La generazione innocente di Matteo Renzi
8 dicembre 2013
di Ida Dominijanni
[Questo intervento è uscito sul sito di Ida Dominijanni].
E’ dura da dire, visto lo stato in cui
ogni giorno il Pd mostra di versare, eppure anche stavolta, alla fine,
il principale erede della defunta democrazia dei partiti è riuscito ad
allestire un congresso ”vero”, con contenuti, poste in gioco e profili
di leadership riconoscibili. E malgrado l’intero percorso sia stato
viziato da regole traballanti e assurde – tutte: dal tesseramento aperto
e pertanto corrotto al populismo del gazebo che consente a chiunque di
votare per il segretario di un partito -, alla fine chi andrà a votare
l’8 dicembre potrà farlo con cognizione di causa, salvo essere
completamente assordato dalla grancassa mediatica che suona pressoché
all’unisono per il sindaco di Firenze.
Oscurato, per l’ennesima volta dal 1989
in poi, dalla finta rappresentazione politico-mediatica di un derby fra
”nuovo” e ”vecchio”, per l’ennesima volta il conflitto è invece sulla
direzione dell’innovazione. Non c’è, fra i tre contendenti, chi non si
dichiari per il cambiamento: il punto è come cambiare. L’uscita
dal ventennio berlusconiano, che è stato anche il ventennio della
sconfitta e della subalternità della sinistra, è il problema comune: il
punto è come se ne esce. Si deve alla sterzata che Gianni
Cuperlo ha impresso negli ultimi giorni alla sua battaglia, affilando la
polemica con Renzi, che i termini di questo ”come” si siano chiariti.
Se per Renzi uscire dal ventennio significa portare a compimento
l’innovazione che il Pd (anzi il Pds-Ds-Pd) ha lasciato a metà e farla
finalmente finita con la genealogia della sinistra, per Cuperlo uscire
dal ventennio significa correggere radicalmente la rotta di questa
ventennale innovazione, ritrovando e rilanciando quella genealogia. Meno
sinistra per Renzi dunque, più sinistra per Cuperlo. Più neoliberismo
in salsa blairiana per Renzi, abbandono della ricetta neoliberista,
responsabile della crisi economico-finanziaria, per Cuperlo. Meno
partito e più democrazia del pubblico e dell’applauso per Renzi, più
partito e più partecipazione organizzata per Cuperlo. Meno
rappresentanza dell’insediamento sociale tradizionale della sinistra per
Renzi, più per Cuperlo. E così via. Chi dei due è più innovatore?
Dipende, è ovvio, dalla lettura del ventennio e degli errori della
sinistra durante il ventennio. Per Renzi il Pd ha perso e rischia di
perdere perché troppo legato alla sua provenienza originaria; per
Cuperlo perché l’ha abbandonata.
Sarebbe un gioco da ragazzi
rintracciare, dietro i due contendenti di oggi, le due visioni del Pd
che si contendono il campo fin dalla sua nascita, e se lo contendevano
già nel Pds-Ds, con relativi leader di riferimento: un gioco da ragazzi
che tuttavia basterebbe a sfatare la leggenda metropolitana secondo la
quale l’innovazione di Cuperlo sarebbe ”zavorrata” da D’Alema e quella
di Renzi invece volerebbe leggiadra senza zavorra alcuna (”rottamandi”
di ogni tipo, e perfino uno come Pippo Baudo, sono saltati sul carro del
sindaco di Firenze). Meglio concentrarsi invece su un punto che fa la
differenza rispetto al passato. E la differenza, in un congresso che
comunque sancirà un forte ricambio generazionale ai vertici del Pd, la
fa la postura dei tre contendenti – Renzi e Cuperlo, ma anche Civati –
per l’appunto sulla questione generazionale.
Un anno dopo le primarie per la
premiership che lo videro sconfitto da Bersani, e quindici giorni prima
della sua più che probabile conquista della leadership del partito, la
cifra più vera della corsa di Matteo Renzi resta quella della
rottamazione. Che ha perso qualunque valenza pratica, il carro di Renzi
essendo per l’appunto affollatissimo di esponenti delle generazioni
precedenti, ma mantiene intatta la sua valenza simbolica. Che sta non
solo e non tanto nel giudizio liquidatorio del sindaco su chiunque
l’abbia preceduto (con continui svarioni nei riferimenti storici dei
suoi discorsi), quanto nella concezione della propria
generazione di cui si fa portatore. Anche nel suo intervento alla
Convenzione di stamattina non avrebbe potuto essere più chiaro. La sua è
la generazione ”di quelli che siamo cresciuti a figurine e serie tv, ma
che malgrado la scuola ce lo impedisse siamo riusciti a innamorarci di
un libro o di un quadro». Una generazione dunque tre volte vittima, dei
padri che l’hanno allevata ”a figurine e serie tv”, della scuola che ci
ha messo un carico da undici nel peggiorare le cose, della politica che
ha sfigurato la democrazia e via discorrendo. E due volte eroica, perché
malgrado tutto questo sopravvive a un destino di abbrutimento leggendo
qualche libro e visitando qualche museo e si candida a salvare il paese
che l’ha distrutta. Pertanto è arrivato il momento ”di poter dire una
volta per tutte che adesso tocca a noi, e che non siamo disposti ad
aspettare”.
Questa concezione risentita di una
generazione (auto)vittimizzata, innocente perché figlia degli errori
altrui e quindi irresponsabile per definizione, cresciuta ai margini e
in diritto di accedere al centro del sistema insediandosi direttamente
nella stanza dei bottoni, è il vero punto di senso comune, la vera base
ideologica di massa, che determina il successo di Renzi, nonché il suo
vantaggio sulla qualità evidente di uno sfidante immune da questa
concezione come Gianni Cuperlo. Ed è un punto stupefacentemente
sottovalutato nel dibattito pubblico, che invece di contestarlo o
quantomeno di problematizzarlo lo blandisce e lo legittima.
Una spinta generazionale di tal fatta
non può essere il trampolino del superamento del ventennio
berlusconiano, perché ne è precisamente l’effetto. E’ l’effetto della
biopolitica neoliberale, che per decenni ha costruito artatamente e pour cause
la guerra generazionale fra pensionati e precari, fra garantiti e non
garantiti, fra la fragilità (costosa) dei vecchi e la baldanza dei
giovani. Ed è l’effetto (lo scrive, fra l’altro, Civati nel suo
documento congressuale, che, sia detto per inciso ma non troppo, è il
migliore dei tre sia sulla questione generazionale che sulla questione
di genere) dell’evaporazione della funzione paterna incarnata da
Berlusconi, una funzione che consisterebbe in primis nel garantire non
la guerra ma il passaggio del testimone fra le generazioni.
E’ questa la ragione profonda, più
profonda delle pur cruciali ricette di politica economica, della
continuità di Renzi col ventennio che si candida a chiudere. Assai più
discontinua e innovatrice è la postura di chi ha uno sguardo più lungo
sul passato, non crede che il presente e il futuro comincino con la
propria data di nascita, e delle generazioni precedenti vede sì gli
errori ma anche la storia e la tradizione di cui sono state e sono
portatrici, e rispetto alle quali non si sente innocente e non si
assolve. Jacques Derrida diceva che è così che si eredita, scegliendo
che cosa prendere e che cosa lasciare, non per diritto divino a
subentrare nello scettro del comando. Ma purtroppo per Renzi Derrida non
si scambiava con le figurine e non recitava nelle serie tv.
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