Franz Kafka, arte e vergogna
Franz Kafka morì Il 3 giugno del 1924, esattamente cento anni fa. Morì di tubercolosi in un sanatorio austriaco a quarant’anni.
Distruggere la corrispondenza
MIlan Kundera ha scritto: «Non credo che Kafka abbia chiesto a Brod [Max Brod, 1884-1968, amico, esecutore testamentario, curatore della pubblicazione della sua opera] di distruggere la sua corrispondenza per timore che venisse pubblicata. Una simile idea non poteva neanche sfiorarlo. Se gli editori non si interessavano ai suoi romanzi, come avrebbero potuto interessarsi alle sue lettere? Quel che lo spinse a voler distruggere quelle lettere era la vergogna, una pura e semplice vergogna di uomo, non di scrittore, la vergogna di lasciare in giro cose intime sotto gli occhi degli altri, dei familiari, degli sconosciuti, la vergogna di essere trasformato in oggetto, una vergogna che avrebbe potuto “sopravvivergli”».
Vergogna di uomo
Quest’ultimo verbo è un diretto riferimento al finale di Il Processo, l’esecuzione di K. con un coltello immerso nel cuore: «Con gli occhi prossimi a spegnersi K. fece in tempo a vedere i signori che vicino al suo viso, guancia contro guancia, osservavano l’esito. “Come un cane!” disse gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere». [Il processo, traduzione di Ervino Pocar, Mondadori].
Amico tradito
Insomma, nonostante la richiesta di Kafka di distruggere le lettere, Brod le ha rese pubbliche. «Prima – scrive ancora Kundera – nel proprio testamento, aveva chiesto a Kafka di “distruggere alcune cose”; ora, è lui a pubblicare tutto, senza discernimento; perfino quella lunga e drammatica lettera trovata in un cassetto, che Kafka non si era mai deciso a inviare al padre e che, grazie a Brod, tutti hanno potuto leggere, tranne il destinatario. Ai miei occhi – dice ancora Kundera – l’indiscrezione di Brod non ha scusanti. Ha tradito il suo amico. Ha agito contro la sua volontà, contro il senso e lo spirito della sua volontà, contro la sua indole schiva che egli ben conosceva». [Milan Kundera, I testamenti traditi, Adelphi, pp. 252-253].
Brod estraneo all’arte di Kafka
Kundera non aveva grande considerazione di Brod, anche se, è grazie a Brod che probabilmente conosciamo Kafka (d’altra parte forse ci è arrivata anche da Brod un’interpretazione sbagliata di Kafka).
Kafka ha scritto che un giorno con Brod andò a far visita a un pittore cubista ceco, Willi Novack.
Brod, dice Kundera, non capiva il cubismo più di quanto non capisse Kafka e Janáček [Leoš Janáček, 1854- 1928, musicista e compositore]. E sforzandosi di liberarli dal loro isolamento sociale, non fece altro che ribadire la loro solitudine estetica. Perché la sua dedizione per loro significava: perfino chi li amava, ed era quindi pronto a comprenderli più di chiunque altro, rimaneva estraneo alla loro arte. [Kundera, p. 244].
Rilettura di La metamorfosi
Qualche mese fa, durante un seminario dedicato alle letture nel quadro di una ricerca autobiografica, ho provato a rileggere un’altra volta, in modo ingenuo, La metamorfosi (1912) che insieme a Il processo è probabilmente l’opera di Kafka più letta ancora oggi. Questo l’inizio della rilettura ingenua:
Quasi tutti lo sanno, almeno per sentito dire: Gregor Samsa è un giovane uomo che una mattina si sveglia, dopo “sogni inquieti”, trasformato in un insetto, “un insetto mostruoso”. Giace nella sua stanza, nell’appartamento che divide con i genitori e la sorella Grete.
Ma un conto è credere di “sapere la storia”. Diverso è leggere La metamorfosi. Quando leggiamo scopriamo di entrare, già dalle prime parole, in un mondo dal quale non potremo più andarcene.
Un mondo che ci appare consueto, noto – un interno piccolo borghese di inizio Novecento, così abituale per la letteratura che amiamo – ma supremamente enigmatico, inafferrabile, ostile.
È così normale e materiale, concreto il mondo di Gregor. E tuttavia chi legge La metamorfosi lo vede attraverso un prisma; un prisma che ci è apparso in un sogno a occhi aperti che non sappiamo far finire. Un prisma che ci mostra ogni scena e ogni parola, ce la fa capire, ma che ci confonde appena prima di aver davvero compreso questa storia.
L’esperienza del leggere questo racconto si ripeterà unica e diversa ogni volta che la faremo, per il resto della nostra vita. E non saremo mai più a nostro agio pensando a Gregor Samsa. Ma non potremo più lasciarlo. [•••] Qui il seguito.
Immagine: Aydin Aghdashloo, “Il processo”, 1989 (Wikiart, fair use); Maria Bozoky, “Il castello”, 1975 (Wikiart)
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