02 maggio 2024

COMPITI DELLA CRITICA. INTERVISTA AD AXEL HONNETH

 


Pubblichiamo la traduzione italiana di un estratto dell’intervista ad Axel Honneth apparsa nella sua interezza in inglese sul numero 5/2023 della «Rivista Italiana di Filosofia Politica», pp. 121-143. Tra le maggiori voci del dibattito filosofico contemporaneo internazionale, Axel Honneth è conosciuto soprattutto per i lavori che ha dedicato alle lotte per il riconoscimento. In questa intervista Honneth ripercorre il suo itinerario filosofico partendo dalle origini della sua vocazione intellettuale per giungere fino al suo libro più recente sulla sovranità del lavoro. Il testo è la trascrizione, rivista dall’autore, del dialogo intavolato con i suoi interlocutori e il pubblico alla masterclass tenutasi il 24 maggio 2023 all’Università di Trento all’interno del ciclo “Voices from Contemporary Philosophy”.


IL COMPITO DELLA CRITICA  E'  METTERE IN DISCUSSIONE LE PREMESSE ONTOLOGICHE DELLA NOSTRA IDENTITA'. INTERVISTA AD  AXEL HONNETH

di Francesca Sofia Alexandratos e Paolo Costa

 

[Pubblichiamo la traduzione italiana di un estratto dell’intervista ad Axel Honneth apparsa nella sua interezza in inglese sul numero 5/2023 della «Rivista Italiana di Filosofia Politica», pp. 121-143. Tra le maggiori voci del dibattito filosofico contemporaneo internazionale, Axel Honneth è conosciuto soprattutto per i lavori che ha dedicato alle lotte per il riconoscimento. In questa intervista Honneth ripercorre il suo itinerario filosofico partendo dalle origini della sua vocazione intellettuale per giungere fino al suo libro più recente sulla sovranità del lavoro. Il testo è la trascrizione, rivista dall’autore, del dialogo intavolato con i suoi interlocutori e il pubblico alla masterclass tenutasi il 24 maggio 2023 all’Università di Trento all’interno del ciclo “Voices from Contemporary Philosophy”.]

 

Wozu noch Philosophie – la filosofia ha ancora uno scopo, un senso?”, è una domanda ciclica per chi ha dedicato la propria vita alla meno specializzata delle attività intellettuali nel secolo della compiuta specializzazione del sapere. Nella tradizione della Teoria critica, la risposta a questa domanda ha generalmente ruotato intorno alla questione del ruolo critico della conoscenza. Ciò ha significato, ad esempio, mettere in discussione il carattere regressivo dell’“idealismo” o l’arcaismo di qualsiasi “philosophia prima” e sottolineare l’importanza dell’interdisciplinarità – del “parlare molte lingue” – nello studio della realtà umana. Possiamo chiederle che ruolo ha avuto questa domanda all’inizio della sua carriera e se le sue risposte sono cambiate nel corso del tempo?

 

Wozu noch Philosophie? è il titolo di un famoso saggio di Adorno, scritto, credo, all’inizio degli anni Sessanta. Torniamo quindi ai primi anni dei miei studi all’Università. Devo iniziare con una confessione. Non ero un ottimo studente al Liceo, alle scuole superiori. Sono stato addirittura bocciato un anno. Ho dovuto ripeterlo, voglio dire, e ho fatto infuriare i miei genitori. Tutti si aspettavano che diventassi quello che tutti nella mia famiglia erano o dovevano diventare, cioè un medico, un dottore. All’improvviso dissi loro che avrei preferito studiare filosofia e nessuno aveva idea del perché mai fossi arrivato a una decisione del genere, perché al Liceo non avevo mostrato alcun segno di particolare interesse per le questioni più o meno filosofiche.

