Gustav Klimt, “Fritza Riedler”, 1906 (Österreichische Galerie Belvedere, Vienna)
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I fervori dell’Austria felice, grand hotel sull’abisso
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Gli
ultimi valzer, poi Freud. L’Ottocento è alla fine quando a Vienna
s’impone un gruppo di innovatori: letterati, pittori, architetti. E la
città, già stupefacente scenografia, mette in scena le proprie viscere.
Una drammatica seduta psicoanalitica collettiva
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di Giuseppe Marcenaro
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Certo, che
tutto si svolgesse nei caffè è una leggenda. Eppure l’autobiografia di
Vienna non si discosta poi molto dalla dinamica delle sensuali seggiole
in legno ricurvo. Le celebrate sedie numero 14 del catalogo Thonet,
sulle quali si accasciavano uomini spolpati. Ombre approdate al Café
Griensteidl. Almeno fino al 1897, quando venne chiuso. Il Palais
Herberstein, in cui si trovava, doveva essere trasformato in casa per
appartamenti.
L’avvenuta
infungibilità del ritrovo fu lo spunto che permise a Karl Kraus, il più
geniale scapestrato viennese, di scrivere uno dei suoi vivaci e
frizzanti pamphlet, “Die demolirte Literatur”. Un impietoso jeu de massacre compiuto sui letterati della Jung Wien,
in dimora stabile al Café Griensteidl. Vienna era allora una città dove
si poteva ipotizzare la morte di un gruppo d’intesa letteraria a
seguito della chiusura di un caffè. Con la perdita del Griensteidl si
spegneva un universo di storie private. Palesi e sussurrate. Ai tavolini
del caffè c’era sempre una folla da “spiare” con la lente
dell’entomologo. Una umanità alla ricerca di se stessa. Mancando il
ritrovo tramontava un clima. Si disperdevano le abitudini. Distrutto il
formicaio gli insetti impazziti sciamavano. Si smarriva la saga.
Amleticamente
compresi a scegliere tra una fetta di torta di stomachevole delizia,
alta un palmo e il tremolar gaudente di una gelatina; dubbiosi tra i
cento e passa gusti di caffè, da quello blando e trasparente come un
brodetto per ammalati fino al turco dalla sostanza d’un budino, passando
tra gli aromatici dal graduale speziato, esplorando l’imperial regia
gazzetta Wiener Zeitung, stecchita dalle ortopediche bacchette, i soliti
signori Schlemihl sarebbero stati autorizzati a chiedersi, scoprendola
con dovuta perplessità, che razza di gente fossero quei tenui tossici
che ingombravano a ogni ora l’aura del caffè con le loro fitte ciarle.
Uno era Hugo von Hofmannsthal, appena uscito dallo stupefacente balletto
di strazi ed equivoci che fu l’incontro con Stefan George. Interrotto,
come un amore scolastico, dall’intervento, per quanto comprensivo ma
fermo, di papà Hofmannsthal. Aveva rinvenuto febbrili bigliettini che
per poco più di un mese i due si erano scambiati: “Hai fatto affiorare
cose che in me sono occultate”. Dopo l’isteria della rottura,
Hofmannsthal si consolerà passeggiando “tra robinie e gelsomini”, con
Hermann Bahr, il fervoroso maggiordomo di tutte le novità del mondo,
predicatore d’ogni caffè, dove annunciava il superamento del
naturalismo.
Oltre
all’inquieto Hofmannsthal sorbivano cordiali al Griensteidl Arthur
Schnitzler, Felix Salten, Richard Beer-Hofmann. Poco lontano
l’imbronciato Karl Kraus traguardava il gruppo degli affabili. Non ne
condivideva la poetica, mal sopportava
i loro fatui atteggiamenti. Benché i giovani letterati viennesi si
comportassero da “rivoluzionari”, criticoni d’ogni forma estetica
antecedente la propria, avevano l’aspetto di chi fosse rimasto sempre
legato all’anno passato. Una morgue della décadence. Kraus li squadrava e
ringhiava. All’occorrenza addentava. A sangue. Di lui, con tollerante
sussiego, Beer-Hofmann diceva: “Amici? Proprio amici non siamo,
semplicemente non ci diamo sui nervi”. Le insofferenze però maturarono
intense. Oltre i solerti habitué del Café Griensteidl, nella Jung Wien,
sbeffeggiata dai sarcasmi di Kraus, si riconoscevano, sia pur
blandamente, anche Peter Altenberg, Leopold Andrian, Felix Dormann.
