L’operaio cinese
lavora tanto, guadagna poco e muore giovane. Così Repubblica
sintetizza la condizione degli operai cinesi confermando come il
“miracolo” cinese, nonostante quell'aggettivo comunista di cui
non si comprende davvero più il senso, assomigli sempre di più ai
peggiori aspetti della società manchesteriana (quella, per capirci,
messa alla gogna da Marx nel Capitale e da Dickens nei suoi romanzi).
Giampaolo Visetti
Lo stakhanovista
cinese
La voglia di fuga
delle tute blu d’Oriente
Shi Zaokun non sapeva dove si trova l’Ucraina. Non conosceva nemmeno le statistiche, a cui non par vero di emergere un istante dalla noia esibendo un record. L’ultimo: l’operaio cinese ha superato l’ex minatore dell’Urss, diventando l’individuo più laborioso della storia. Shi Zaokun aveva quindici anni e aveva lasciato il villaggio per cercare del lavoro a Shanghai. Ha mentito sull’età, si è procurato un permesso da ventenne ed è arrivato alla catena di montaggio della “Pegatron”. Pochi yuan all’ora, ma la possibilità di non staccare per dodici ore al giorno, senza una pausa. Quello che serve per mantenere i genitori anziani in campagna.
“Pegatron” è uno dei
marchi fantasma che popolano la Cina. Pochi lo conoscono, ma quasi
tutti acquistano ciò che produce. Proprietà a Taiwan, è uno dei
grandi terzisti dei colossi dell’elettronica: Apple, Sony, Samsung
e tutti gli altri. “Pegatron” è cresciuto quando il pioniere dei
laboratori-occulti del mondo, l’altra taiwanese “Foxconn”, con
sede a Shenzhen, è diventata imbarazzante: una tragica catena di
suicidi tra gli operai, che sono oltre un milione, risse tra
dipendenti disperati, reclusi per mesi dentro i cancelli della
fabbrica. Shi Zaokun invece era orgoglioso e per due ragioni: a soli
15 anni era arrivato a Shanghai, impresa mai riuscita al padre, ed
era stato ingaggiato da quelli che fanno i-Phone, tablet, computer.
La fabbrica dei sogni:
sulle ragazze, in paese, avrebbe fatto colpo. È stato qui che per la
prima volta, da un vecchio caporeparto, ha sentito pronunciare il
nome Aleksej Stakhanov. Gli fu detto, in poche parole, che quel
minatore del Don, quando l’Unione Sovietica faceva la stessa paura
della Cina di oggi, riuscì a estrarre carbone 14 volte più
velocemente dei compagni. Un eroe della patria, c’è anche il
monumento. Shi Zaokun, ha raccontato un amico, disse che lui avrebbe
superato Stakhanov, lavorando quattordici ore al giorno senza
fermarsi e saltando il giorno libero. Per la Cina e per la gloria
dell’elettronica, che stanno cambiando l’umanità. È durato un
mese.Una sera i genitori hanno ricevuto una telefonata da Shanghai:
«Vostro figlio ha il raffreddore, venite ». Shi Zaokun, il piccolo
Stakhanov di Pudong, era già morto.
Per l’azienda è stata la polmonite, che ha falciato anche altri tre degli altri 100 mila colleghi. Alla famiglia è stato offerto un risarcimento di 13 mila euro: il prezzo di un figlio cinese di 15 anni che poteva rendere 600 euro al mese. La madre ha rifiutato, pretende l’autopsia, ma non ha i 1.500 euro per pagarla. Si stanno tassando i colleghi, terrorizzati dall’idea che dopo la “fabbrica dei suicidi” la Cina possa esibire anche lo “stabilimento dei cadaveri”. Apple ha inviato gli ispettori: non fa bene, sotto Natale, sapere che hai in mano un giochino che uccide minorenni.