 

Invece, al di fuori della scuola, ero quello che si può definire un grande lettore. Leggevo centinaia di romanzi la sera, ma queste letture non avevano alcuna influenza sul mio rendimento a scuola, dove ero semplicemente un disastro. Così, quando si è posto il problema di cosa studiare, la mia risposta iniziale è stata che volevo studiare “Teatro”. La mia scelta aveva a che fare con il fatto che a quel tempo, la fine degli anni Sessanta (ho fatto la maturità nel 1969), nel pieno del movimento studentesco, credo che oggi non sia più così, il teatro e il cinema erano i luoghi chiave per il dibattito sulle questioni sociali. Soprattutto il teatro. Avevo letto molte opere teatrali a scuola e, di nuovo, senza alcuna influenza sulle mie performance, ma quando si trattò di decidere cosa studiare, pensai: “Ecco. Questo è ciò che voglio fare per affrontare i problemi sociali”. La mia decisione è stata presa sotto l’influsso dei drammaturghi americani (Arthur Miller, Tennessee Williams, John Steinbeck) e francesi – meno di quelli inglesi e non tanto di quelli tedeschi.

 

Così, decisi di studiare teatro, andai all’Università di Colonia, ma mi dissero che recitare era una parte essenziale dello studio. La cosa finì lì, perché il punto è che non mi interessava recitare. Volevo semplicemente studiare il teatro come prestazione intellettuale: cosa significa fare teatro, cosa significa discutere di questioni esistenziali o sociali attraverso il teatro. Se l’avessi saputo, non sarei andato a Colonia, ma a Berlino, perché all’epoca a Berlino c’era la possibilità di studiare teatro senza recitare. Si trattava di un dipartimento di letteratura tedesca, ma con una specializzazione in drammaturgia. Sarebbe stato un posto eccellente e, se solo ne fossi stato a conoscenza, non sarei mai diventato un filosofo, ma uno specialista di letteratura tedesca.

 

Non essendo al corrente di questa possibilità, mi sono chiesto che cosa potessi studiare di altrettanto interessante. Allora mi sembrò che l’unico altro luogo in cui avrei potuto discutere di problemi sociali in senso ampio era la filosofia. Devo dire che i miei genitori rimasero scioccati dalla mia decisione. Nonostante ciò, scelsi comunque di studiare filosofia. Non all’Università di Colonia, ma a Bonn. Anche questa fu una decisione sbagliata, perché Bonn, all’epoca, era un luogo estremamente noioso dove studiare filosofia. Era un’università dominata dal neokantismo. Le persone che vi si recavano erano studiosi che volevano leggere filosofi come Nikolai Hartmann, un pensatore molto rigido e preciso che una volta ebbe un lungo dibattito con Martin Heidegger da cui dipendeva la sua relativa fama. Così, ho iniziato a studiare filosofia a Bonn e mi annoiavo moltissimo, fatta eccezione per un crescente interesse per il pensiero di Kant e Wittgenstein. Lì c’era un discepolo di Wittgenstein che lo aveva persino incontrato personalmente, e ascoltarlo era molto affascinante. Così, decisi subito di trasferirmi in un altro posto, Bochum, non lontano da dove sono nato, Essen, una città industriale della Ruhr. Lì ha sede lo Hegel-Archiv. Non ho idea del perché si trovi a Bochum, visto che Hegel non aveva alcun rapporto con la città, ma è lì ancora oggi.

 

Ho studiato all’Università di Bochum per sei semestri. Ho fatto lì la mia laurea triennale. E in ogni caso sarebbe stato troppo presto per porsi la domanda: perché, per quali ragioni, a quale scopo, fare filosofia? La filosofia era semplicemente il posto giusto per affrontare le questioni più generali dell’ordine sociale, dell’integrazione sociale, della crisi sociale. Il fatto che fossi interessato in senso lato alla comprensione della crisi sociale portava con sé anche una serie di domande su che cosa sia la società, su quali basi si fondino le società, quale sia il meccanismo dell’integrazione sociale, come si possa espandere il conflitto. Tutte queste domande implicavano anche uno studio intensivo della sociologia, bisognava cioè studiare filosofia e sociologia in tandem.

