ben noto Big Brother. Le macchine informatiche che state pensate e realizzate nella metà del secolo scorso per calcolare automaticamente, oggi sono lo strumento più formidabile di generazione di dati e informazioni nelle forme più varie. Il grande mare di dati digitali è difficile da navigare ed ormai è quasi impossibile trovare in esso le perle di conoscenza che ci servono per comprendere le cose realmente importanti e per prendere le giuste decisioni. Non è per caso che chi, come Google, è stato capace prima e meglio di altri di cercare nei Big Data della rete, ha assunto un ruolo e un potere enorme, molto più ampio e discrezionale di quello dei governi. L’enorme macchina informatica permette di accedere facilmente a patrimoni di informazione ricchi e preziosi, ma allo stesso tempo permette di immettere con facilità e velocità qualsiasi informazione manipolata, contraffatta e quindi non informativa ma deformativa. Lo possono fare i singoli e meglio di loro lo possono fare le organizzazioni, le lobby, i poteri politici e finanziari, i terroristi. Tutto questo costituisce un rischio enorme e una difficoltà sempre maggiore per chi usa l’informazione digitale globale per capire, per formarsi un’opinione o per fare delle scelte.
Il settore del data mining è nato come risposta tecnologica al problema della bulimia informativa e per identificare le parti utili e significative nel mare magnum dei dati digitali. Chi sarà capace di padroneggiare questa tecnologia avrà vantaggi enormi sugli altri che nuotano tra i dati senza trovare la giusta direzione, avrà un potere conoscitivo che gli permetterà di spostare l’asse dei rapporti sociali ed economici usando la leggerezza di una tecnologia di analisi molto sofisticata che fa vedere chiaro dove gli altri scorgono soltanto opacità. È capace di trovare elementi di conoscenza, tendenze e associazioni nei big data che per molti sono soltanto enorme rumore e confusione informativa. Siamo in presenza di una tecnologia che “calcola” i fatti di ordine superiore, le vite dei singoli e prevede i trend sociali e politici, una modalità molto raffinata di “calcolare” la società presente e quella futura.
Anche il consenso nella società del nuovo millennio è sempre più condizionato dai media digitali. Dal punto di vista della partecipazione politica, in questo tempo in cui i partiti si sono rinchiusi in uno stretto recinto di casta e hanno ridotto la loro capacità di rappresentanza democratica, la democrazia digitale non riesce a definire strutture ben formate di discussione, confronto e sintesi. Nella rete “ogni singolo è esso stesso un partito”, le opinioni e i commenti si rincorrono senza una qualsiasi forma di coordinamento o di sbocco fattuale. Tutti gli avvenimenti, in un flusso ininterrotto, passano per gli strumenti digitali e i commenti, le approvazioni e le critiche tanto sono immediate nell’apparire quanto nello svanire nell’infinito streaming di email, post, blog e tweet. Siamo nella democrazia dei like o dei favorite la cui efficacia temporale è quasi nulla. Sono espressioni contingenti che non riescono a costruire una reale dialettica politica che possa giungere a sintesi effettiva e soprattutto ad un vero processo dialettico di costruzione del consenso (o del dissenso); ad una prassi che determini scelte reali.
Tutte le azioni che compiamo nella rete sono memorizzate, da noi, dagli altri, dai singoli dispositivi, dalla rete stessa: Scrive Han: “Ogni click che faccio viene registrato; ogni passo che compio diventa ricostruibile.” Siamo in una prossimità digitale che ci appare simile alla prossimità fisica e in parte lo è, ma non completamente. Nel sistema sociale digitale siamo tutti più vicini, sappiamo degli altri e ognuno di noi è potenzialmente in diretto contatto con tutti gli altri. Riceviamo direttamente le informazioni, le posizioni, le azioni che le persone compiono in tempo reale, come se vivessimo vicini a tutti quelli di cui veniamo a sapere o di quelli ai quali siamo interessati. La macchina digitale diventa un piccolo mondo dove tutti ci possiamo sentire attigui; come in un piccolo paese, in una piccola comunità, possiamo controllare quello che gli altri dicono, dove vanno, cosa fanno. Le altre persone possono fare lo stesso nei nostri confronti in una specie di universo trasparente dove tutti possono controllare tutti. Nasce così un controllo sociale digitale che ci dà un senso di vicinanza senza che mai i nostri corpi si incrocino, senza correre il rischio di inciampare sulla stessa via e con la possibilità di allontanarci se veramente lo desideriamo, sparendo, almeno momentaneamente. Le nostre vite diventano “calcolabili”. Sulla base delle tracce digitali che lasciamo nella rete, possiamo essere studiati, analizzati, la nostra vita può essere prevista con una certa accuratezza. Quando questo avviene su grande scala, è la società in cui viviamo a diventare “calcolabile” per prevederne gli sviluppi, i comportamenti singoli e collettivi, per calcolare il nostro futuro sulla base del protocollo digitale che registra il nostro passato e il nostro presente.
