Questa mattina desidero augurare il buongiorno a tutti i miei lettori con alcuni versi di PATRIZIA CAVALLI e con un breve saggio che ALFONSO BERARDINELLI ha dedicato ieri alla poetessa:
E se mi guardi davvero e poi mi vedi?
Io voglio che stravedi non che vedi!
* * *
Se i miei numeri non vincono
neanche quando non li gioco
vuol dire che per me non c’è più gioco,
nemmeno la sfortuna mi sta accanto.
* * *
Esseri testimoni di se stessi
sempre in propria compagnia
mai lasciati soli in leggerezza
doversi ascoltare sempre
in ogni avvenimento fisico chimico
mentale, è questa la grande prova
l'espiazione, è questo il male.
* * *
Adesso che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che ogni giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove non c'è richiamo e non c'è più ragione
di spogliarsi in fretta per riposare dentro
l'accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha mai principio
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte le cadenze della voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.
***
e guardare nella immobilità
sovrana la bellezza di una parete
dove il filo della luce e la lampada
esistono da sempre
a garantire la loro permanenza.
Canto di amore e di musica
.
Le poesie di Patrizia Cavalli come i tableaux parisiens di Baudelaire. Il fascino delle rime anarchiche
.
Alfonso Berardinelli
.
Come gli
americani hanno appena scoperto entusiasti il pensiero di Leopardi
traducendo lo “Zibaldone”, così hanno anche scoperto la poesia di
Patrizia Cavalli e ora ce la insegnano. E’ appena uscita per la Farrar,
Straus and Giroux di New York un’ampia antologia dai suoi primi cinque
libri, pubblicati dal 1976 al 2006, con il titolo “My poems won’t change
the world” a cura di Gini Alhadeff.
Rileggere
qui, in questo bel volume di grande formato, hard cover e sovraccoperta
con una foto irresistibile dell’autrice, le poesie della mia grande
amica mi ha risvegliato da un lungo sonno. Mi ero addormentato da troppo
tempo sulla certezza del loro valore e carattere unico nella poesia
italiana dell’ultimo mezzo secolo. Mi era bastato ripetere a ogni
occasione che le poesie di Patrizia Cavalli sono uno dei pochi punti
fermi in un mare di confusione e di valutazioni sbagliate: ora devo
accusare la mia soddisfatta pigrizia e la mia ignavia di critico.
D’altra
parte devo dire che questa mia pigrizia poggiava su un’ottima ragione,
della quale sono ancora convinto: la vera e migliore poesia sta in piedi
da sola, basta leggerla, non ha bisogno di esplicazioni, analisi,
commenti e perorazioni avvocatesche. E’ stato giustamente teorizzato che
il valore letterario e artistico non si “dimostra” come un teorema, si
può soltanto eventualmente “argomentare” con passione dialettica e
abilità retorica, ma non si tratta di sillogismi o di verità
scientifiche, si tratta di evidenze
fisiche e mentali che richiedono occhi per vedere e orecchi per sentire.
Ma per questo ci vogliono lettori capaci di leggere. Invece la cosa più
comune è che la poesia non viene propriamente letta, viene anzitutto
pensata come valore in sé, valore nominale, astratto, extra-sensoriale e
perfino extralinguistico. Quando si deve valutare, decidere,
distinguere fra una poesia e un’altra, fra un autore e un altro, coloro
che ci riescono, coloro che osano sono sempre stati pochi e ora sono
anche meno.
Nel caso di
Patrizia Cavalli si verifica però un fenomeno rassicurante: i lettori ci
sono e sono molti, comprano il libro, leggono e capiscono, ricordano
questa poesia o quest’altra, certi versi li sanno perfino a memoria. Chi
non capisce o dimostra scarsa capacità di lettura nonostante
l’armamentario specialistico, sono i critici, gli studiosi, gli
accademici. Quando ci si innamora troppo delle tecniche di analisi del
testo, finisce che un testo vale l’altro, perché il critico è tutto
preso dalle proprie tecniche e pensa che per capire sia sufficiente
applicarle.
Tanti anni
fa, quando ero giovane, amici più anziani e autorevoli mi hanno fatto
credere che promettevo bene come critico letterario. Non dico che è
stata la mia rovina, ma che è stato un equivoco. Mi sono accorto presto
che in fondo preferivo più discutere di letteratura in generale, o “dire
cattiverie” ragionate su qualche cattivo scrittore esageratamente
apprezzato, che applicarmi a produrre magnifici saggi su autori amati.