 

Solo gradualmente, dunque, mi sono avvicinato a una risposta meditata alla domanda “perché ancora la filosofia?”. E ovviamente la mia risposta aveva a che fare con l’influenza della Teoria critica, che all’epoca era enorme (parlo del 1972-1974). Voglio dire, c’era ancora il movimento studentesco e la maggiore influenza filosofica sul movimento studentesco proveniva o dal marxismo occidentale (Lukàcs, o altri studiosi della sua cerchia) o dalla Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer e altri). È così che è nata in me la convinzione che il compito della filosofia sia affrontare criticamente la comprensione di sé e del mondo di una società e di un popolo. Mi si è chiarito così anche il ruolo della filosofia all’interno delle scienze sociali, in quanto assunzione di un atteggiamento riflessivo che consente di mettere in discussione l’autocomprensione esistente. È chiaro cosa intendo, no? Sto pensando a quesiti del genere: su quali premesse si basa l’autocomprensione di una società? E tale base è affidabile? È condivisibile? In questo modo ho trovato alcune risposte, seppur deboli, alla domanda sul perché studiare ancora filosofia. Per me la filosofia è stata da quel momento in poi la prestazione riflessiva speciale necessaria per sollevare all’interno di qualsiasi scienza umana la questione dei fondamenti concettuali dell’autocomprensione.

 

La vicinanza alla Teoria critica era piuttosto chiara. Una delle premesse fondamentali della Teoria critica – una delle premesse su cui tutti i membri della Scuola di Francoforte (da Adorno e Horkheimer fino a Habermas) concordano – consiste nel considerare la Teoria critica principalmente come una critica del positivismo esistente: l’idea, cioè, che il positivismo sia la principale autocomprensione tanto nelle scienze quanto nella società stessa. Nel corso del tempo le cose sono cambiate e ora direi che la visione del mondo dominante – la comprensione di sé e del mondo che prevale – è il naturalismo, che è simile al positivismo, ma leggermente diverso da esso. Quindi, il compito della filosofia, di cui vorrei farmi carico personalmente, è quello di esaminare criticamente le premesse naturalistiche e, se vogliamo, anche ontologiche della nostra attuale comprensione di sé e del mondo. Come vedete, mi è servito parecchio tempo per trovare la risposta giusta alla domanda sul perché fare ancora filosofia oggi.

 

Fin dall’inizio della sua ricerca, lei ha considerato i movimenti sociali come una fonte di ispirazione: il significato del fenomeno del riconoscimento le è stato almeno in parte imposto, per così dire, dall’osservazione della realtà politica circostante?

 

La risposta diretta a questa domanda dovrebbe essere un secco “no”. Quando ho sviluppato l’idea dell’importanza del riconoscimento o della necessità del riconoscimento o delle lotte per il riconoscimento, la politica dell’identità nel senso in cui viene intesa oggi non esisteva ancora, a parte piccole sottoculture. Probabilmente, all’epoca era visibile soprattutto nei movimenti gay. L’esperienza di questi movimenti non è stata quindi la forza trainante dietro la mia scelta di fare del riconoscimento una categoria fondamentale per una teoria critica della società. Con il senno di poi, credo che sia stato più il movimento operaio o dei lavoratori a contare per me. E il collegamento più diretto era con alcune indagini o ricerche storiche. Anche in questo caso Gramsci era in prima linea, devo dire.