Celebrato
l’avvenuto decesso del caffè e recitato il sarcastico de profundis dei
letterati, Kraus, uscito “dalla comunità”, si trovò anch’egli
“disperso”. Isolato. Cercò approdo. Lo trovò sotto forma di lavoro. Ce
l’aveva a morte con giornali e giornalisti. “Non avere un pensiero e
saperlo esprimere, è questo che fa di uno un giornalista”. “I
giornalisti scrivono perché non hanno niente da dire, e hanno qualcosa
da dire perché scrivono”. Accettò comunque d’essere nominato
corrispondente del quotidiano Breslauer Zeitung. L’inquietudine lo perseguitava.
Aveva bisogno di affondare le zanne del proprio disappunto sociale nel
cuore dei contemporanei. Come sostenitore non compromesso nella causa
dell’assimilazione ebraica, Kraus – nato in una ricca famiglia ebrea –
attaccò il sionista Theodor Herzl, con il suo polemico “Eine Krone fur
Zion”. L’anno dopo rinnegò il giudaismo. Trovò forse una rasserenante
pace quando, sentitosi libero di poter esprimere tutte le insofferenze
del mondo che lo opprimevano, in quel 1899, il 1° aprile, pubblicò il
primo numero della rivista satirica
Die Fackel, da lui fondata e che continuò a dirigere, pubblicare e
scrivere fin quando morì. Dal suo periodico lanciò i suoi attacchi
contro l’ipocrisia morale e intellettuale, la psicoanalisi, la
corruzione dell’impero degli Asburgo, il nazionalismo del movimento
pangermanico, le politiche economiche liberiste. Una rivista come
specchio oscuro della società.
“In questa
grande epoca che io ho conosciuto quando era ancora così piccola, e che
ridiventerà piccola, se le rimarrà il tempo per farlo, e che noi, vista
nell’ambito dello sviluppo dell’organismo non è possibile questa
metamorfosi, preferiamo considerare come un’epoca grossa e certamente
anche difficile, in quest’epoca in cui succede proprio quello che non ci
si poteva immaginare, e se si fosse potuto non sarebbe successo… in
quest’epoca rumorosa, che rimbomba della spaventosa sinfonia di notizie
che provocano fatti, in quest’epoca non vi aspettate da me nemmeno una
parola”.
Die Fackel
si distinse per l’indipendenza editoriale di cui Kraus poteva godere
grazie ai propri fondi. Nei primi dieci anni collaborarono al giornale
molti eminenti scrittori e artisti come Peter Altenberg, Richard Dehmel,
Egon Friedell, Oskar Kokoschka, Else Lasker-Schuler, Adolf Loos,
Heinrich Mann, Arnold Schonberg, August Strindberg, Georg Trakl, Frank
Wedekind, Franz Werfel, Houston Stewart Chamberlain, Oscar Wilde… La
meglio intelligenza europea del tempo.
Proprio come
un albero che presentendo di morire, in una illusoria sopravvivenza, si
carica di frutti, Vienna, negli ultimi anni dell’Ottocento, esplose in
una ossessiva creatività. Nel medesimo 1897, anno in cui si celebrava il
metaforico funerale letterario della Jung Wien, un’altra ventata scosse
la vita artistica della città. La permeava un atavico culto per la
tradizione.
Il tornado
si abbatté sulla conservatrice cooperativa degli artisti viennesi del
Künstlerhaus, la Genossenschaft bildender Künstler Wiens, fino ad allora
dominante.
Vienna era
allora la capitale di un grande impero multietnico, di una formidabile
Kakania, più tardi “fotografata” da Robert Musil con “L’uomo senza
qualità”. Pagine dove le debolezze, le furbizie, le perfidie, i grovigli
caratteriali, le manie e i tic d’ogni tipo delle varie categorie
sociali furono fatti a pezzi con aspra ironia.