I nostri comportamenti digitali sono osservati, memorizzati e messi insieme per costruire profili di vita. “Il vedere coincide con il sorvegliare. Ciascuno sorveglia ogni altro.” È una sorveglianza digitale fatta di post, tweet, mail, foto, filmati, preferenze, brani vocali registrati o spediti, geolocalizzazioni. Tutti elementi informativi che costituiscono contenuti osservazionali che un tempo poteva acquisire soltanto che viveva in prossimità fisica con noi. Le webcam, le telecamere degli smartphone, i sensori, i Google Glass, oggi svolgono lo stesso ruolo degli occhi dei nostri vicini, dei condomini, dei pettegoli che sorvegliano, registrano e controllano tutto quello che facciamo durante le nostre giornate. In un’altra affermazione di Han, in questo caso per nulla originale: “L’analisi dei big data permette di conoscere modelli di comportamento che rendono possibili anche delle previsioni.” c’è un altro richiamo al desiderio di calcolare i comportamenti dei singoli e della collettività e tramite la calcolabilità delle vite arrivare alla calcolabilità del futuro, desiderio sempre vivo negli uomini. Oggi molti fenomeni complessi del reale vengono modellati e risolti tramite un insieme di algoritmi che eseguiti sui calcolatori ci mostrano soluzioni a problemi che neanche le equazioni della matematica e della fisica ci sanno spiegare. Gli algoritmi di analisi dei big data sono un chiaro esempio di questa trasformazione dei modelli di spiegazione del reale. Non esiste una formula matematica che ci possa descrivere il comportamento dei consumatori di un prodotto o dei pazienti di un ospedale, ma esistono oramai algoritmi di data mining che, a partire dai dati degli acquisti o degli esami sanitari, costruiscono con precisione molto accurata i profili dei consumatori o dei pazienti. Quello che i tecnici chiamano profiling è, a tutti gli effetti, una conoscenza dall’interno dei meccanismi di pensiero e di azione delle persone. Una sorta di analisi psicologica a loro insaputa che fornisce a chi la svolge un vantaggio conoscitivo enorme. Oggi, e domani ancora di più, le teorie comportamentali e le teorie sociali vengono costruite da chi raccoglie i dati sulla vita dei singoli senza che loro lo sappiano, soltanto prelevandoli dall’ecosistema digitale, dove gli stessi soggetti o i loro “contatti” li hanno inseriti, a volte a loro insaputa. La costruzione di una teoria non trae più origine dal definire un insieme di regole che spiegano un fenomeno o un comportamento, ma dall’analisi di grandi quantità di piccoli brandelli di dati (una foto, un tweet, un’email, un record, una pagina web). Tramite l’ingestione e la digestione di tanti di questi dati, il software di analisi costruisce e propone una teoria comportamentale che nessuna equazione prima ha mai saputo definire. Per dirla con Han, “la possibilità di ricavare modelli comportamentali dai big data annuncia l’inizio di una psicopolitica digitale”, scenario inquietante in cui tutti stiamo entrando senza esserne consapevoli.
Articolo pubblicato il 3 dicembre 2015 da helena janeczek su http://www.nazioneindiana.com
Per saperne di più consiglio anche la lettura di quanto segue:
La nuova folla senza animo e spirito è lo sciame digitale. Così la pensa Byung-Chul Han, il filosofo nato a Seul che insegna filosofia e teoria dei media a Berlino. Negli ultimi anni Han ha pubblicato alcuni saggi sulla globalizzazione e sugli effetti delle nuove tecnologie sugli esseri umani e sulle loro società. Nello sciame. Visioni del digitale (ed. Nottetempo) è l’ultimo suo breve libro pubblicato in Italia. Le riflessioni di Han stavolta sono dedicate al nuovo popolo che vive nel mondo dei media digitali e che lui ha definito, appunto, “sciame digitale”. Una comunità composta da individui anonimi che solo apparentemente condividono pensieri e azioni, ma che spesso si perdono nella conta dei “mi piace” e dei preferiti e non riescono a trovare modalità efficaci per esprimere le loro energie collettive.
Una caratteristica della manifestazione dello stato di eccitazione dello sciame digitale è rappresentata dalle forme di scrittura più emotiva e informale che la comunicazione digitale favorisce: “La comunicazione digitale rende possibile un istantaneo manifestarsi dello stato di eccitazione.” Sono comunicazioni rapide e imperfette, vicine al parlato anche se sono scritte. Quella digitale, a differenza di quella del potere (La comunicazione del potere non è dialogica;) e di gran parte dei mezzi di comunicazione tradizionali (stampa, radio, televisione), è una comunicazione dialogica. Eppure la simmetria comunicativa potenziale non implica necessariamente una simmetria fattuale. Infatti, la comunicazione digitale può modificare i rapporti tra persone, gruppi e organizzazioni, renderli diretti e bypassare i ruoli e le gerarchie, ma spesso questa disintermediazione si realizza soltanto in apparenza, perché i rapporti di potere e di relazione consolidati non si fanno cortocircuitare facilmente dall’informalità e dalla velocità della comunicazione digitale. Anzi, i possessori di poteri (comunicativi) usano con attenzione la comunicazione per trasmettere il proprio messaggio usando le modalità pervasive facilitate dal mezzo digitale.