Gli autori amati mi bastava frequentarli, leggerli e rileggerli, e
pensavo che bastasse anche a loro. Non avevano certo bisogno di me e
della mia propaganda ermeneutica. Quando uno scrittore e soprattutto un
poeta ti piace, ti convince, ti sorprende, allora il silenzio, secondo
me, è la cosa più naturale. Tanto più che a differenza della critica
d’arte o musicale, nella critica letteraria si devono aggiungere parole
ad altre parole e con le parole di un poeta la lotta è impari.
Con le
poesie di Patrizia Cavalli mi è sempre successo questo. La mia
comprensione era più percettiva che analitica e discorsiva. Ma ora che
ho fra le mani questo libro americano, con il testo italiano a sinistra e
la traduzione a destra, con la prefazione della curatrice, le
perspicaci osservazioni tecniche dei traduttori e le dichiarazioni
acutamente apologetiche di alcuni scrittori sulla quarta di copertina,
mi sembra di dover ricominciare.
Evidentemente
tradurre un poeta è il miglior modo di leggerlo. Un momento: l’ho
appena detto e già mi sembra falso. Neppure il lavoro del traduttore
garantisce la comprensione. Tutto dipende dall’autore tradotto e dalle
esigenze di chi traduce. Spesso in chi legge poesia in una lingua che
non è la propria, la prima cosa che sfugge è la vitalità della lingua,
il suono e il tono della voce. In poesia la lingua è tutto, perché in
una lingua che sia viva è difficile scrivere stupidaggini. Rileggendo
queste poesie con la traduzione inglese accanto, ho riscoperto la forza
depuratrice, disintossicante dell’italiano di Patrizia Cavalli. Il suo
lessico è misto e ibrido, ma la sua dizione è immancabilmente pura. Si
intuisce subito che è proprio la purezza della dizione lo scopo per cui
scrive. Quando una cosa è precisamente detta, la mente guarisce dal
malessere, dalla malattia dell’imprecisione. La purezza non è altro che
il risultato dell’energia e vitalità linguistica e l’energia è anche la
possibilità di ottenere il massimo con la minima quantità di parole. Di
solito l’inglese è più sintetico e breve dell’italiano: quando scriviamo
in prosa ci accorgiamo di quanto siano pesanti e poco maneggevoli i
nostri polisillabi, le flessioni verbali, le preposizioni semplici e
articolate. Basta scorrere l’indice di questa antologia per vedere che
invece fin dal primo verso l’italiano della Cavalli spesso batte
l’inglese in velocità e brevità. Anche nei casi in cui la traduzione
replica l’originale in perfetta simmetria, perfino il lessico italiano
scelto dalla Cavalli è più rapido di quello inglese.
Bisogna
ringraziare il poeta che rende fieri della propria lingua e ne esalta le
risorse. Non voglio dire che rapidità e brevità in poesia siano un
valore o un dovere. Anzi, la stessa Cavalli sa fare altro. Nei suoi
libri più recenti che sono anche, credo, i migliori, “Pigre divinità e
pigra sorte” del 2006 e “Datura” pubblicato qualche mese fa, compaiono
sette poemetti di varia misura e tessitura, uno, il più lungo, in forma
teatrale. In questi casi, la velocità (che mi fa pensare a volte a Emily
Dickinson) è sostituita da una crescita ramificata di figurazioni,
personificazioni, argomenti, scene urbane (che mi ricordano certi
“tableaux parisìens” di Baudelaire). Ma tanto la velocità che
l’architettura ubbidiscono alla ricerca dell’enunciato e della sintassi
più efficienti e fedeli alla cosa da dire: forme verbali che afferrano
il pensiero nel momento in cui accade, o meglio lo inventano, che sia
semplice e diretto o laborioso e variato. A volte esclamazione,
preghiera, invettiva, aforisma. A volte auscultazione, raziocinio,
recita umoristica con tutti i suoi attributi e procedimenti retorici.
Alcuni dei
suoi quattordici traduttori hanno osservato per esempio (cosa secondo me
decisiva) che la musica verbale della Cavalli non è affatto così
semplice da tradurre come sembra: la sua particolare velocità, dice
Jorie Graham, in inglese “può diventare quasi banale. Ho provato a
conservare la ricchezza di significati mulpli nella velocità del
passaggio da una lingua all’altra. E l’italiano della Cavalli è così
spontaneamente, naturalmente idiomatico, e l’idioma abbrevia, mentre
nell’american english si tenderebbe a usare un idioma specifico, ma
questo rischia di suonare totalmente falso tradendo la semplicità a
tutti comprensibile del suo tono”. Geoffrey Brock dice: “Ho cercato di
dare in inglese alle sue poesie un’ossatura metrica flessibile, più o
meno analoga al suo uso del metro italiano, che ho sempre trovato sia
piacevole che sorprendente (…) una delle cose che amo di più
nell’italiano delle sue poesie è il modo in cui la sua lingua, così
contemporanea, fa uso e ridà vita a certe tecniche tradizionali”.