In
quell’ambiente dall’apparenza solenne e rarefatta i valori della
costumanza l’avevano sempre fatta da padrone. La vita dei cittadini si
reggeva su una fittizia rispettabilità sublimata “artisticamente” nelle
forme più esasperate della ninnoleria dei carinissimi kitsch del
quotidiano piccolo borghese.
Sovrastava
quella curiosa Lilliput un’architettura della grandeur, coniugata alla
solennità, che aveva mutato una tutto sommato piccola città in una
fastosa scenografia teatrale. E ce l’avevano messa tutta i viennesi,
fin dal 1860 o giù di lì, con la elaborazione simbolica dei solenni
riccioli delle facciate, a “inventare” uno stile riecheggiante i valori
di perennità storica. Il Ring, con i suoi sontuosi edifici di
rappresentanza, resta la testimonianza di un’epoca che volle tradurre la
propria coscienza della storia in una sequenza di facciate. Una
tangibilità in cui ogni viennese poteva riconoscersi. Un cittadino
qualsiasi, pur non essendovi mai ammesso, era parte integrante della
corte di Franz Joseph, imperatore a un tempo solenne e primo impiegato
dello stato, sommo funzionario di una burocrazia austriaca chiusa
nell’eleganza formale di bianchi stiffelius.
Era la
Vienna che sognerà nostalgicamente Joseph Roth. Per lo scrittore
l’impero asburgico, prima che realtà politica, era personaggio. Il più
grande dei personaggi “di un’epoca che non tornerà tanto facilmente”.
Nelle pagine
di Roth la totalità imperiale si dispiega avvolgendo col suo manto, a
un tempo protettivo e costrittivo, le regioni paludose della frontiera
orientale e i viali del Ring dove sfilano i lipizzani, montati da
cavalieri in giustacuori attillati, elmi neri e dorati, sotto “l’occhio
di porcellana azzurra dell’imperatore”. E poi i circoli, le caserme, i
bordelli, i teatri dove sgargiano le marce degli ineffabili Strauss. “An
der schönen blauen Donau” & “Radetzky March” in contrappunto al
sublime macabro della Kaisergruft nel sotterraneo della Kapuzinerkirche
in cui si ingorga tutta la sacralità di una stirpe. Tombe imperiali. Tra
le ombre assurde dei marmi e dei sarcofagi si coniugano, con
l’assordante clangore della storia, i solenni silenzi sepolcrali. Una
esclusiva collezione di salme imperiali. Culto e devozione di un popolo
che muta i corpi di una dinastia disseccata
nella cripta nei santi e nei beati di un paradiso immanente. L’orgoglio
del più finitimo cittadino come senso di appartenenza.
Piombò
dunque nel 1897 in quel mondo a un tempo sgargiante e soffuso il gruppo
dei novatori: pittori, scultori e architetti. Volevano diffondere
un’arte che fosse principio e rinnovamento. Il mito del cambiamento. La
creazione artistica doveva accendere un rapporto più diretto con il
pubblico. Le annuali mostre del Künstlerhaus esercitavano un monopolio.
L’autoritarismo dell’arte. Il gusto unidirezionale. Ma fu vera
ribellione esclusivamente estetica quella della Secessione? Soltanto una
scelta di campo che produsse un esodo di molti artisti dalla vecchia
maniera alla nuova? La nascita di un altro centro di potere estetico? A
battere i piedi e a seguire una nuova strada furono artisti che poi
godettero larga fama: i pittori Gustav Klimt, Koloman Moser, Maximilian
Lenz…; gli architetti Otto Wagner, Joseph Maria Olbrich, Josef Hoffmann…
Gustav Klimt, “Sonja Knips”, 1898 (Österreichische Galerie Belvedere, Vienna)
.
Dietro a
questa scelta di campo “estetico” c’era però ben altro. Una suggestione
viene intanto dall’autobiografia di una originale quanto eccentrica
signora che apriva al mondo nuovo la propria casa. Berta Zuckerkandl era
un’influente conoscitrice d’arte e una delle intelligenze ispiratrici
di uno dei più importanti salotti di Vienna. E’ madame a raccontare ciò
che avvenne durante un tipico appuntamento pomeridiano viennese.