“Le ondate di indignazione sono molto efficaci nel mobilitare e mantenere desta l’attenzione. … tuttavia, non sono in grado di strutturare il discorso … montano all’improvviso e si disfano altrettanto velocemente.” Osservazione condivisibile perché la protesta digitale è molto spesso effimera, contingente, molte volte sterile e ormai sempre più sostituisce la protesta storica, per come si era definita e sviluppata negli ultimi due secoli. In questa sua sostituzione, di fatto annulla le forme tradizionali e più efficaci di protesta. In primo luogo, perché sorge molto più rapidamente di quelle che richiedono un’espressione e una presenza fisica e quindi sembra renderle obsolete e di scarsa efficacia pratica. In secondo luogo, perché si spegne altrettanto rapidamente come un fuoco di scarsa consistenza, effimero, mancandole i luoghi e i tempi delle proteste tradizionali nella cui fisicità siamo cresciuti. Luoghi che permettono una persistenza che difficilmente viene cancellata dal prossimo argomento del quale indignarsi, come frequentemente accade con rapida periodicità nella rete che è l’ossatura della macchina digitale globale. In questo contesto, il pubblico più giovane viene coinvolto maggiormente nel senzazionalismo digitale con i suoi picchi che si spengono regolarmente nella calma piatta o vengono neutralizzati da nuovi picchi.
Secondo il filosofo coreano: “La massa indignata di oggi è oltremodo superficiale e distratta.” Paradossalmente, la massa digitale, a differenza della massa di individui nel senso classico del termine, non rispetta né la definizione di Isaac Newton che richiede la presenza di una quantità di materia che alla massa digitale sembra mancare e questa assenza non le permette di acquisire un peso da usare sul piano sociale, civile e politico, né quella di Karl Marx che unisce in quel termine una collettività emergente di individui con significativi elementi condivisi e che intendono agire solidalmente per un obiettivo comune. Insomma, una massa evanescente che appare e scompare come un corpo gassoso a bassa densità e con un peso trascurabile, spesso effimero.
Gli sciami digitali esprimono un potere labile e apparente che vive, troppe volte, la vita di una farfalla. È un rumore di protesta rispetto ai poteri reali, primo fra tutti il potere finanziario e la denuncia, anche quando riesce ad avere visibilità globale, non incide con effetti persistenti. La moltitudine digitale conferma la scomparsa delle classi sociali come soggetti politici, anzi è ortogonale alle classi sociali. Le attraversa in maniera indistinta e non riesce ad essere caratterizzata dalle istanze di una o più classi affini. Per queste ragioni la folla digitale non può assumere la forma di un contropotere. Su questo versante Han è critico verso le posizioni ottimistiche di Michael Hardt e Toni Negri che credono nel potere della moltitudine in opposizione al potere del capitalismo (l’Impero).
Han riprende il concetto di Vilém Flusser (La cultura dei media, Bruno Mondadori, 2014), che vede gli essere umani come “computazioni digitali” connesse tra loro, per sottolineare che non basta la disponibilità delle reti telematiche per superare il narcisismo di tanti “io” che egoisticamente interagiscono senza diventare un “Noi”. L’ottimismo di Flusser secondo cui “la società dell’informazione realizza una strategia per abolire l’ideologia del Sé isolato” non è condiviso dal filosofo coreano e le sue perplessità hanno ragion d’essere se si guarda ai social network che spesso non eliminano il Sé, ma lo amplificano realizzando una interazione “di un attimo che rende felici (kairos), facendo sparire per incanto la distanza spazio-temporale”, ma che è soltanto temporanea, effimera e fatua e soltanto in casi molto particolari permette il sorgere di aggreg(azioni) efficaci e persistenti.
L’altro grande tema che nella parte finale del suo saggio Han affronta è quello dell’accumulo informativo che le macchine e le reti digitali determinano: “Un aumento d’informazioni non porta necessariamente a decisioni migliori. … Da un certo punto in poi, l’informazione non è più informativa, ma deformativa.” I problemi della raccolta dei dati e delle informazioni sono oggi centrali per la nostra società e coinvolgono aspetti relativi al controllo sociale, alla manipolazione informativa, alla concentrazione in mani improprie dei dati dei cittadini, al loro uso da parte di privati, delle agenzie governative e dei grandi network commerciali. La ricerca informatica ha semplificato tutto questo con il termine Big Data che, forse non del tutto causalmente somiglia al ben noto Big Brother. Le macchine informatiche che state pensate e realizzate nella metà del secolo scorso per calcolare automaticamente, oggi sono lo strumento più formidabile di generazione di dati e informazioni nelle forme più varie. Il grande mare di dati digitali è difficile da navigare ed ormai è quasi impossibile trovare in esso le perle di conoscenza che ci servono per comprendere le cose realmente importanti e per prendere le giuste decisioni. Non è per caso che chi, come Google, è stato capace prima e meglio di altri di cercare nei Big Data della rete, ha assunto un ruolo e un potere enorme, molto più ampio e discrezionale di quello dei governi. L’enorme macchina informatica permette di accedere facilmente a patrimoni di informazione ricchi e preziosi, ma allo stesso tempo permette di immettere con facilità e velocità qualsiasi informazione manipolata, contraffatta e quindi non informativa ma deformativa. Lo possono fare i singoli e meglio di loro lo possono fare le organizzazioni, le lobby, i poteri politici e finanziari, i terroristi. Tutto questo costituisce un rischio enorme e una difficoltà sempre maggiore per chi usa l’informazione digitale globale per capire, per formarsi un’opinione o per fare delle scelte.