Anche
Rosanna Warren annota qualcosa di simile: “Ho cercato di usare un
pentametro inglese flessibile come base (…) perché Patrizia usa una
misura endecasillabica flessibile. Trovo affascinanti queste poesie per
la loro combinazione di espressioni colloquiali, casuali e di modi
filosofici petrarcheschi (‘il mio bene’, ‘il mio male’); di affermazioni
molto dirette, prosaiche; e di un improvviso decollare verso un
linguaggio figurato”.
Mentre David
Shapiro sottolinea il fatto che “lei ti sta dando l’état présent di
tutta la sua anima, il suo stato presente ma anche il presente del mondo
(…). E’ come aver scoperto una poesia greca, quando i greci volevano
essere veramente felici”.
Come lettore
avevo sempre notato le stesse cose. Nonostante la velocità e
l’improvvisazione dei suoi incipit, arrivano presto, se non subito, gli
endecasillabi, le rime per caso o per equilibrio fonico, rime quasi
sempre fuori schema, anarchiche, fisiologiche, che sembrano
autoprodursi dalla lingua d’uso,
oltre che dalla memoria istintiva di un ordine classico remoto che
arriva in soccorso al momento giusto a dare forma all’informe. Non c’è
nessuna coerenza stilistica intenzionale. Non c’è neppure un’idea
preconcetta di poesia. Tutto nasce dalla testarda volontà di afferrare
ciò che sfugge, non la verità ma la cosa come è, mentre si forma e si
trasforma.
Facciamo per
un momento il gioco preferito dei critici, quello dei precedenti e
delle influenze. Che cosa si può riconoscere a vista? La violenta
immediatezza di Saffo e di Catullo? La teoria degli “spiriti corporei”
di Cavalcanti? Le canzoni di Dante (“Amor che ne la mente mi ragiona”)? I
sonetti di Petrarca (“Pace non trovo e non ho da far guerra”)?
L’endecasillabo sciolto, diaristico di Leopardi? E naturalmente
l’antinovecentismo di Saba, Penna, Morante. Presupposti sia lontani che
prossimi, classici e comunque non imitabili. Autori a cui si può
chiedere aiuto, o che vengono in aiuto spontaneamente solo perché il simile attira il simile.
Non è
difficile ricapitolare le prime evidenze di questo stile: (a) la
paradossale naturalezza della metrica (metrica che è nello stesso tempo
artificio e istinto); (b) le rime che arrivano a sorpresa quando è
arrivato il momento, quando si annunciava una minaccia di disordine; (c)
la sintassi a volte elementare e lineare, tagliata a misura del verso, a
volte spezzata o sghemba o dilatata fuori misura, che non si sazia di
aggiungere specificazioni e distinzioni; (d) il lessico impietosamente o
amorevolmente preciso, non sospettabile di selettività e squisitezza
letteraria, lessico parlato e parlabile, anche se specializzato.
All’improvvisazione
che taglia e scorcia si alternano le tecniche retoriche, gli spazi
mentali dell’allegoria, i tempi vocali del teatro o dell’epigramma,
l’andamento esplorativo, rallentato delle descrizioni dal vero e poi
sempre più spesso, nei due ultimi libri, la costruzione del poemetto a
tema.
Per la
copertina americana il più famoso dei poeti newyorchesi, John Ashbery,
ha scritto queste due righe, che propongono un’arguta confutazione del
titolo “le mie poesie non cambieranno il mondo”: “Like Emerson, Patrizia
Cavalli says the same thing over and over, and each time it is
amazingly fresh and surprising. The world does change, in the telling”.
Così viene detto in breve quasi
tutto. Si parte con il riferimento audace e umoristico a un serissimo
moralista come Emerson, ma la cosa vale quasi per ogni classico: non
sono pochi quelli che tendono a ripetere la stessa cosa in modo sempre
nuovo e sorprendente. Ma non è vero che si tratta sempre della stessa
cosa. Ogni volta che la dici, la cosa cambia. Perfino il mondo cambia,
quando lo dici di nuovo.