La storia di Shi Zaokun, icona del sacrificio del turbo-capitalismo socialista cinese che raccoglie il testimone degli schiavi inghiottiti dallo sfacelo dell’industria comunista sovietica, è però riuscita a diventare un simbolo: quello del luogo di lavoro più potente, drammatico, prodigioso e perennemente mutante della contemporaneità. In trent’anni non si lancia una nazione, con 1,3 miliardi di persone alla fame, al secondo posto dell’economia globale. Impossibile: a meno che non si sia in grado di «spianare le montagne e far scorrere i fiumi in salita». Devi cioè, nella testa, essere la Cina.
La ricetta sembra
semplice e per la prima volta l’ha scritta uno studio
internazionale condotto dal più grande sito web di offerte lavoro,
in collaborazione con il più importante istituto di ricerca sui
mercati globali, con sede in Germania. «La Cina sorpassa tutti in
tutto — questo il verdetto — perché nessun altro lavoratore del
mondo lavora quanto quello cinese, con la stessa capacità di
sopportare i sacrifici». Il primato va coniugato anche al passato:
nella storia moderna non c’è uno Stakhanov che avrebbe retto il
passo di uno Shi Zaoukun.
L’Urss ne ha avuto uno:
in Cina sono centinaia di milioni e ogni anno, secondo China Labor
Watch, 600 mila operai e impiegati muoiono per esaurimento da eccesso
di fatica. L’altra faccia della medaglia del Pil, capace direstare
a due cifre per un decennio prima di essere ora schiacciato dalla
crisi di Usa e Ue.
La coppa del mondo della laboriosità, assegnata da ottomila intervistati rappresentativi in otto potenze di quattro continenti, resta associata infatti ad un trofeo che si tende a nascondere nell’armadio: i cinesi sono gli stakhanovisti del presente, ma anche i più colpiti da esaurimenti fisici e mentali e nelle fabbriche del Guangdong l’attesa di vita è inferiore a quella nel deserto della Somalia: prima dei quarant’anni sei da mandare al pascolo. L’operaio cinese lavora sempre, guadagna poco e muore giovane: la formula perfetta sia per una multinazionale delocalizzata che per uno Stato alla preistoria del welfare. E i dati della ricerca lo confermano. Ufficialmente uno Shi Zaokun qualsiasi lavora nove ore e mezzo al giorno, a cui ne aggiunge una mezza per raggiungere il luogo di lavoro. Gli straordinari però sono necessari, per risparmiare gli yuan per tornare dove si è nati una volta all’anno: si arriva così a 14 ore al giorno, sette giorni su sette. Pechino, travolta da accuse e vergogna, corre ora ai ripari. Il consiglio di Stato ha fissato 40 ore lavorative alla settimana e 5 giorni di ferie all’anno. Obbedire non conviene a nessuno e non risulta che qualcuno sia stato fermato perché non voleva saperne di riposare.
Per amor di competizione: alle spalle dei cinesi, i più fedeli al dio lavoro sono gli statunitensi, tallonati dai tedeschi, che non arrivano alle 33 ore e mezzo settimanali. Maglia nera della pigrizia alla Francia, Italia non pervenuta. Coincidenze: Giappone e Corea del Sud non hanno compilato i questionari, ma il record del lavoro rispecchia fedelmente il primato economico delle super- potenze economiche di Asia, America ed Europa. L’Agenzia Onu che monitora l’organizzazione internazionale del lavoro, assicura che l’incrocio tra fasi-boom e cicli-crisi risulta decisivo. Uno studio della Banca mondiale, puntato sui colletti bianchi, estende però anche agli uffici la tendenza della fabbrica. La scrivania più occupata del mondo si trova oggi in un grattacielo di Shanghai, seguita dai desk di Hong Kong e Singapore.