Il settore del data mining è nato come risposta tecnologica al problema della bulimia informativa e per identificare le parti utili e significative nel mare magnum dei dati digitali. Chi sarà capace di padroneggiare questa tecnologia avrà vantaggi enormi sugli altri che nuotano tra i dati senza trovare la giusta direzione, avrà un potere conoscitivo che gli permetterà di spostare l’asse dei rapporti sociali ed economici usando la leggerezza di una tecnologia di analisi molto sofisticata che fa vedere chiaro dove gli altri scorgono soltanto opacità. È capace di trovare elementi di conoscenza, tendenze e associazioni nei big data che per molti sono soltanto enorme rumore e confusione informativa. Siamo in presenza di una tecnologia che “calcola” i fatti di ordine superiore, le vite dei singoli e prevede i trend sociali e politici, una modalità molto raffinata di “calcolare” la società presente e quella futura.
Anche il consenso nella società del nuovo millennio è sempre più condizionato dai media digitali. Dal punto di vista della partecipazione politica, in questo tempo in cui i partiti si sono rinchiusi in uno stretto recinto di casta e hanno ridotto la loro capacità di rappresentanza democratica, la democrazia digitale non riesce a definire strutture ben formate di discussione, confronto e sintesi. Nella rete “ogni singolo è esso stesso un partito”, le opinioni e i commenti si rincorrono senza una qualsiasi forma di coordinamento o di sbocco fattuale. Tutti gli avvenimenti, in un flusso ininterrotto, passano per gli strumenti digitali e i commenti, le approvazioni e le critiche tanto sono immediate nell’apparire quanto nello svanire nell’infinito streaming di email, post, blog e tweet. Siamo nella democrazia dei like o dei favorite la cui efficacia temporale è quasi nulla. Sono espressioni contingenti che non riescono a costruire una reale dialettica politica che possa giungere a sintesi effettiva e soprattutto ad un vero processo dialettico di costruzione del consenso (o del dissenso); ad una prassi che determini scelte reali.
Tutte le azioni che compiamo nella rete sono memorizzate, da noi, dagli altri, dai singoli dispositivi, dalla rete stessa: Scrive Han: “Ogni click che faccio viene registrato; ogni passo che compio diventa ricostruibile.” Siamo in una prossimità digitale che ci appare simile alla prossimità fisica e in parte lo è, ma non completamente. Nel sistema sociale digitale siamo tutti più vicini, sappiamo degli altri e ognuno di noi è potenzialmente in diretto contatto con tutti gli altri. Riceviamo direttamente le informazioni, le posizioni, le azioni che le persone compiono in tempo reale, come se vivessimo vicini a tutti quelli di cui veniamo a sapere o di quelli ai quali siamo interessati. La macchina digitale diventa un piccolo mondo dove tutti ci possiamo sentire attigui; come in un piccolo paese, in una piccola comunità, possiamo controllare quello che gli altri dicono, dove vanno, cosa fanno. Le altre persone possono fare lo stesso nei nostri confronti in una specie di universo trasparente dove tutti possono controllare tutti. Nasce così un controllo sociale digitale che ci dà un senso di vicinanza senza che mai i nostri corpi si incrocino, senza correre il rischio di inciampare sulla stessa via e con la possibilità di allontanarci se veramente lo desideriamo, sparendo, almeno momentaneamente. Le nostre vite diventano “calcolabili”. Sulla base delle tracce digitali che lasciamo nella rete, possiamo essere studiati, analizzati, la nostra vita può essere prevista con una certa accuratezza. Quando questo avviene su grande scala, è la società in cui viviamo a diventare “calcolabile” per prevederne gli sviluppi, i comportamenti singoli e collettivi, per calcolare il nostro futuro sulla base del protocollo digitale che registra il nostro passato e il nostro presente.
