04 maggio 2018

Quando Leonardo Sciascia era uno scrittore di provincia



L'intervista qui riproposta apparve su “Giovane critica”, che allora si ideava, realizzava e stampava a Catania, nell'inverno del 1964 e poi inserita in una sorta di antologia che il direttore e redattore quasi unico, Giampiero Mughini, pubblicò come bilancio dei dieci anni della rivista. L'intervistatore era – quasi certamente – lo stesso Mughini. (S.L.L.)

La mia esperienza di scrittore in provincia 

Intervista a Leonardo Sciascia (1964)

Tu pensi che si possa parlare oggi di una «morte della provincia» nella accezione delineata da Massimo Ferretti (in un articolo sul “Giorno”)? O che si debba piuttosto parlare di «neoprovincia» e di «neoprovincialismo», cioè di movimenti effettivamente avvenuti ma che riguardano solo certe zone della provincia e, comunque, nei loro aspetti esteriori e di costume?
 
La provincia è morta perché tutto il mondo, oggi, è provincia. Provincia dico, nel senso deteriore. Non c’è niente di più decisamente provinciale, per esempio, degli avanguardismi che si svolgono oggi a livello delle capitali culturali e che nella provincia geografica trovano immediate rifrazioni: velleità ed escogitazioni in cui sì raccoglie, in definitiva, la cattiva coscienza di un paese (espressione che giustamente Ferretti usa nei riguardi della provincia di ieri).

La provincia, quella che fino a quindici anni fa (all'incirca) era area di ritardo e confusione culturale (ma che pure, nonostante il ritardo e dentro la confusione, obbediva a un compito, per così dire, «preparatorio») oggi non esiste più: e non occorre enumerare quegli strumenti che l'hanno portata al livello dei «centri» e che, piuttosto, hanno portato i «centri» al livello della provincia.
 
Perché si va tutti a scuola, ormai: ma non è poi un gran guadagno se la scuola subisce un evidente processo di degradazione. E se vent’anni fa la provincia consumava ancora D'Annunzio mentre i «centri» già consumavano Proust, e invece tre anni fa Musil è stato uniformemente consumato da Torino a Pechino, non c’è gran che da esultare: ché dopo tutto D’Annunzio lo si consumava leggendolo e Musil semplicemente acquistandolo. Ed è senza dubbio un fatto positivo che la provincia abbia perduto, nel livellamento, quei caratteri dannunziani che le erano propri (anche prima di D'Annunzio); ma bisogna considerare che ha perduto anche quei caratteri «umanistici» che pure resistevano sotto il ciarpame dannunziano e che erano poi viatico ai migliori che se ne svincolavano. La scomparsa degli eruditi locali, che non raramente arrivavano a dignità di storici, io ritengo significhi perdita per la cultura nazionale. Un giovane si sentirebbe sminuito, oggi, a dedicarsi a un’onesta ricerca sulla storia del paese natale: vuol «meditare» sulla storia, occuparsi delle teorie storiche di Toynbee e di Ortega. Il che è propriamente provinciale.
Ma ciò non accade soltanto nella provincia geografica.

Una volta — rispondendo all’inchiesta promossa da Il Paradosso sulla «generazione degli anni perduti» — ti dichiarasti «profondamente siciliano», profondamente radicato cioè nella provincia. In che senso tale tua condizione si riflette e determina le tue scelte letterarie (di tema, di linguaggio, ecc.)? Hai mai provato ad emigrare e, in caso affermativo, quale impressione ne hai ricevuto?
 
La mia scelta a vivere in provincia realizza in effetti quel proverbio che dice «meglio soli che male accompagnati». Poiché tutto il mondo è provincia, preferisco vivere nella mia: ché almeno mi consente di star solo invece che male accompagnato. E questa mia scelta si è confermata in una breve esperienza di emigrazione: a Roma, come quasi tutti oggi; e sono tornato senza alcun rimpianto; come ad una riguadagnata libertà, anzi.
Questo per quanto riguarda il mio rapporto con la società letteraria, culturale. C’è poi, nel mio stare in provincia, una più profonda ragione. Noi siciliani siamo condannati (la parola è di Gaetano Trombatore) a scrivere della Sicilia (ma per la verità, dentro questa condanna, io mi sento molto libero): e io ne ho avuto coscienza da sempre. Perché dunque sradicarsene, col rischio di farne memoria e nostalgia, favola e mito? Senza dire che, in senso più generale, è assolutamente ragionevole che lo scrittore risieda nei luoghi umani che meglio conosce, che dia testimonianza di una realtà di cui, per vincoli di sentimento di linguaggio di consuetudini, non gli sfugge nessun movimento nessuna piega nessuna sfumatura.

Come pensi si possa reagire alle forze conservatrici il cui volto in provincia non muta? Per chi, nell’organizzazione della cultura, si prepone obiettivi nuovi e moderni, esistono energie sane da utilizzare e quali? Nei nostri tempi che si fanno sempre più «stretti» esiste in provincia un posto peculiare per l'intellettuale? Riesce cioè egli a svolgervi una funzione che nelle metropoli e nelle sedi dell' «industria culturale» è ormai quasi impossibile?
 
Ritengo che un processo di decentrazione della cultura, cioè degli organismi di produzione della cultura, sia l'unico rimedio. Ma ciò avverrà per un naturale rovesciamento del processo di accentramento che per ora, purtroppo, è in accelerazione.
In accelerazione nonostante che cominci a rivelarsi, in un certo senso, anacronistico.
da “Giovane Critica”, primavera 1964, in Dieci anni di milizia intellettuale tuttofare – “Giovane critica” 31/32 – 1972, Sapere Edizioni

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