 

All’epoca, c’era una tendenza crescente all’interno delle discipline storiche a studiare il movimento operaio in modo nuovo e diverso, cioè a comprenderlo come un movimento contro, diciamo così, la mancanza di rispetto. Il lavoro in quanto tale era visto come una condizione sottostimata, non rispettata da parte della società borghese. Quindi, dietro il movimento operaio sembrava esserci il tentativo di lottare per una rinegoziazione delle strutture di riconoscimento sociale all’interno delle società capitalistiche. Gli scritti, da cui dipendevo molto, erano gli studi di storici sociali i cui nomi probabilmente oggi non sono molto noti. Sto pensando, ad esempio, a Barrington Moore Jr, amico intimo di Herbert Marcuse e autore di un libro fantastico sulle basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, oppure a E.P. Thompson, autore dell’influentissimo Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, dove veniva dimostrato come le prime lotte del movimento operaio contro la società capitalista fossero in realtà lotte contro nuove forme di regolamentazione e nuove forme di potere disciplinare, quindi contro alcune forme di mancanza di rispetto nei confronti del mondo della vita dei lavoratori. Il mio libro è stato profondamente influenzato da queste ricerche. Solo studiandole a fondo mi sono reso conto che la lotta per il riconoscimento o, per dirla diversamente, la lotta contro la mancanza di rispetto poteva essere una chiave di lettura anche per altri movimenti sociali. Per esempio, per capire il movimento per i diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti. Anche il movimento femminista poteva essere interpretato come una lotta contro la mancanza di rispetto e per il riconoscimento. E poi, come ho già detto, il movimento gay, che era ancora in una fase aurorale, diversa dal successo dell’odierno movimento queer, ed era impegnato in una lotta per essere riconosciuto pubblicamente come espressione di una forma di vita legittima. Si trattava di una lotta per la riforma dei codici e delle leggi; una lotta per il riconoscimento pubblico, la stima, la visibilità pubblica, ecc.

 

Quindi, solo dopo aver scoperto le logiche della rivolta o della protesta del movimento operaio, ho capito che poteva esserci una chiave di lettura più generale per comprendere i movimenti sociali in quanto tali. D’altra parte, non ho mai voluto rendere il mio approccio troppo dipendente dai movimenti esistenti. Il fatto è che i movimenti cambiano rapidamente. Quindi, far dipendere una teoria critica da un movimento sociale o intendere una teoria critica della società come l’espressione degli obiettivi e degli scopi di un movimento sociale porta con sé il rischio di perdere la distanza critica di cui si ha bisogno in quanto studiosi. Una teoria, credo, ha sempre bisogno di distanziarsi dai movimenti, così come ha bisogno di distanziarsi da uno specifico partito politico. Pertanto, non ho mai voluto considerare la mia teoria o la Teoria critica in quanto tale come l’espressione di un movimento. Marx lo ha fatto. Nei suoi primi scritti Marx sostiene che la sua teoria è l’espressione articolata della volontà del proletariato. Questa è una mossa piuttosto pericolosa, credo, perché fa dipendere la propria teoria dalla volontà effettiva dei membri del movimento. Così, se il movimento perde il suo impulso rivoluzionario, improvvisamente la teoria finisce in cattive acque.

In sintesi, è necessaria una distanza critica. È necessario anche un controllo critico sulle rivendicazioni e sulle ambizioni dei movimenti sociali. La raccomandazione che ho sempre fatto a me stesso è di mantenere una certa distanza dai movimenti sociali reali.

 

Continuando sul tema del riconoscimento, quanto spazio rimane, nella sua prospettiva, per quelle forme asimmetriche di riconoscimento, ad esempio nei confronti di animali non umani o di ecosistemi, che vengono rivendicate oggi da alcuni gruppi ambientalisti?

 

Questa è una domanda molto difficile, devo dire. All’inizio della mia carriera ho sicuramente inteso il riconoscimento come una forma specifica di relazione umana. Ho distinto diverse forme di riconoscimento, a seconda di come si viene riconosciuti e per che cosa si viene riconosciuti. Ho distinto l’amore come forma di riconoscimento, il rispetto come forma di riconoscimento dell’autonomia dell’altro e la stima sociale come forma di riconoscimento. All’inizio mi sembrava evidente che tutto questo quadro categoriale si applicasse solo all’infrastruttura delle società umane. Sono consapevole che questa scelta possa creare problemi se la propria prospettiva fatica a fare i conti con le questioni ormai pressanti, persino opprimenti, che riguardano il nostro rapporto con gli animali o, più in generale, con la natura in quanto tale.