I nostri comportamenti digitali sono osservati, memorizzati e messi insieme per costruire profili di vita. “Il vedere coincide con il sorvegliare. Ciascuno sorveglia ogni altro.” È una sorveglianza digitale fatta di post, tweet, mail, foto, filmati, preferenze, brani vocali registrati o spediti, geolocalizzazioni. Tutti elementi informativi che costituiscono contenuti osservazionali che un tempo poteva acquisire soltanto che viveva in prossimità fisica con noi. Le webcam, le telecamere degli smartphone, i sensori, i Google Glass, oggi svolgono lo stesso ruolo degli occhi dei nostri vicini, dei condomini, dei pettegoli che sorvegliano, registrano e controllano tutto quello che facciamo durante le nostre giornate. In un’altra affermazione di Han, in questo caso per nulla originale: “L’analisi dei big data permette di conoscere modelli di comportamento che rendono possibili anche delle previsioni.” c’è un altro richiamo al desiderio di calcolare i comportamenti dei singoli e della collettività e tramite la calcolabilità delle vite arrivare alla calcolabilità del futuro, desiderio sempre vivo negli uomini. Oggi molti fenomeni complessi del reale vengono modellati e risolti tramite un insieme di algoritmi che eseguiti sui calcolatori ci mostrano soluzioni a problemi che neanche le equazioni della matematica e della fisica ci sanno spiegare. Gli algoritmi di analisi dei big data sono un chiaro esempio di questa trasformazione dei modelli di spiegazione del reale. Non esiste una formula matematica che ci possa descrivere il comportamento dei consumatori di un prodotto o dei pazienti di un ospedale, ma esistono oramai algoritmi di data mining che, a partire dai dati degli acquisti o degli esami sanitari, costruiscono con precisione molto accurata i profili dei consumatori o dei pazienti. Quello che i tecnici chiamano profiling è, a tutti gli effetti, una conoscenza dall’interno dei meccanismi di pensiero e di azione delle persone. Una sorta di analisi psicologica a loro insaputa che fornisce a chi la svolge un vantaggio conoscitivo enorme. Oggi, e domani ancora di più, le teorie comportamentali e le teorie sociali vengono costruite da chi raccoglie i dati sulla vita dei singoli senza che loro lo sappiano, soltanto prelevandoli dall’ecosistema digitale, dove gli stessi soggetti o i loro “contatti” li hanno inseriti, a volte a loro insaputa. La costruzione di una teoria non trae più origine dal definire un insieme di regole che spiegano un fenomeno o un comportamento, ma dall’analisi di grandi quantità di piccoli brandelli di dati (una foto, un tweet, un’email, un record, una pagina web). Tramite l’ingestione e la digestione di tanti di questi dati, il software di analisi costruisce e propone una teoria comportamentale che nessuna equazione prima ha mai saputo definire. Per dirla con Han, “la possibilità di ricavare modelli comportamentali dai big data annuncia l’inizio di una psicopolitica digitale”, scenario inquietante in cui tutti stiamo entrando senza esserne consapevoli.
Articolo pubblicato il 3 dicembre 2015 da helena janeczek su http://www.nazioneindiana.com
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Triste risveglio, 30 anni dopo: internet più gendarme che Pinocchio, l'emancipazione non è necessaria ma la guerra digitale sì
Risvolto
La trasparenza e i dispositivi digitali
hanno cambiato gli uomini e il loro modo di pensare. Alla comunicazione
in presenza, alla capacità di analisi e alla visione del futuro si sono
sostituiti interlocutori fantasmatici immersi in un presente continuo e
sempre visualizzabile attraverso uno schermo. Il soggetto capace di
annullarsi in una folla che marcia per un’azione comune, ha ceduto il
passo a uno sciame digitale di individui anonimi e isolati, che si
muovono disordinati e imprevedibili come insetti. Han si interroga su
ciò che accade quando una società – la nostra – rinuncia al racconto di
sé per contare i “mi piace”, quando il privato si trasforma in un
pubblico che cannibalizza l’intimità e la privacy. E su che cosa
comporta abdicare al significato e al senso per un’informazione ovunque
reperibile ma spesso non attendibile.
La povertà dell’homo digitalis
Marco Dotti, il Manifesto 14.5.2015
Forse dovremmo tornare a servirci di
una vecchia parola, da troppo tempo dismessa dalla cassetta degli
attrezzi: alienazione. Marx parla per la prima volta di alienazione
(Entfremdung) nella sua tesi di laurea. Una tesi dedicata – come si
sa — alle Differenze fra la filosofia della natura di Democrito e
quella di Epicuro. Qui, discutendo di atomismo, Marx nota come
persino nell’atomo, nell’apparentemente unico e indiviso, vi sia
contraddizione, ossia un movimento che scinde, divide.
A essere separati, in questa visione delle cose e del mondo, sono
esistenza e essenza. La prima, alienata dalla seconda. Ecco perché
nell’alienazione — come avrebbe detto Adorno — «la vita non vive».
Sperimenta, ma non vive. Non vive e non imprime quelle tracce
d’esperienza che siamo soliti chiamare «il vissuto».