Pasticcini e caffè. Berta, nella sua bella casa, aveva fatto incontrare
Auguste Rodin, che visitava per la prima volta la gran capitale, con
Gustav Klimt, il pittore allora più venerato.
“Klimt e
Rodin si erano seduti accanto a due giovani donne di notevole bellezza;
Rodin le guardava affascinato [...] Alfred Grunfeld [ex pianista di
corte presso l’imperatore Guglielmo I di Germania, ora trasferitosi
a Vienna] sedeva al piano nella grande sala da ricevimento, con le
doppie porte spalancate. Klimt gli si avvicinò e gli chiese: ‘Per
favore, ci suoni qualcosa di Schubert’. E Grunfeld, sigaro tra le
labbra, suonò note sognanti che volteggiavano sospese nell’aria insieme a
nuvole di fumo.
Rodin si
chinò verso Klimt e disse: ‘Non mi sono mai trovato in un’atmosfera
simile: il vostro tragico e magnifico affresco su Beethoven; la vostra
indimenticabile, sacra esposizione; e ora questo giardino, queste donne,
questa musica. e intorno tutta questa gaia, infantile felicità. Come si
spiega tutto ciò?’. Klimt mosse lentamente la sua magnifica testa. Annuendo rispose con una sola parola: ‘Austria’”.
Austria? Un
nome come simbolo, sigla, marchio capace di riassumere nel suono di una
parola un esteso paradigma di pulsioni. Austria, una visione idealizzata
e romantica che Klimt condivideva con Rodin. Quel “concetto Austria”
era il risultato di una aggrovigliata ragnatela di fatti, elementi,
tensioni sociali, inconsci. Inconscio. Ecco la parola-scintilla che come
un morbo infetto attraversa la sublime Kakania di Franz Joseph. A
sollevare il sipario su una storia affascinante, sensuale e tragica, fu
una drammatica seduta psicoanalitica collettiva. Con l’arte e la
letteratura vennero confessate tutte le contraddizioni e le più
inconfessate turbe sessuali. “Peccatucci” e sordide ammalate perversioni
trovarono giustificazione e catarsi nella creatività artistica. L’arte
tale a un maniacale cortocircuito. Gli artisti arrivarono a livelli
sublimi. Le opere esibivano coiti introflessi. La loro torbida grandezza
si coniugava a una estenuata agonia. Dipinti come annuncio di morte.
Un’apocalisse tutta intellettuale. L’Austria Felix ovvero il grand hôtel
sull’abisso. E allora aveva intuito bene Kraus quando conclamava:
“Ascenderemo fino a impiccarci”. L’aveva previsto in quel viluppo
spiraliforme di creatività che produceva rutilante arte e carattere,
coinvolti in un turbine irrefrenato.
Ma c’era
altro. Come sempre avviene nelle rappresentazioni più complesse. La vita
stessa di una comunità si era trovata (era stata costretta) a mettersi
in gioco.
La nascita di quella modernità, tanto conclamata da artisti, architetti e letterati,
paradossalmente era stata “facilitata” anche dal crollo del mercato
azionario viennese del 1873. Tra l’8 e il 9 marzo di quell’anno 230
imprese erano fallite. La “grande crisi” si diffuse rapidamente in tutta
Europa e ne seguì una lunga depressione, che colpì sia il libero
mercato sia il liberalismo che iniziava a fiorire. A Vienna la
depressione e la conseguente disoccupazione provocarono tensioni fra le
classi meno agiate, che si trasformarono in rabbia verso la borghesia,
la quale era in misura considerevole di origine ebraica. Nel 1890 le
manifestazioni pubbliche di antisemitismo erano diventate parte
dell’opposizione della classe operaia al libero mercato, ritenuto
responsabile del collasso e della perdita di posti di lavoro. Molti
sostenitori del libero mercato erano ebrei. Il loro successo finanziario
e le posizioni di prestigio che stavano assumendo nelle professioni
mediche e giuridiche, suscitavano risentimento. Nel 1897 questa tendenza
culminò con l’elezione a sindaco di Vienna di Karl Lueger, un
impassibile demagogo antisemita. Lueger rese socialmente logico e
accettabile l’antisemitismo.