 

Mettiamola così. Non vedo alcun problema categorico nell’estendere il riconoscimento agli animali, probabilmente procedendo per gradi. Quindi, ritengo che sia possibile estendere il quadro del riconoscimento oltre, diciamo, i confini della nostra forma di vita. Probabilmente è il risultato di un certo processo di apprendimento che ci spinge a vedere nel corso del tempo, per vari motivi, gli animali come organismi viventi che dobbiamo rispettare secondo una logica di gradualità. Abbiamo diverse possibilità di riconoscere gli animali e diverse forme di riconoscimento a seconda del rapporto che stabiliamo con loro. Chiunque conviva con un cane o un gatto ha già una sorta di relazione di cura con quel singolo animale. Da secoli usiamo poi gli animali per lavoro, rispettandoli. È ovvio che dobbiamo imparare a rispettarli perché contribuiscono ai nostri progressi tecnologici. Tutti questi animali – cavalli, mucche, ecc. – hanno fatto molto per elevare i nostri standard di vita. Possiamo estendere sempre di più la sfera del riconoscimento al mondo degli animali. Cioè, possiamo arrivare a capire che gli animali sono nostri compagni e che, di conseguenza, dobbiamo estendere i nostri atteggiamenti di riconoscimento verso gli animali, come ho detto, in misura diversa a seconda del rapporto che intratteniamo con loro.

 

Diversa è la questione se la natura in quanto tale possa essere concepita come qualcosa che dobbiamo riconoscere nello stesso senso. Qui i miei dubbi aumentano. Voglio dire, è ovvio che dobbiamo imparare che la natura è qualcosa che dobbiamo trattare con premura. È chiaro che dobbiamo assumere un atteggiamento più attento nei confronti della natura. Quindi, sono disposto ad ammettere che dobbiamo cambiare drasticamente il nostro atteggiamento verso di essa. Ma esito a usare per questo nuovo atteggiamento, che pure abbiamo il dovere di coltivare, la nozione di riconoscimento. Non so se abbia senso utilizzare un vocabolario del genere. Sono sicuro che possiamo usarlo per animali di varie specie, ma la nozione mi sembra perdere di rilevanza e sostanza filosofica se la si applica in modo troppo generico.

 

Per spiegare il movimento ecologista, è necessario comprendere il suo movente ultimo: la catastrofe climatica. Bisogna capire che i suoi membri stanno lottando per stabilire un rapporto profondamente diverso, più attento e premuroso, con la natura. E probabilmente possiamo imparare molto da altre culture per migliorare il nostro atteggiamento verso di essa. Quindi, dobbiamo sicuramente andare oltre il nostro rapporto di sfruttamento della natura. Ma, per ribadire il punto, preferirei restringere il vocabolario del riconoscimento nelle sue diverse forme agli esseri che condividono con noi la vita senziente; voglio dire, alle creature che condividono con noi alcune capacità basilari come la sensibilità e la responsività alla sofferenza. Insomma, per farla breve, estendere il riconoscimento a un albero mi sembra strano, anche se oggi sappiamo quanto gli alberi siano preziosi per la nostra forma di vita.

 

Non è esagerato dire che dal suo libro Kampf um Anerkennung (1992) è scaturita una “svolta ricognitiva” in filosofia, e non solo. Con il senno di poi, pensa che la proliferazione del dibattito sul riconoscimento – cioè il successo del suo libro – l’abbia aiutata o ostacolata nello sviluppo graduale del suo pensiero? Cioè, la diatriba, ad esempio, sul presunto dualismo tra conflitti distributivi e lotte per il riconoscimento o le discussioni sul “lato oscuro” del riconoscimento (cioè l’intreccio costitutivo tra potere e riconoscimento) le hanno reso la vita più facile o più difficile da un punto di vista teorico?

