ROMA, IL TEATRO E IL CULTO DELLA CENERE
La stagione del Teatro Argentina 2024-25 presentata la scorsa settimana è tra le più deludenti degli ultimi anni, ma non è certamente una sorpresa. Nel comporla il direttore Luca De Fusco ha seguito una logica stringente, basata su due soli principi: nomi vetusti e direttori di altri teatri pubblici con cui effettuare coproduzioni e mutui scambi. Non è un caso che, forse per la prima volta nella storia, il Teatro di Roma abbia presentato prima di tutti gli altri la propria stagione: è un cartellone che si poteva comporre in cinque minuti.
Il fatto che la stagione sia interamente al maschile (il nome di Noschese, regista di musical lontana dalle estetiche del teatro pubblico, è palesemente una foglia di fico, essendo Mamet un cavallo di battaglia di Luca Barbareschi da sempre) e che si tratti per lo più di ultrasessantenni – cosa che hanno stigmatizzato in molti – più che un’idiosincrasia personale di De Fusco verso giovani e donne è il diretto riflesso della logica che sottende la stagione: imbarcare solo nomi consolidati e persone in posizione di potere significa, nell’Italia del 2024, lavorare quasi esclusivamente con maschi agée.
Il problema non sono i singoli spettacoli, ma il quadro d’insieme. Prese singolarmente alcune proposte – come Servillo o Lazarus – hanno una loro ratio, poiché si portano dietro specifici segmenti di pubblico. E alcune eccezioni, come il Piccolo e Romaeuropa, ricalibrano leggermente il cartellone verso il teatro d’arte. Ma è praticamente impossibile capire quale sia il progetto di rinnovamento del teatro nazionale di cui tanto si è parlato. Il Cda, espressione di una maggioranza di destra, non lo ha mai esplicitato nel dettaglio, scegliendo piuttosto di affidarsi alla scelta fortemente voluta del direttore. Non è diversa la situazione a sinistra, con il Comune che ha fatto valere il suo peso esclusivamente per ottenere un direttore amministrativo, e cioè un’ennesima figura apicale con relativo stipendio che andrà a erodere il budget a disposizione dell’ente, la cui finalità primaria dovrebbe essere la produzione artistica. Il risultato parla da sé: una stagione che non è innovativa e nemmeno di tradizione, se intendiamo per tradizione la celebre definizione di Mahler sulla conservazione del fuoco. Piuttosto, una stagione inerziale.
Quello che spicca maggiormente è la completa scomparsa della scena artistica della città dal cartellone del suo teatro principale. Negli ultimi vent’anni Roma, città disorganica e discontinua, ha tuttavia partorito una grande quantità di realtà che fanno parte dell’eccellenza artistica del Paese. Una programmazione di senso sarebbe dovuta partire da qui, intrecciando quei percorsi alle eccellenze internazionali, al supporto e alla crescita di nuovi talenti, all’apertura alla nuova drammaturgia o alle nuove forme di spettacolarità. Niente di tutto questo: ci troviamo di fronte a una stagione che avrebbe avuto forse senso trenta anni fa in un teatro privato.
La programmazione del Teatro India cerca di fare un po’ da contraltare, con nomi interessanti che vanno da Enia a Ferracchiati, da Aprea a Biancofango, da Cirillo a Tolcachir. Ma è una stagione senza una linea guida, con molti recuperi dall’anno passato, spettacoli di passate stagioni o che puntano sulla visibilità dei protagonisti, a cui si sommano alcune scelte “cadette” e contigue a quelle dell’Argentina. Troppo poco per invertire la rotta.
L’elemento preoccupante di questa stagione non ha a che vedere con i singoli artisti, come si diceva, ma con il modello che sembra voler disegnare. A causa dell’impoverimento del settore, della scomparsa dei luoghi intermedi produttivi, di un centralismo diffuso che torna a manifestarsi come unico orizzonte della politica culturale nostrana, il circuito dei teatri pubblici è rimasto in pratica l’unico motore della produzione teatrale italiana. Questo circuito è in grado, a volte, di intercettare le nuove creatività, ma finisce per produrle con risorse molto inferiori a quelle dei direttori (che il più delle volte sono anche artisti) e, per evitare di fare concorrenza a sé stessi, di fatto frenano la loro circolazione, preferendo scambiare le produzioni di punta. Per questa ragione, una stagione di questo tipo si staglia come una pietra tombale non solo sulla crescita dei giovani talenti, ma anche sul consolidamento di artiste e artisti di quaranta o cinquant’anni.
Con questo assetto il teatro pubblico perde di senso, perché finisce non solo per contraddire, ma perfino per ostacolare gli obiettivi che sono alla base del patto che le società democratiche stipulano con le loro agorà teatrali: “sviluppo della società verso le forme più progressive”, e “cultura come uno dei mezzi più poderosi per l’elevazione del popolo”, li definiva Paolo Grassi nel 1946 dalle colonne dell’Avanti! Nulla che possa essere espletato da un club ultra esclusivo di signori attempati, che tendono a perpetuare se stessi anche nei bandi delle nuove nomine apicali dei teatri, dove puntualmente tra le caratteristiche richieste ai candidati c’è sempre l’“aver già diretto per cinque anni” strutture simili. Occorre augurarsi, allora, che gli attuali direttori vivano almeno fino a 120 anni e nel pieno possesso delle facoltà mentali: altrimenti tra due o tre lustri vedremo estinguersi definitivamente la razza del direttore-regista-demiurgo che tiene in piedi le sorti del pubblico teatro.
Nota a margine: della vocazione del teatro pubblico ne scrivevamo su questa stessa rivista già nel 2018, quando istituzioni e cariche erano diverse da quelle di ora. A riprova del fatto che la questione non ha a che vedere con i nomi, ma con i modelli, con il ricambio generazionale e con quello dei linguaggi.
Articolo ripreso da: https://www.minimaetmoralia.it/wp/interventi/roma-il-teatro-e-il-culto-della-cenere/
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