04 giugno 2021

IL FUTURO DI SIMONE WEIL

 


COSTRUIRE IL FUTURO. IL MISTICISMO ATTIVO DI SIMONE WEIL

di Roberto Evangelista

 

Ne La fine del mondo Ernesto De Martino accenna a un fondo universalmente umano che soggiace a tutte le diverse soluzioni che l’umanità cerca, ogni qual volta si trova di fronte a situazioni critiche. Questo atteggiamento antropologico, che presuppone il problema della costruzione di un orizzonte nel quale siamo tenuti ad abitare e nel quale dobbiamo sviluppare le nostre capacità, serve a proporre il superamento del cosiddetto vitale crudo e verde, in favore di un rapporto col mondo mediato culturalmente. Questo ci permette di orientarci e costruire comunità umane nelle quali l’empatia, la pietà, la condivisione possano essere valori fondativi. Il ritratto di Simone Weil ‘disegnato’ nell’ultimo volume di Viola Carofalo sembra dipinto con i ‘colori’ di questo problema demartiniano. La suggestione finisce qui: diverso è il contesto, diverse le soluzioni. Eppure il volume Pensare in tempo di sventura. Saggio sulla filosofia di Simone Weil, uscito per la piccola e coraggiosa casa editrice Orthotes, non smette di interrogarci sulle infinite possibilità dell’umano e sulla necessità di elaborare in maniera nuova e diversa l’esistenza. Ne viene fuori una Weil platonica, per la quale è il concetto di giustizia nella sua profonda ambivalenza e contraddittorietà (queste sì, tutte novecentesche perché calate nella corporeità dei rapporti di forza) a essere messo in causa. Infatti, senza aver paura di prendere di petto il nesso tra politica e morale, il filo conduttore individuato dal volume è la necessità di costruire una vita umana giusta, qui e ora, in questa Terra.

 

Il difficile percorso che impone il pensiero di Weil, però, passa per una spoliazione della nostra ‘forza’, un vero e proprio indebolimento dell’umano per uscire dal pericoloso pensiero binario che ci impone il Novecento. La Simone Weil che incontriamo nel libro di Carofalo è capace di pensare in un tempo di sventura, e questo suo pensiero attrae e avvolge, accogliendoci nonostante la sua ruvida spigolosità. Una sventura, quella novecentesca, che si muove attraverso un pensiero nel quale i contrari convivono: rifiutando la logica della non-contraddizione, Weil presenta alcune categorie centrali (non solo per la sua riflessione) come lavoro, divino, collettività, in maniera assolutamente ambivalente: esse sono non sono loro stesse. Sono allo stesso tempo povertà e ricchezza spirituale; schiavitù e libertà; solitudine e relazione. L’essere umano si trova dunque posizionato tra qualcosa che lo agisce, ma che allo stesso tempo – e a prezzo di innumerevoli sofferenze – può determinarne la liberazione. In questa ambivalenza sta la sventura e l’indecisione come occasione irripetibile di costruire un mondo nel quale l’umanità diventi vero e proprio essere collettivo che si garantisce finalmente l’immortalità come genere. In Weil, dunque, un’utopia dal sapore feuerbachiano acquista carne e corpo perché il superamento dell’umano, protagonista della violenta dominazione della natura e della realtà, avviene solo tramite una spersonalizzazione collettiva. L’aspetto centrale della riflessione di Simone Weil emerge, con grande forza e chiarezza, come il tentativo di superare la violenza della materia, utilizzando però il corpo e la sua sofferenza (da non confondere con mortificazione) come mezzo privilegiato. Un tentativo, questo, assolutamente ascrivibile alla tradizione mistica di cui la filosofa fu una attenta e appassionata estimatrice.

 

Il pensiero di Weil, proprio come quello mistico, rimane radicato nell’antinomia senza soluzione, ma in questa tragicità diventa fortemente propositivo, e il tentativo del volume di Carofalo è di vestire i panni della proposta weiliana, attualizzarla se necessario, e trarre una regola per un futuro possibile. Pur senza sintesi, anche in un contesto così ‘sventurato’, la costruzione di una diversa possibilità diventa la priorità più urgente.