E Jhumpa
Lahiri ha dichiarato: “Leggere Patrizia Cavalli è pura estasi. Riesce a
unire l’acume erotico di Catullo e la limpidezza degli haiku. Con
disarmante esattezza dà voce all’instabilità, alle assurdità, alla
penetrante intensità dell’amore. Forse le sue poesie non potranno
cambiare il mondo, ma hanno cambiato la mia vita”.
In una delle
sue rare interviste, Patrizia ha parlato della sua poesia come del solo
mezzo che ha per “conoscere e capire nel modo più efficace e rapido
possibile” e ha definito la poesia “l’unica scienza di cui mi fido”. Mi
scuso per l’autocitazione, ma ora che ci penso, ricordo di aver scritto
anni fa questo breve testo non firmato: “Fare scienza di tutto ciò che
la scienza trascura o ignora: sembra questa la vocazione più forte e
costante che si manifesta (o si nasconde) nella poesia più recente di
Patrizia Cavalli. Che pur somigliando sempre a se stessa, sviluppa ora
un’attitudine riflessiva di genere filosofico intorno ai misteri di ciò
che solo in apparenza è chiaro: le ragioni e le condizioni del piacere e
del dolore, i mutamenti impercettibili e decisivi che confondono o che
intensificano quello che sentiamo e siamo”.
L’occasione di queste parole era l’uscita
nel 2006 di “Pigre divinità e pigra sorte” e sentivo che era ora di
mettere da parte lo stereotipo della grazia, della leggerezza e del
quotidiano, “tutte parole” aveva detto Patrizia “che mi hanno sempre
fatto venire il voltastomaco”.
Ci si era abituati a considerare la Cavalli
una ragazza atemporale, le cui poesie non sopportavano né cronologia né
storia, sembrava che nascessero per germinazione naturale, senza
lavoro, riflessione, complicazione, costruzione. Ma poi il tempo ha
costretto la ragazza atemporale a un’ardua lotta per discriminare il
vero e il falso e contro ogni realtà fittizia: l’ha spinta a diventare
un filosofo per necessità, mistico-materialista o eroico-illuminista
(perciò piace tanto sia ad Agamben che a me) che combatte con forze
terrestri e celesti, che può essere abbattuto ma mai soccombente.
Questo è
stato l’anno della Cavalli e c’è da aggiungere qualcosa. Prima è uscito
il cd “Al cuore fa bene far le scale”, con poesie e canzoni musicate e
cantate da Diana Tejera. Poco dopo è stata pubblicata la nuova raccolta
“Datura”, un libro più mentale e umoristico degli altri, o diversamente
irruento, nel quale i poemetti sono addirittura cinque e il più lungo,
“Tre risvegli”, operina teatrale comico-allegorica, occupa la sezione
centrale del libro. Qui la cosiddetta interiorità è rappresentata come
la rete che lega corpo, cielo, amore e mal di testa in un groviglio di
cause e di effetti elementari e mai prevedibili. Viene offerta al
pubblico una radiografia drammatica e una vicenda a lieto fine sulla
vita psichica come commedia fisica.
Si trova in
questo libro anche una delle cose più belle e potenti che la Cavalli
abbia scritto, il poemetto baudelairiano, “La maestà barbarica”. Si
tratta della personificazione vivente di una sovranità senza scopo né
meta, che inscena una strategia di pose e gesti, di parole indirizzate
al nulla o “a certe alte / infami autorità” senza volto. Protagonista
è.una sublime parodia del tragico, una mendicante regale che non mendica
affatto, che non chiede, a cui spontaneamente si dà quello che lei
svogliatamente, distrattamente preferisce. E’ una musa “arcaico-tragica”
che sfida il senso comune e per provocazione si mostra caduta in basso
mentre in realtà è sempre altrove, “in un oscuro dove”.
C’è un
messaggio? Forse sì, se solo si vuole. Chi sfida e trascende la comune
realtà lo fa a rischio di follia. Ma la follia può diventare un’arte, o
più di una, un linguaggio destinato a chi non c’è o non si vede, un modo
di essere che non si mescola con gli usi del mondo.
Un consiglio
per i pigri, gli increduli e chi ha paura di leggere. Cominciate dal cd
pubblicato da Voland, parole della Cavalli, musica e voce di Diana
Tejera. Vedrete che la Tejera legge per voi le poesie cantandole, verso
dopo verso, parola per parola. Dopo un po’ cercherete di cantare come
lei, ma non sarà facile.
Alfonso Berardinelli
da il Foglio sabato 7 dicembre 2013
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