E fu in quel
clima di drammatica incertezza sociale che l’arte e la letteratura
prorompendo interpretarono le pulsioni. Riuscirono a “far vedere”
radiografandoli, attraverso i dipinti, le lotte interne, inconsce e
istintive, degli individui. Furono tre artisti
della Secessione, Klimt, Kokoschka e Schiele a porre l’accento sul
fatto che compito dell’artista moderno non era comunicare soltanto la
bellezza, ma le nuove verità. Ed è impossibile qui, evitare il demiurgo
dell’inconscio. Sullo sfondo si profila Sigmund Freud. Dalla sua casa di
Berggasse 19, poi uno degli indirizzi famosi della città, cominciò “a
mettere le mani” nella parte più nascosta dei suoi contemporanei.
Cominciò a frugare tra le ombre nere dell’animo dei suoi concittadini.
Collegando arte e letteratura in contrappunto alla mente. Non soltanto
nell’artista “creatore” ma nel “cittadino laico”. Venne anche formandosi
una nuova identità di chi si appresti a guardare un’opera d’arte. Un
Freud non avrebbe potuto concepirsi se non in quell’ambiente, in una
città il cui destino era comunque segnato. Tutti lo avevano “sentito”.
Confessavano la “malattia”. Senza far cenno alla causa scatenante.
Incubata in loro da tempo.
Il Café Griensteidl nel 1896 in un’illustrazione di Reinhold Völkel
.
Eppure prima
di questa svolta per quanto riguardava le proprie capacità creative,
Klimt era stato un pittore convenzionale, un decoratore di teatri, musei
e altri edifici pubblici. Seguiva uno stile classico appreso dal suo
maestro, Hans Makart, un pittore di talento chiamato il nuovo Rubens.
Idolatrato dai mecenati viennesi. Piaceva molto ma le sue opere
restavano “in superficie”. Perché era proprio
di quella superficialità che si accontentava la borghesia
dell’apparenza e della rappresentazione esteriore. La mutazione si compì
in Klimt quando ebbe l’incarico di commemorare in un dipinto
l’auditorium del vecchio Burgtheater che doveva essere demolito per far
posto a una struttura moderna. Klimt dipinse un quadro raffigurante
l’ultima rappresentazione svoltasi nel vecchio teatro. Anziché ritrarre
una veduta del palcoscenico, con gli attori intenti alla recita,
rovesciò “il punto di vista”. Mostrò il pubblico visto dal palcoscenico.
E tra questo pubblico alcuni riconoscibili personaggi viennesi. Gli
spettatori non guardano lo spettacolo. Nel dipinto risultano immersi nei loro pensieri.
La vera
rappresentazione della città, la recita di Vienna, non avveniva più su
un palcoscenico. Veniva “esibito” il privato della mente degli
spettatori. I viennesi erano diventati i protagonisti di una “recita”
che travalicava le mura di un teatro. La città, già stupefacente
scenografia, metteva in scena le proprie viscere. I viennesi procedevano
verso una esteriorizzazione e raccontavano la loro vita e i loro
pensieri intimi. Il cambiamento di prospettiva in Klimt era “dettato”
dalle contingenze psicologiche collettive. Si era fatta strada in lui,
come negli spettatori rappresentati nel suo dipinto, l’ipotesi di una
nuova dimensione affiorata dal sé. L’inconscio sollecitava i
comportamenti.
Un anziano
collega di Freud, Joseph Breur, trattando il caso di una giovane donna
viennese nota come “Anna O.” aveva scoperto che “la monotona vita
familiare e la mancanza di una adeguata occupazione intellettuale”
avevano indotto Anna “all’abitudine di sognare a occhi aperti”. Quel che
la giovane donna viennese chiamava “il mio teatro privato”. I viennesi
cercavano loro stessi. A quel generalizzato stato, non ancora compreso,
ma intuito, corrispondeva un malessere che rapidamente si era diffuso.