In tedesco, due parole indicano le forme dell’ «esperienza»:
Erlebnissen e Erfahrungen. Con la prima, siamo nel campo
dell’episodico, di ciò che non si concatena. Con la seconda forma di
esperienza, Erfahrungen, siamo nel campo di ciò che lascia tracce,
segni, porta a mutamenti, eppure marca un’unità. Il fatto che, come
scriveva Walter Benjamin, noi si sia entrati in un’epoca ricca di
esperienze episodiche e povera di Erfahrungen, è un dato
autoevidente. Per ogni episodio, per ogni frammento esperienziale
del primo tipo, cerchiamo marcatori esterni. Ma il «fuori» è
precisamente ciò che ci sfugge: il mondo, afferma Byung-Chul Han, è
diventato additivo, non narrativo. Sovrapponiamo frammento a
frammento, sperando di «fare spessore». Dalle vecchie fotografie e
dai vecchi cimeli di viaggio, che ancora tentavano di
«raccontare», siamo passati al marcatore instagram, al «mi piace»,
al «sono qui», alle mappe che si ridefiniscono infinitamente
perché infinitamente mobili e auto-organizzantisi attorno al
«puntino» che ci rappresenta su uno schermo. Alla messa in scena, con
le funzioni «periscope» e le telecamere connesse ventiquattro
ore su ventiquattro che verranno, si unisce il retro scena.
Povertà dell’esperienza
Passo dopo passo, ma sempre col passo del gambero, l’alienazione dal
mondo diventa, come Marx ci ha insegnato, alienazione del mondo.
Inutile negare che la potenza con cui questa doppia elica alienante
si torce ha subito e subisce un’accelerazione sempre più radicale.
Sull’assoluta povertà di esperienza (Erfahrungen), sulla simmetrica
proliferazione di frammenti esperienziali e sulla
sovraesposizione pornografica del sé nella nostra postmodernità
digitale ha molto insistito Byung-Chul Han, filosofo tedesco di
origine coreana, che sulla coda lunga della Scuola di Francoforte si è
fatto conoscere anche dai lettori italiani, grazie ai tre volumi
editi da Nottetempo, La società della stanchezza, Eros in agonia e
La società della trasparenza oltre a un interessante ebook edito da
goWare pochi mesi fa: Razionalità digitale. La fine dell’agire
comunicativo.
A questi lavori, si affianca ora Nello sciame. Visioni del digitale
(traduzione di Federica Buongionro, pp. 105, euro 12) che in
qualche modo li integra e ne viene integrato. Al cuore della
riflessione di Byung-Chul Han c’è una critica, molto chiara e
evidente, a una visione dell’uomo immerso e alienato in uno pseudo
ambiente digitale. È quella che l’autore chiama «antropologia
idealizzata dello sciame creativo». Un’antropologia che si è
declinata in forme di spiritualismo, più o meno manifeste, che
hanno finito col convergere verso una sorta di pentecostalismo
digitale fondato sulla promessa di liberare l’uomo dal sé isolato,
producendo uno spirito capace di intonarsi con il simulacro
dell’altro (in realtà: solo una diversa declinazione dell’ «uguale) in
uno spazio comune di risonanza (il web).
Ciò che si è prodotto, dopo i primi decenni di net-entusiasmo, è però
nient’altro che uno sciame acefalo, una folla di tipo orizzontale
l’avrebbe chiamata Gustave Le Bon, in balia di un messianismo della
connessione integrale sempre di là da venire eppure capace, già qui e
ora, di dispiegare i suoi effetti nefasti. Assistiamo così
all’erosione dello spazio pubblico, inteso come luogo del noi –
un’erosione condotta però proprio in nome del «noi». L’Uguale
risplende in una società interamente deprivata del suo «negativo»,
dove non solo ogni forma di opposizione, ma anche ogni azione è
preventivamente eliminata e sostituita da un’informazione.
Informarsi equivale a esserci. Comunicare equivale a essere.
Questo il teorema di una società dove ogni interstizio e ogni
chiaro-scuro viene bruciato in nome del nuovo idolo: la trasparenza.
In nome della prestazione
Domina, in questa società, la forma del «soggetto di prestazione».
Un soggetto avvinto in pratiche di auto-ottimizzazione dello
sfruttamento di sé anche quando non lavora, anche quando gioca, anche
quando crea, anche quando si sente immerso in un flow che chiama
«libertà». Ecco perché il soggetto di cui parla Byung-Chul Han tutto è
fuorché un homo ludens. Assomiglia piuttosto a quel homo festivus
di cui parlava Philippe Muray: vivendo il carnevale ogni giorno,
finisce per sovvertire la sovversione, per lottare contro la
lotta e per resistere contro ogni resistenza. Non sbatte i pugni sul
tavolo, non agisce: gioca con le dita su una tastiera. Il reincanto
del mondo passa dal suo stordimento.
La parola «digitale», ci ricorda non a caso Byung-Chul Han, rimanda al
digitus, al dito che conta. L’homo digitalis conta, calcola, misura.
Anche quando non lavora, anche quando «crea» il suo mondo è segnato dal
calcolo e dalla prestazione.
L’homo digitalis non gioca, non crea, tanto meno agisce. L’atrofia
della mano per eccesso di non lavoro porta a un’artrosi digitale delle
dita, rendendo impossibile al soggetto ogni esperienza, anche
l’esperienza della sottrazione fondamentale che lo riguarda.