 

L’hanno resa in parte più difficile, perché molte domande sono rimaste senza risposta. Dall’altro lato, è evidente che si è fatto anche un uso improprio del concetto. Questo è ciò che mi preoccupa di più. L’abuso è eclatante quando il concetto di riconoscimento viene utilizzato strumentalmente dalle aziende come mezzo per l’integrazione dei dipendenti. Il riconoscimento è diventato un brand imprenditoriale. Anche se il legame con il mio libro è tenue (si potrebbe dire che il concetto era “nell’aria”), molte aziende hanno iniziato a proporre “programmi di rispetto o riconoscimento”. Suvvia, riconosciamo i nostri dipendenti… Credo che si sia trattato solo di una forma sottile di manipolazione. Manipolazione per una migliore integrazione e quindi per migliorare la forza lavoro. L’enorme abuso acritico dell’idea di riconoscimento mi ha dato parecchio fastidio.

 

A parte questo, ciò che mi ha messo a disagio è stato rendermi conto che il riconoscimento potrebbe avere – anche se ancora esito a dirlo ad alta voce, perché non ne sono del tutto sicuro – quello che voi avete definito un “lato oscuro”. Ma cerchiamo di essere più precisi.

Il dibattito con Nancy Fraser – cioè la questione della presunta priorità della distribuzione rispetto al riconoscimento – non mi ha mai veramente preoccupato. Perché a mio avviso ogni lotta per la ridistribuzione è anche una lotta per il riconoscimento. Entrambe sono lotte sul modo in cui il proprio contributo alla società viene valutato e come dovrebbe essere remunerato. In questo senso, credo che sia stato tutto un malinteso fin dall’inizio. Non è in gioco qui alcuna differenza significativa. Non esiste una vera opposizione tra questi due tipi di lotta. Come ho detto, una lotta per la ridistribuzione, se si articola in termini normativi, deve utilizzare le nozioni di riconoscimento. Altrimenti, quale potrebbe essere la ragione per rivendicare la ridistribuzione? Solo se si pensa che certe prestazioni, certi tipi di lavoro non siano sufficientemente rispettati e riconosciuti finanziariamente, si alza la voce. Quindi, tutte le lotte per il riconoscimento sono alla fine lotte per la ridistribuzione.

 

La seconda domanda riguarda il lato oscuro del riconoscimento. Sebbene il dibattito con studiose come Judith Butler sia andato avanti per anni, ho ancora delle riserve sull’intera faccenda. Ovviamente tutto dipende da come si intende il riconoscimento. Sottolineare il suo lato oscuro significa più o meno quanto segue (questo è il modo in cui Butler interpreta la posta in gioco). Riconoscere una persona significa identificarla come un essere sociale e ciò può avere l’effetto di integrare questa persona nell’ordine ontologico esistente. Il caso tipico è quello proposto da Althusser. Butler usa molto spesso questo esempio. Quando un agente di polizia grida: “Ehi, tu laggiù! Chi sei?”, quel poliziotto ti sta identificando. In un certo senso, ti sta riconoscendo come essere sociale e con questo riconoscimento ti attribuisce una certa identità. Quindi, il riconoscimento in senso negativo è l’attribuzione coercitiva di una certa identità. A mio avviso, questo può apparire vero solo se si ha una concezione assai vaga del riconoscimento. Perché il riconoscimento, se si ricava l’idea, come faccio io, da Hegel, significa qualcos’altro. Significa riconoscere qualcuno per qualcosa limitando il proprio atteggiamento. Quindi, il riconoscimento non avviene senza una certa restrizione morale da parte di chi riconosce. L’agente di polizia che identifica qualcuno per strada non limita il proprio atteggiamento nei confronti di questa persona. Ma il riconoscimento in senso proprio ha un significato completamente diverso.