E quest’era
il frutto maturo di una contesa sorda, iniziata qualche decennio avanti:
la borghesia liberale austriaca si era rafforzata costringendo la
monarchia assoluta, quasi feudale, dell’imperatore Franz Joseph, ad
accettare una mutazione in senso più democratico dello stato. Una collaborazione
tra borghesia illuminata e aristocrazia. La maggior parte degli
austriaci si rendeva conto che la nazione aveva imboccato la strada
della transizione. Nei negoziati con l’imperatore, la borghesia aveva
ottenuto di trasformare Vienna in una delle più belle città del mondo.
Come dono ai viennesi, l’imperatore aveva consentito la demolizione
delle vecchie mura e delle fortificazioni che circondavano la città per
fare spazio a un grande boulevard, la Ringstrasse. Lungo entrambi i lati
di questo viale dovevano sorgere magnifici edifici pubblici – il
Parlamento, la sede del comune, il teatro dell’opera, il nuovo
Burgtheater, il Museo di belle arti, il Museo di storia naturale e
l’Università di Vienna – insieme ai palazzi dell’aristocrazia e a
edifici da suddividere in lussuosi appartamenti per la classe più
agiata. Nello stesso tempo la Ringstrasse avrebbe portato i quartieri
periferici popolati da negozianti,
commercianti e operai, a più stretto contatto con il centro della città.
E fu un dilagare. Vienna diventò una città di lusso. Simile a una
accecante lampada attrasse le falene. Arrivò nella capitale gente da
tutte le parti dell’impero. E quel che era il “sogno” imperiale d’una
città bellissima ma congelata nell’immobilità, con l’apporto delle più
varie personalità provenienti dai luoghi più disparati, mutò
autonomamente in un crogiuolo a un tempo di vitalità intellettuali e
fortissime contraddizioni. Individui anonimi e dinamici si
interrogavano. L’humus era pronto. Vi contribuì il Circolo di Vienna che
riuniva gli uomini dagli interessi filosofici. Ludwig Wittgenstein
tentò di codificare tutta la conoscenza in un singolo linguaggio
standard. Intanto Gustav Mahler preparava la transizione musicale da
Haydn, Mozart, Beethoven aprendo alla nuova
generazione di musicisti: Arnold Schonberg, Alban Berg, Anton Webern.
Gli architetti Otto Wagner, Joseph Maria Olbrich e Adolf Loos reagivano
ai pomposi edifici pubblici goticheggian-rinascimental-barocco della
Ringstrasse, inventando limpidi funzionali stili. Loos proclamava:
“L’ornamento è un delitto”. Imposero la pianificazione urbana. Wagner
cercò anche un’armonia tra arte e funzionalità in collaborazione con
design diretti da Josef Hoffmann e Koloman Moser. Producevano gli
oggetti della vita quotidiana. Dai mobili ai gioielli. In tanto fervore,
incontenibile Cassandra, Karl Kraus continuava a predicare con
visionaria preveggenza la catastrofe futura. Gli “Ultimi giorni
dell’umanità”. “Il viennese non andrà mai a fondo, ma al contrario
ascenderà sempre, fino a impiccarci”.
Sull’intricato
groviglione s’effondeva la lunga ombra dell’uomo della Berggasse. Le
teorie del dottor Freud si coniugavano agli scritti di Schnitzler, ai
dipinti di Klimt, Kokoschka e Schiele. Svelavano quotidiane ipocrisie,
emozioni irrazionali, conflitti sotterranei. Crimini celati tra le
pareti di casa. Fu la scoperta del sesso esibito come entità centrale
del comportamento dell’uomo. Dell’edonismo e della rappresentazione
orgiastica di se stessi. Un mondo risplendente poggiava su piedi
d’argilla. Sotto eleganti vernici si annidavano furiosi erotismi. L’uno
covava impulsi aggressivi, contro sé e contro gli altri. Freud li
chiamerà pulsione di morte. Il prodotto d’ogni contorcimento produsse
una collettiva e ossessiva ricerca di una “strana” realtà.
Impensabilmente ignorata. La forsennata passione per l’autoanalisi prese
campo. I viennesi si conobbero così bene che furono incapaci a
riconoscersi. L’estetica aveva scoperchiato il vaso di Pandora.
L’Austria e l’Europa erano pronte per deragliare nella catastrofe
infernale.
Fonte: il Foglio sabato 2 novembre 2013
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