Piaccia o meno il tono quasi profetico di Byung-Chul Han, la sua
diagnosi è spietata ma improntata al realismo: dal digitale non è
nata alcuna resistenza materiale che si possa superare per mezzo del
lavoro. Al contrario, il lavoro si è avvicinato – questo sì – al
gioco, ma nella sua dimensione digitale non ha dato vita ad alcun
tempo dell’ozio. L’antropologia idealizzata della classe creativa
avrebbe prodotto quindi solo l’ennesima alienazione. Anche la
biopolitica, nella visione di Byung-Chul Han, ha fatto il suo corso.
La società digitale è oramai postmortale, postnatale,
post-politica, ma anche post-panottica – avverte Byung-Chul Han. Solo se
gli atomi si connettono l’un l’altro, in una rete che li isola nel
momento stesso in cui li avvince questo sistema può reggere. I big
data, il data mining, la possibilità di controllare lo sciame
partendo dalla previsione affettiva, emotiva, impulsiva dei suoi
movimenti sembra aprire le porte a un tempo segnato da qualcosa che
potremmo chiamare «psicopolitica digitale». Uscirne è la
questione cruciale.
Il click che fa movimento
Salone del libro. Dalle strategie militari all’intelligenza
artificiale, all’analisi della realtà contemporanea. La fortuna
accademica dello «sciame»
Benedetto Vecchi, il Manifesto 14.5.2015
Il Muro di Berlino è caduto da pochi
mesi e oltre le macerie del socialismo reale ha lasciato sul campo i
manuali di strategia militare usati tanto ad Est che ad ovest del
vecchio continente. La pianificazione su come organizzare gli
eserciti della Nato o del Patto di Varsavia sono ormai carta
straccia. In Cina qualche eccentrico generale comincia a definire
nuove strategie per un mondo unipolare dove Pechino punta a
diventare una nuova superpotenza economica e militare. Per
questo, l’esercito popolare deve riorganizzarsi, partendo da una
situazione di svantaggio tecnologico, ma con una carta vincente
che gli Stati Uniti non hanno: la conoscenza del territorio e un
saldo legame con la realtà sociale. Pechino immagina scenari di
resistenza a una possibile invasione nemica, ma la teoria della
«guerra simmetrica» è, nel tempo, diventata una sorta di bibbia per
gli eserciti regolari del ventunesimo secolo.
I robot in azione
Dall’altra parte del Pacifico, gli Stati Uniti hanno un problema da
risolvere: gestire una politica imperiale che prevede la
possibilità di spostare in tempi rapidi le truppe ai quattro angoli
del pianeta. L’esercito è visto come una forza di intervento
poliziesco anche per fronteggiare insurrezioni popolari. Ed è in
questa cornice che i think tank legati al Pentagono cominciano a
sfornare studi su come organizzare unità dell’esercito a stelle e
strisce per assolvere funzioni sia militari che di polizia. Il
testo, che farà scuola, della organizzazione non governativa e
conservatrice Rand Corporation analizza a fondo non tanto come
debba essere organizzato un esercito, ma come si muovono i
«movimenti insurrezionali».
Con straordinaria capacità analitica, la Rand Corporation parla
dei movimenti sociali «insorgenti» come «sciami» che si formano,
colpiscono per poi dissolversi. Il testo, reperibile in rete
(www.rand.org/pubs/documented_briefings/DB
311.html) e firmato da John Arquilla e David Ronfeldt, anche se
datato è ancora illuminante per la la chiarezza nell’esporre il
punto di vista dell’esercito statunitense come forza di polizia
internazionale, ma anche per la capacità di rappresentare il
conflitto sociale nelle società contemporanee: i movimenti sociali
sono caotici, eterogenei, senza una organizzazione centrale di
coordinamento, ma quando agiscono appaiono come uno sciame, dove
ogni partecipante si muove come se tutto sia stato attentamente
organizzato.
Nello stesso arco di tempo, fisici, matematici, filosofi e
programmatori di computer sono alle prese con gli sconfortanti
fallimenti dei progetti di intelligenza artificiale. Le speranze
di costruire una macchina «pensante» sono, allora, archiviate come
un sogno troppo bello per essere vero. Qualcuno, però, tira fuori un
esperimento di Alan Turing – ma alcuni storici della scienza dicono
che è da attribuire ad altri – in base al quale se un umano «dialoga»
con una macchina che fornisce risposte dotate di senso, sarebbe
legittimo parlare di intelligenza. Se prendiamo un numero più o
meno esteso di macchine informatiche o di robot che «comunicano»
possono produrre comportamenti che a un osservatore esterno
appaiono «intelligenti». I soliti informati qualificherebbero i
ricercatori che organizzano in questa maniera il software, la
comunicazione e le modalità di reazioni di macchine
informatiche o robot come «connessionisti»; Più prosaicamente
qualcuno a cominciato a parlare di «sciami intelligenti».