 

Ipotizziamo che io riconosca qualcuno per una certa prestazione o lavoro. Oppure immaginiamo che io riconosca qualcuno per la sua autonomia. Questo riconoscimento ha innanzitutto un significato per me. Significa, ad esempio, che devo fare qualcosa. Il riconoscimento non avviene senza una qualche forma di restrizione da parte mia. La stessa cosa accade con le valutazioni. Se si apprezza veramente un quadro, si assume uno specifico atteggiamento nei suoi confronti. Se lo si fa, allora si rispetta il dipinto. Non si farebbe nulla contro di esso. Per esempio, non si distruggerebbe mai il dipinto. Non lo si danneggerebbe. Non lo si metterebbe immediatamente sul mercato, proprio perché si apprezza il quadro. Lo stesso vale per il riconoscimento. Riconoscere significa comportarsi in un certo modo nei confronti di chi si riconosce. L’atteggiamento dipende, in parte, dalla forma del riconoscimento, ma il riconoscimento è sempre un atteggiamento che limita il proprio egoismo.

 

In questo senso, quindi, direi che il riconoscimento non ha un lato oscuro, anche se è chiaro che esistono forme di riconoscimento che possono assumere una forma ideologica. Ma non le considero vere forme di riconoscimento, per questo le chiamo “ideologiche”. Quindi, può capitare di dire: «Sei una casalinga meravigliosa». E questo è un modo molto problematico di rivolgersi a una persona. Da un lato, infatti, significa fissare quella persona nel ruolo di casalinga. Si dà a quella persona, normalmente una donna, l’identità di casalinga e questo potrebbe comportare alcune conseguenze problematiche per il riconoscimento. Tuttavia, la mia risposta all’obiezione è che chi oggi usa questo tipo di linguaggio, non è pienamente consapevole della grammatica del riconoscimento, così come si è affermata nel nostro tempo. È in qualche modo ripiegato su sé stesso e, quindi, indulge in una forma ideologica di riconoscimento.

In sintesi, farei una distinzione tra forme ideologiche e forme autentiche di riconoscimento.

 

Fin dalla pubblicazione di Kampf um Anerkennung, lei ha sottolineato l’importanza di creare ponti, a partire dai ponti semantici, tra le varie esperienze di misconoscimento e oppressione. Alla luce della crescente intersezionalità dei movimenti sociali odierni (ad esempio, i movimenti di genere, ecologici e sindacali), quali categorie sono necessarie alla teoria sociale e ai movimenti sociali per sviluppare identità comuni per la trasformazione sociale?

 

Non sono sicuro di avere una risposta chiara a questa domanda. Anche in questo caso, vorrei iniziare con una riserva preliminare. Non credo che il compito di una teoria critica della società sia quello di produrre determinati soggetti o identità. A mio avviso, il compito di una teoria critica è mettere in discussione le identità. Soprattutto se tale critica è intesa in termini filosofici, uno dei suoi compiti principali è quello di mettere in discussione le premesse ontologiche di certe identità. Di conseguenza, come ho già sottolineato, penso che il rapporto tra teoria e pratica, teoria critica e movimenti sociali, debba essere indiretto e molto più distante di quanto la vostra domanda sembri implicare. Nel contesto attuale, il compito di una teoria critica è quindi quello di mettere in dubbio alcune premesse della politica dell’identità. A cominciare da quello che a mio avviso è l’equivoco cruciale, ovvero l’idea che gli individui abbiano una sola identità sociale.

 

Una convinzione di fondo della identity politics è che gli individui siano caratterizzati, ad esempio, dal proprio genere o dal colore della pelle o dal proprio orientamento sessuale. Questo, a mio avviso, è un equivoco di fondo, perché non siamo mai caratterizzati da uno solo dei nostri impegni sociali. Abbiamo sempre identità multiple, personalità sfaccettate. Siamo una combinazione di molti impegni e relazioni. Siamo coinvolti in amicizie; siamo coinvolti in relazioni sociali significative; siamo membri di una comunità politica; abbiamo un legame speciale con luoghi geografici; siamo effettivamente caratterizzati dal colore della nostra pelle; dal nostro orientamento sessuale. Ma questi sono tutti elementi di un compositum.

