04 novembre 2013

LA FINE DELLA SOCIETÀ


Fabio Gambaro intervista il sociologo francese Alain Touraine: “siamo tutti soli come attori in un teatro vuoto”con il tramonto del capitalismo industriale cadono anche le sue istituzioni: Stato, classe, famiglia.

 La Repubblica, 31 ottobre 2013

Da molti anni Alain Touraine si è imposto come uno dei più attenti e fini osservatori del divenire della nostra società. Di libro in libro, con paziente determinazione, il sociologo francese scruta e analizza i caratteri e le trasformazioni di un mondo che, da postindustriale, è ormai diventato «post-sociale ». Un’evoluzione che è al centro anche del suo ultimo denso saggio, La fin des sociétés (Seuil, pag.657, euro 28), summa teorica di mezzo secolo di ricerche e analisi, nella quale spiega come il dominio del capitalismo finanziario abbia ormai rimesso in discussione e reso inservibili tutte le costruzioni sociali del passato. Di fronte a questa vera e propria «fine delle società», dove anche i movimenti sociali sembrano non avere più presa sul reale, per lo studioso, che ha da poco compiuto ottantotto anni, non resta che affidarsi alla resistenza etica, unica capace di ridare un senso al vivere e all’agire collettivo.

«Una società è sempre determinata da un insieme di pratiche ma anche da un sistema di costruzione della realtà», spiega Touraine, tra i cui saggi più recenti figurano La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore) eDopo la crisi (Armando). «In passato, le società si sono pensate e costruite in modo religioso, poi, a partire dal Rinascimento, si sono costruite attraverso il pensiero politico. In seguito, negli ultimi due o tre secoli, la società industriale si è pensata in termini socio-economici, tanto che alla fine società e economia hanno finito per identificarsi».

Negli ultimi decenni cosa è cambiato?
«A partire dagli anni Sessanta abbiamo assistito al progressivo declino del capitalismo industriale, dato che una parte sempre più importante dei capitali disponibili hanno smesso di avere una funzione economica. Ha prevalso il capitalismo finanziario e speculativo, che sottrae capitali agli investimenti produttivi. Questa trasformazione del capitalismo ha progressivamente svuotato di senso tutte le categorie politico-sociali con cui eravamo abituati a pensare la società contemporanea. Siamo entrati così in un’epoca post-sociale».

Cosa significa?
«La società si forma nel momento in cui le risorse economiche acquistano una forma sociale attraverso le istituzioni. Quando una parte delle risorse non entra più in circolo nella società, le costruzioni sociali si svuotano di contenuto. Oggi tutte le categorie e le istituzioni sociali che ci aiutavano a pensare e costruire la società - Stato, nazione, democrazia, classe, famiglia - sono diventate inutilizzabili. Erano figlie del capitalismo industriale. All’epoca del capitalismo finanziario non corrispondono più a niente. Non ci aiutano più a pensare le pratiche sociali contemporanee e a governare il mondo in cui viviamo. In questo modo, il sociale viene meno».

Da qui l’idea della fine delle società?
«Il trionfo della finanza speculativa disarma la politica e l’economia, disarticolando le società così come le abbiamo conosciute e pensate finora. Di fronte a questa situazione, alcuni pensano che la società contemporanea sia capace di trasformarsi da sola. Immaginano una società tecnico-operativa, figlia di un capitalismo tecnologico selvaggio, che non ha più bisogno di sistemi concettuali e di categorie sociali. Ma quando si fa a meno dei sistemi di costruzione della realtà, si lascia spazio alla regressione attraverso le pseudo- religioni e le pseudo-politiche, il comunitarismo e l’ossessione dell’identità,
l’edonismo individualista sfrenato che alimenta la psicosi e la violenza su se stessi e sugli altri».

Esiste un’alternativa?
«Visto che le vecchie categorie sono inutilizzabili, occorre trovarne di nuove. In particolare, interessandosi alle categorie del soggetto autocosciente. Nella società della riflessività il soggetto occupa una posizione centrale. In passato, il sociale era fondato sull’idea della relazione all’altro, oggi occorre riconoscere la priorità della relazione a se stessi. Essa è fondamentale, creativa e dà un senso alla realtà. Per questa strada, l’individuo può ridiventare un attore sociale. Non più passando dal sociale, dalla politica o dalla religione, ma passando da se stesso, in quanto soggetto».

Sul piano individuale contano la coscienza e la responsabilità...
«Naturalmente. E quando si parla di oggetto si parla di diritti. La fine delle vecchie categorie ha lasciato il vuoto. Siamo come in un teatro dove il pubblico osserva una scena senza attori. Occorre che ogni singolo spettatore si faccia carico della scena, rivolgendosi a se stesso e egli altri spettatori. E al centro della sua riflessione devono esserci i diritti fondamentali, perché i diritti costituiscono il sociale. Rispetto Stéphane Hessel, ma l’indignazione non basta. Oggi occorre ripartire dai diritti e dalla loro difesa, come già avviene in molte parti del mondo. E come fa anche il nuovo Papa, che sembra adottare volentieri il vocabolario dell’etica. Hannah Arendt ha sottolineato il diritto di avere dei diritti. Io aggiungo che i diritti stanno al di sopra delle leggi».

Attraverso il soggetto è possibile resistere alla fine delle società?
«La questione dei diritti è fondamentale per ripensare la società. La libertà, l’uguaglianza, ma anche il diritto alla dignità, che impedisce che il corpo umano possa essere venduto come una merce. La loro difesa ricrea dei legami sociali. Queste preoccupazioni etiche non sono aspirazioni astratte, dato che sono già presenti nella società civile molto di più di quanto non si possa immaginare».

Promuovendo la resistenza etica alla decomposizione del sociale, non si rischia di contrapporre l’etica alla politica?
«La contrapposizione oggi è necessaria, dato che quella che chiamiamo “politica” è ormai una realtà molto degradata e travisata. Il carattere nobile dell’azione politica può rinascere solo dall’etica. Non da una politica di classe, non da una politica della nazione, non da una politica degli interessi o da una politica del sacro. Utilizzando queste categorie del passato, la politica non sa e non riesce più a parlare alla gente. Diventa afasica».

Come fare allora per reinvestire il sociale e prendere delle decisioni che riguardano tutti?

«L’idea della politica che prende delle decisioni in nome dell’interesse comune non funziona più. Oggi occorre partire da un’esigenza etica che si trasforma in azioni concrete e in istituzioni. Si pensi ai diritti delle donne. La condizione femminile è diventata uno degli elementi determinanti per valutare il grado si sviluppo di una società. Secondo me, il solo scopo importante e nobile e della politica è quello di favorire la nascita di nuovi attori sociali. E ciò non è possibile senza passare attraverso il soggetto e i suoi diritti. Solo così si ricrea il sociale».

In questo modo sarà anche possibile restituire vitalità alle nostre democrazie in crisi?«La democrazia, che oggi appare svuotata di senso, potrà ritrovare un significato solo se sapremo creare dei soggetti democratici. Non c’è democrazia se non ci sono convinzioni democratiche. Le istituzioni da sole, senza gli attori che le animano, non possono funzionare. Per questo occorre trasformare gli individui in soggetti capaci di essere degli attori postsociali. È un compito urgente, perché oggi le convinzioni democratiche mi sembrano sempre meno diffuse». 

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