Stucchevole naturalismo
La convergenza tra strateghi militare e ricercatori di computer
science nell’uso del termine sciame non deve meravigliare. Il mondo
animale è stato infatti spesso usato per parlare del funzionamento
della società o della politica – La favola delle api di Bernard de
Mandeville o il Leviatano di Thomas Hobbes -, anche per
ratificare il fatto che anche gli umani sono una specie animale,
seppur particolare. Gli sciami costituiscono, se osservati
dall’esterno, una forma di sofisticata e precisa organizzazione,
dove ogni componente svolge un’azione sincronizzata a quelle dei
suoi simili. Ciò che è amorfo, annotavano gli studiosi della Rand
Corporation, appare invece come una perfetta organizzazione. Lo
sciame può dunque essere presentato come una forma di
organizzazione finalizzata a uno scopo che può essere sciolta ogni
volta che l’obiettivo è stato raggiunto. Una prospettiva analitica
che pecca di «naturalismo» e che nulla spiega del come lo sciame si
forma e di come viene definito l’obiettivo. In altri termini è una
rappresentazione che funziona come una fotografia, o un video che
ha bisogno di una distanza ed esternità da quanto accade. Eppure lo
sciame è usato per spiegare le modalità della comunicazione in
Rete, per descrivere le azioni dei movimenti sociali dentro uno
spazio definito – quasi sempre una metropoli -, quasi riuscisse a
cogliere un nucleo di realtà altrimenti inafferrabile.
Lo stile povero del web
Il filosofo tedesco di origini coreane Han Byung-Chul utilizza lo
sciame per descrivere le modalità della comunicazione nella Rete,
assegnando ai social media e ai social network la responsabilità di
una comunicazione povera dovuta ai «format» imposti agli utenti,
sia a causa della limitazione fisiche – con Twitter non si possono
usare più di 140 caratteri – che allo spirito gregario che
favoriscono (i Like di Facebook). Sugli esempi di alienazione,
impoverimento e conformismo che l’autore propone non c’è molto da
obiettare. È esperienza diffusa che tanto più è veloce lo scambio
di informazione, più è facile deviare da quanto stabilisce la
maggioranza.
Nella riflessione di Han Byung-Chul lo sciame perde dunque i
caratteri perturbanti messi in evidenza dalla Rand Corporation e
dai «connessionisti» per assumere il profilo di un forma di azione
sociale e comunicativa omologata allo spirito dominante nella
società. Lo sciame digitale divine folla e a farle da padrone sono quei
sentimenti, modalità di relazione gregaria che escludono ogni
possibilità di trasformare l’esistente.
La fusione oscurata
La realtà è tuttavia più contraddittoria, ambivalente di quella
definita dal filosofo coreano. Certo, l’azione di bullshit (la
denigrazione attraverso l’insulto gratuito e violento, il
bullismo in Rete) assume proporzioni difficilmente
controllabili da qualsiasi «moderatore» o censore della
comunicazione on line, ma il mail bombing è anche una forma di
protesta contro il comportamento di una impresa nei confronti dei
lavoratori, o della polizia o di una istituzione statale. Ciò che
appare povero a Han Byung-Chul è, in questo caso, denso della
ricchezza delle relazioni sociale nella definizione dell’obiettivo
da raggiungere.
La categoria dello sciame perde quindi la sua capacità analitica
nel descrivere comportamenti sociali. In altri termini, funziona
solo come una fotografia scattata dall’esterno. Più che il movimento
definisce la staticità di una situazione. E nulla dice delle
dinamiche all’interno dello sciame-movimento e tra questo e il
contesto sociale «esterno». In altri termini, nulla dice dei
processi di formazione delle soggettività, delle procedure
attraverso le quali vengono prese le decisioni sulla modifica dei
comportamenti dello sciame in azione.
Lo sciame, anche quello assunto dal filosofo coreano, riduce l’azione e
i conflitti sociali a fenomeni etologici che cancellano quella
consumata fusione tra natura e cultura che caratterizza lo stare in
società e nel mondo. Il saggio di Han Byung-Chul è tuttavia
rilevante per comprendere il legame tra comunicazione e movimenti
sociali, anche se in forma diversa da quanto prospettato nel saggio
Nello sciame. La condivisione di un progetto e di un obiettivo
segue logiche che possono essere ricostruire sempre a posteriori.
Per comprendere il perché si forma uno sciame – che è immagine
potente nella sua rappresentazione – occorre seguire altri
sentieri, confrontarsi con la costituzione materiale che precede e
talvolta viene modificata dallo sciame.
Oltre i legami deboli
Il nodo da sciogliere è quella semplicità difficile a farsi che è
l’elaborazione di un Politico adeguato all’eclissi dei processi di
formazione delle identità collettive del passato. Ma per questo
non servono scorciatoie. Neppure quelle di mimetizzarsi per
rendersi visibili e tornare anonimi e dunque invisibili nel
momento in cui svaniscono i legami «deboli» dello sciame. Come
insegna la giornata del primo maggio a Milano, esempio di uno sciame
autocompiaciuto della sua rappresentazione ipermediatica.
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