Di conseguenza, l’identità è sempre identità sociale: è una combinazione di una vasta gamma di impegni diversi. Se pensate di essere caratterizzati da una sola identità che dà forma a tutta la vostra personalità, probabilmente state commettendo un errore. A mio avviso, state fraintendendo voi stessi. A volte, nell’ambito della politica dell’identità, sembra che le persone siano fondamentalmente costruite a partire da un’unica identità, sia essa sessuale, razziale o religiosa.

 

Quanto ho detto fin qui aveva lo scopo di rispondere alla domanda su quale sia il ruolo di una teoria critica rispetto a certe lotte e movimenti sociali. In sintesi, la mia risposta suona più o meno così: una teoria critica deve sempre assumere un punto di vista negativo su alcuni equivoci che circolano nei movimenti sociali. Se ha un compito rispetto alle lotte sociali, anche tale compito deve essere critico e non semplicemente affermativo. Non sarebbe una teoria critica se si limitasse ad avere un rapporto affermativo con qualsivoglia movimento sociale, sia esso il movimento operaio, il movimento femminista, ecc. Il compito della teoria è quello di chiarire alcuni intendimenti e fraintendimenti interni a un movimento sociale.

 

Pensando al nesso tra il lavoro, cioè le tante ore che ognuno di noi trascorre lavorando, e il bene democratico dell’autogoverno da lei indagato nel suo ultimo libro (Der arbeitende Souverän: Eine normative Theorie der Arbeit, Suhrkamp, Berlin 2023), vorremmo concludere la conversazione chiedendole se, a conti fatti, “Arbeit” non possa essere il concetto che meglio riassume l’impulso fondamentale della sua traiettoria intellettuale. E, infine, ha oggi la sensazione di aver remato a lungo controcorrente per recuperare infine la vera fonte della sua vocazione politico-scientifica?

 

Quello che dite è interessante. Ci ho pensato solo di recente. E ho notato quasi subito che la filosofia sociale e politica degli ultimi cinquanta o sessant’anni ha ignorato ampiamente la sfera del lavoro. È un’omissione enorme. Se si analizza l’opera di Foucault – giusto per citare un pensatore di cui mi sono occupato direttamente, ma lo stesso vale per molti dei principali teorici politici e sociali del nostro tempo – è evidente che la filosofia del lavoro non svolge un ruolo di primo piano nel suo pensiero. Per me, al contrario, il lavoro è stato un interesse centrale fin dall’inizio. Questo, come ho detto, ha influenzato direttamente anche la mia teoria del riconoscimento. L’intuizione da cui sono partito riguardava infatti proprio il mancato riconoscimento di alcuni tipi di lavoro nella nostra società.

 

Quando ero giovane, provenendo da una zona industriale della Germania in cui il lavoro (e determinati tipi di lavoro duro: miniere di carbone, acciaierie, ecc.) era, almeno a quel tempo, una componente centrale della vita sociale, die Arbeit era qualcosa di automaticamente presente e in una certa misura valorizzato nella mia stessa autocomprensione. Era anche ancora in qualche modo presente nella teoria sociale tradizionale, sia per l’influenza di Marx sia nell’antropologia filosofica, dove il lavoro svolgeva un ruolo importante come tipo specifico di attività umana. Poi, improvvisamente, il tema ha perso di rilevanza, importanza, nella filosofia sociale e politica. Per me riportarlo al centro della discussione ora significa, in un certo senso, tornare alle radici. Cioè, è un po’ come tornare a un’intuizione che ho avuto fin dall’inizio.

Osservare, studiare il movimento operaio significa indagare le forme di riconoscimento che le società capitalistiche negano alle persone. E significa anche mostrare fino a che punto questa negazione sia totalmente ingiustificata e ingiustificabile. Questa potrebbe essere la mia risposta sintetica alla vostra domanda finale.

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