DALL’INIZIO: RISPOSTE SULLA POESIA. MARIA GRAZIA CALANDRONE
Nuovo appuntamento per la rubrica a cura di Anna Toscano, a cadenza quindicinale. Dieci domande a poetesse e a poeti per cercare di conoscere i loro primi avvicinamenti alla poesia, per conoscere i loro albori nella poesia, quali siano stati i primi versi e i primi autori che li hanno colpiti, in quale occasione e per quali vie, e quali i primi che hanno scritto. Le altre puntate sono qui.
Qual è la poesia che hai incontrato, e quando, che ti ha fatto pensare, per la prima volta, che fosse qualcosa di fondamentale?
Il Notturno di Alcmane, in quinta ginnasio, letto dalla mia professoressa Paola Moretti, autrice teatrale, come avrei scoperto anni dopo. Più che fondamentale, pensai a una vera e propria casa, scoprii che le parole erano la mia abitazione. Credo abbia influito la mia educazione, insieme all’aver ascoltato quelle parole mentre ero in collegio, dunque in una distanza da tutto e tutti, in un luogo che non era più casa. È stato lì che all’improvviso è sorta la mia casa.
Qual è il primo autore o autrice che ti è rimasto/a in mente come poeta?
Alcmane, appunto. E non l’ho dimenticato mai più.
C’è stata una persona o un evento nella tua infanzia, o giovinezza, che ti ha avvicinato alla poesia? Chi era? Come è accaduto?
Ho risposto poco fa parlando della mia educazione: la mia mamma adottiva era una professoressa di lettere, fortunatamente un’ottima professoressa, prima alla scuola media e poi al liceo. Devo il mio amore per la poesia al suo amore per la poesia e anche, concretamente, agli esercizi quotidiani di scrittura, sotto forma di diario della giornata, che ogni sera mi faceva fare, al punto che tante volte ho detto – più e meno scherzando – che ancora scrivo per “obbedire alla mamma”.
Quali sono i primi libri di poesia che hai cercato in una biblioteca o in una libreria?
Le poesie di Giorgio Caproni. Mi sono capitate per caso sotto gli occhi in libreria quando ero ancora ragazzina e non le ho più abbandonate. Enorme la sorpresa quando ho seguito un corso universitario proprio su quelle poesie. Come non credere a un segno del destino?
Il primo verso, o la prima poesia, che hai scritto e che hai riconosciuto come tale: quando è stato e in quale circostanza?
Non credo sia ancora avvenuto. O meglio, avviene ogni volta che finisco di scrivere, per poi convincermi di non aver assolutamente raggiunto quello che desidero, ovvero una vasta, ampia, pressoché infinita comprensione.
Quando poi i versi sono arrivati copiosi, quali sono stati i tuoi pensieri?
Che fossero copiati. A parte il gioco di parole, il dubbio era non aver davvero trovato una voce, ma piuttosto essermi impegnata a costruire una specie di collage originale di tutta la poesia che avevo letto. Se fare poesia significa costruire un mondo nuovo, o evocare un mondo che rimane comunque inconoscibile, occorre affinare il linguaggio fino all’incandescenza, perché l’universo che offriamo sia inimitabile e, insieme, non imiti quello di nessun altro.
Quando hai avuto tra le mani le tue prime poesie pubblicate, cosa è accaduto?
Ero molto felice, molto orgogliosa, anche perché si trattava di poesie dedicate e dunque avevo qualcosa di bello da offrire alla persona amata.
La poesia per te è più di una fede o quasi una fede?
Credo che la poesia nasca dalla stessa necessità dalle quali nascono fede e scienza, ovvero l’impulso a conoscere quello che è, fortunatamente, impossibile conoscere.
La poesia inizia?
Non credo, credo che le parole siano da qualche parte che non è un luogo e non ha tempo e noi, semplicemente, le peschiamo.
La poesia finisce?
Tanti becchini, nella storia, hanno ripetutamente celebrato la morte della poesia, ma credo che, poiché la poesia esprime un desiderio umano e l’umano rimane nonostante tutto lo stesso, è impossibile che abbia fine, per lo meno fin che dura l’umanità. Allo stesso modo, nessuna poesia in sé finisce. Credo che in ogni poeta abiti un flusso continuo di scrittura, che ogni volta si deve formalizzare e delimitare in quei singoli capitoli che abbiamo deciso di chiamare poesie e sono soggetti agli inevitabili limiti della lingua.
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