Un pensiero dunque dalla forza potente, ma anche dalla forte delicatezza. Tutto in Weil appare in trasparenza, come se la pensatrice volesse costruire un sottile e labile filtro tra le nostre ansie di appropriazione e la realtà, che così – con la giusta distanza dai nostri desideri – può sfuggire alla distruzione destinata a diventare autodistruzione, come dimostrano le vicende del Novecento. Questa distanza è per Weil radicale, perché per istituirla dobbiamo fare lo sforzo di ritirarci, in un processo di negazione di noi stessi che assume la forma di un alleggerimento. Solo così diventa possibile rinquadrare il nostro rapporto con la natura, con il mondo, con l’altro, con la nostra attività, e infine con noi stessi. La cifra dell’interpretazione di Carofalo sta in questa consapevolezza e nella consapevolezza dell’attualità del pensiero di Weil. Fin dall’introduzione, infatti, l’autrice ricorda che per la filosofa francese l’umanità deve abbandonare il suo delirio di dominio per incontrare il suo limite, anche se questo deve significare perdere l’idea di centralità dell’umano: «[il limite]», scrive Carofalo, «non è più solo ciò che ci resiste, ma il punto che segna il passaggio da ciò di cui disponiamo a ciò che è altro – che è, appartiene, all’altro. Questo esterno non è necessariamente estraneo: è il fondo dell’umano, è ciò che è indisponibile. O meglio ciò che, a dispetto di ogni ragion di Stato o ritmo della produttività, deve essere reso indisponibile» (p. 8). Il fondo indisponibile non è propriamente umano, ma è ciò che ci perfeziona come esseri umani perché ci rende empatici e compenetranti di ciò che è altro da noi. Trovare questo fondo, comprendere il limite, è un percorso doloroso che necessita di forza per quel che richiede di abbandonare, e di delicatezza per quel che richiede di ricostruire, ed è una strada che passa per le esperienze più dolorose del Novecento: lo sfruttamento del lavoro, la guerra, il colonialismo. Tappe fondamentali, queste ultime, non solo del pensiero di Weil, ma soprattutto dell’interpretazione che ne fa Viola Carofalo. D’altra parte, queste tappe hanno significato il trionfo di idoli, come la tecnica, la patria, la nazione, che si sono resi protagonisti non solo di grandi mistificazioni, ma anche della costruzione di un orizzonte asfittico e stretto che imponeva all’umanità l’ansia del dominio. Una patria e una nazione non possono che chiuderci verso l’alterità, così come la tecnica si afferma distruggendo ogni elemento sentimentale. Questo è vero, ovviamente, a meno che non siano altri i presupposti che determinano il convivere dell’essere umano con il mondo circostante. E allora, la patria deve cessare di esistere in favore di qualcosa che diventi una casa comune; la nazione deve annullarsi per dare vita a uno spazio dove esercitare la libertà e la condivisione delle decisioni, la tecnica dovrà tramutarsi nello strumento atto a realizzare i fini più creativi. Questo Weil non lo dice esplicitamente, ma la sensazione è che i grandi idoli del Novecento non smettano di agire semplicemente se vengono negati, ma solo se superati sulla base di presupposti nuovi, già esistenti ma imprigionati in vecchi concetti che sono diventati idoli inservibili. Queste energie positive sono “post” umane, perché valorizzerebbero la nostra caratteristica migliore: essere una tendenza, un non concluso che necessita azione perenne.

 

Il pensiero di Weil, è inevitabile, restituisce un senso di incompletezza, ma questa mancanza diventa caratteristica teoretica del suo modo di pensare. Il difficile rapporto tra individuo e collettività è un rapporto ambivalente nel quale il primo rischia di rimanere schiacciato dalla seconda e dunque cerca di dominarla affermando una forza distruttrice. Per uscire da un circolo vizioso così nefasto è necessario stare in questa sventura, viverla e assumerne quell’elemento di decentramento decreazione. Quest’ultimo concetto (forse tra i più originali e pregnanti di Weil) non è altro che l’abbandono e l’obbedienza a una necessità. Un’obbedienza che, spinozianamente, diventa libera adesione al limite dell’umano, a ciò che umano non è, e che ci permette di ritrarci e alleggerirci per fare posto a qualcosa di nuovo. Scrive Carofalo: «in questo abbandono alla necessità si percepisce il limite dell’umano e la sua possibilità: nessun essere vivente è pienamente autonomo, né tantomeno padrone del mondo, non può piegare la natura, la materia dei suoi scopi. Se la sventura è ciò che annienta l’individuo dall’esterno, rendendolo cosa, privandolo del pensiero e del desiderio, la decreazione, il decentramento, muovono dall’interno, sono sradicamento volontario, svuotano l’individuo per fare posto a Dio e all’altro» (p.109). In questo delicato alleggerimento sta il senso mistico e attivo della sofferenza: non più sventura ma opportunità di creare una vita giusta, dove il bisogno di ciò che non è umano ci guida a compiere la nostra natura.

 

Certamente, la riflessione di Weil non è esente da contraddizioni e difficoltà: la relazione tra individuo e collettività appare schiacciata su uno schematismo a volte troppo sbilanciato in favore del secondo termine; il rapporto col marxismo non risulta ben consumato, e in fin dei conti la soluzione mistica ci sembra troppo pericolosa. Tuttavia, la necessità di costruire un mondo diverso emerge con forza spropositata e il rovesciamento di ciò che tendiamo a dare per acquisito diventa un modello per il nostro agire. Il libro di Viola Carofalo traccia le linee di un ritratto contraddittorio e sofferente come quello di Simone Weil, per interrogarsi sui problemi più importanti del presente, e per esprimere l’urgenza della costruzione del futuro.


Articolo ripreso da  http://www.leparoleelecose.it/?p=41766

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