In Asia anche i manager
lavorano tra le 12 e le 13 ore al giorno, domenica compresa, contro
le nemmeno 8 dei colleghi europei e americani. Non ricevono la
“ciotola di riso” dei loro operai, ma è chiaro che l’Oriente,
archiviato rapidamente il socialismo rivoluzionario, punta ora a
scardinare un altro mito del post-capitalismo occidentale: non è la
cosiddetta nuova qualità a impennare la crescita, ma la vecchia e
sporca quantità. Più un popolo lavora e più, Emirati a parte, lo
Stato cresce. Per chi non è ricco di famiglia, considerato che oggi
è l’Asia ad anticipare le tendenze, non è una buona notizia. E in
Cina l’hanno già capito. Per la prima volta anche le tute blu del
Dragone vogliono emigrare. Sogno di massa: andare lontano, guadagnare
di più, capire cosa significa “qualità della vita” e
permettersi di respirare senza sottrarre i giorni rubati da un cancro
ai polmoni.
Nell’epicentro del lavoro, un altro terremoto. Per l’Accademia delle scienze di Pechino oltre 100 milioni di lavoratori specializzati cinesi sono pronti a espatriare. Gallup rivela che in un anno sono emigrati 60 milioni di cinesi, mentre 30 milioni attendono il visto. In ottobre ce l’hanno fatta in 600 mila, ma il 13% della forza lavoro cinese sogna l’estero. L’Occidente “al tramonto” non è sulla lista: le terre promesse dei lavoratori più instancabili della storia sono Australia, Nuova Zelanda, Canada, Indonesia, Malesia, Africa e le tigri in crescita del Sudest asiatico, Vietnam, Cambogia, Thailandia e Myanmar. È la nuova geografia del mondo con il segno più, la mappa del mondo che lavora, sfrutta e produce per tutti e anche qui, precedendo i padroni delle aziende, gli operai cinesi arrivano per primi. Il tornitore dello Shanxi espatriato a Sydney strappa 2.400 euro al mese, il quadruplo che in patria. Chi lo assume risparmia oltre un terzo ed ha il migliore del mondo.
L’ultimo rapporto di
Deutsche Bank definisce «la gestione internazionale dei migranti
industriali qualificati» come la «questione chiave del futuro».
Non delocalizzano le imprese, migrano in massa i loro migliori
operai, trasformando la mobilità in un invincibile punto di forza
proletario. «Centinaia di milioni di lavoratori specializzati —
dice l’economista dell’università Fudan di Shanghai, Mey Haibin
— trovano normale seguire il business personale. Le imprese, più
che avvicinarsi ai mercati, dovranno inseguire questa inedita
migrazione politica. A vincere, saranno i Paesi complessivamente più
attrattivi».
La fuga delle super tute blu, in Cina, può valere fino a quattro punti di Pil e le autorità sono in perché a innescarla non è il calo dell’offerta di manodopera, ma il suo rifiuto. Per la prima volta trema il modello della “fabbrica del mondo”, eufemismo con cui abbiamo concordato di indicare il “campo di lavoro” che ci ha permesso di impoverirci nel lusso. Non reggono più i piccoli Stakhanov di Shanghai; non il 70% delle operaie cinesi che confessano di essere molestate e violentate nei reparti; non le “Barbie operaie” incatenate sotto gli alberi di Natale delle capitali europee per denunciare una volta all’anno lo schiavismo asiatico; e neppure i sopravvissuti ai suicidi nella Foxconn, gratificati con una piscina per combattere la disperazione.
La Cina, dopo aver
plasmato il profilo delle ultime due generazioni di lavoratori
mondiali, genera oggi il proletario globale del futuro. Giovane,
specializzato, ambizioso, determinato a invecchiare, consumista e con
la valigia sempre fatta. Un ibrido tra il sovietico Aleksej
Stakhanov, il cinese Shi Zhaokun e un banchiere americano in carriera
di JpMorgan, trapiantato a Kuala Lumpur. È con questo nuovo
operaio-Avatar dell’Asia, istantaneo clonato di epoche, di classi e
di culture del lavoro, che sta per misurarsi il Capannone
dell’Europa. Ma se la “Fabbrica” resta quella, ha avvertito il
premier cinese Li Keqiang, «delocalizzazioni e innovazioni
tecnologiche ricorderanno il padre pastore che, per accelerare,
offriva un passaggio sul bue al figlio astronauta diretto sulla
luna».
La Repubblica - 2 gennaio
2014
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