05 gennaio 2014

LA SCUOLA DELLA CARNE SECONDO Y. MISHIMA








Un romanzo del 1963 finora inedito in Italia, ambientato in un Giappone occidentalizzato. Ritroviamo il Mishima che abbiamo amato da ragazzi, il narratore di storie delicate come La voce delle onde o ambigue come Confessioni di una maschera. Lontanissimo dai deliri ultranazionalisti che lo porteranno al suicidio in pubblico e lo trasformeranno (lui gay dichiarato) in una grottesca icona macho per groppuscoli fascistoidi tipo Casa Pound.

Viola Papetti

Commedia mondana sotto i neon di Tokio

Un Mishima poco Mishima firmò nel 1963 que­sto felice romanzo o rac­conto lungo, fin troppo bril­lante, agile, ele­gante che si snoda in 54 capi­to­letti, ben cal­co­lati, La scuola della carne (tra­dotto da Car­lotta Rapi­sardi, Fel­tri­nelli «I Nar­ra­tori», pp. 240, euro 16,00), e pre­sen­tato come ine­dito in Ita­lia. È il dono per­fetto per l’amica sin­gle, tra i trenta e i qua­ranta, aggres­si­va­mente por­tati, una crea­tiva in car­riera che abiti in una grande metro­poli come Tokyo, fre­quenti con disin­vol­tura una Rop­pongi not­turna, i gay bar, fac­cia shop­ping nelle più costose bou­ti­que ita­liane. E invece che alla fami­glia ori­gi­na­ria rivolga la sua richie­sta di affetto a due ami­che, donne in car­riera anche loro, testi­mo­niando quella com­pli­cità fem­mi­nile intensa, ado­le­scen­ziale, tra­di­zio­nale in Giap­pone dove le donne hanno sem­pre con­di­viso tra loro una lin­gua comune, ancor oggi sot­til­mente diversa da quella maschile.

Si ha la sen­sa­zione che dal 1960 al 1963 per Mishima «si fosse aperto di scatto un ombrello di stile occi­den­tale, un ombrello grande, nero e bagnato», e così pro­tetto dai raggi del suo sole nero potesse scam­biare una parola lucida, leg­gera e maneg­ge­vole, una valida moneta di scam­bio con i let­tori, che gli frut­tava anche dei bei gua­da­gni. La fasci­na­zione del sep­puku, il sui­ci­dio d’onore, flut­tuava a distanza, la sua morsa al momento si era allen­tata, diven­tata quasi un trionfo coniu­gale di eros e tha­na­tos in Patriot­ti­smo. L’icona della sua ado­le­scenza, il san Seba­stiano lan­guido e sof­fe­rente, si celava sotto l’elegante habi­tué di gay bar, l’autore tea­trale di suc­cesso che tea­tra­lizza anche se stesso in pose da moderno samu­rai o in impec­ca­bili com­pleti sar­to­riali. Spesso è all’estero con la gio­vane moglie, spo­sata nel ’58. La prima figlia nasce nella nuova, lus­suosa abi­ta­zione. Fra il 1960 e il 1961 sem­bra che abbia com­piuto una svolta poli­tica – ma che non sarà poi riba­dita. Nell’acre, estro­verso Dopo il ban­chetto (1960) attacca dura­mente la classe poli­tica. In Splen­dida Stella (1962), com­pone una friz­zante satira alla Thur­ber della stu­pi­dità degli esseri umani, rap­pre­sen­tati da inge­nui e grot­te­schi ufo­logi giap­po­nesi che si scon­trano tra loro, con grande diver­ti­mento dell’autore e del lettore.

Poi La scuola della carne (1963), che sin dalle prime pagine emana un pro­fu­mato ero­ti­smo di marca fran­cese. In coper­tina la donna nuda seduta con­torta su una pol­trona savo­na­rola, nasconde mali­zio­sa­mente il viso die­tro il fumo della siga­retta e accetta com­pia­ciuta l’abbraccio sado­maso del cuoio. «Le donne divor­ziate sono natu­ral­mente por­tate a strin­gere ami­ci­zia tra loro. Lo stesso valeva per Asano Taeko e il suo pic­colo clan… Taeko pos­se­deva una bou­ti­que, Kawa­moto Suziko un risto­rante, e Matsui Nobuko si occu­pava di cri­tica cine­ma­to­gra­fica e di moda».

Già nella prima pagina sono piaz­zate le gio­ca­trici nel loro campo di gio­chi: la Tokyo not­turna degli anni ses­santa (e di oggi), in cui si inter­se­cano i bril­lanti cir­cuiti di moda, cinema, risto­ranti, gay bar ecce­tera, e la pro­sti­tu­zione maschile dilaga sui mar­cia­piedi illu­mi­nati dalle luci al neon. Taeko e le sue ami­che anti­ci­pano di mezzo secolo le eterne ragazze di Sex and the City, con l’unica dif­fe­renza che loro non com­pra­vano le pre­ziose cal­za­ture di Manolo Blah­nik ma quelle di Car­din e Fer­ra­gamo, come usano tut­tora le ric­che giap­po­nesi di gusto più severo. In una sera di dispe­rata soli­tu­dine in cui inghiotte «deserto in fretta, senza esi­ta­zioni», Taeko va a cac­ciarsi in quel gay bar dove potrà con­tem­plare a pia­ci­mento il volto del gio­vane bar­man Sen­ki­chi: soprac­ci­glia dal taglio fiero e linea­menti virili, un volto di rara sde­gnosa bel­lezza come quello di Mishima stesso in una foto del ’48, a ven­ti­tré anni, in coper­tina sull’edizione ita­liana di Abito da sera (1967).

Com­me­dia mon­dana anche que­sta, model­lata su esempi fran­cesi e ame­ri­cani (Capote), che si svolge nella società bene del dopo­guerra, priva però di quell’energia dram­ma­tica, ico­no­cla­sta che l’amour pas­sion di Taeko impri­merà alla sua sto­ria. Sen­ki­chi è un ragazzo in ven­dita, e sa con­durre bene il suo gioco. Taeko è pronta a com­prarlo, anzi lei stessa alza il prezzo a ogni oscil­la­zione di lui. Come scrive a pro­po­sito di Morte di mezza estate Luca Scar­lini, stu­dioso dell’opera di Mishima, la nar­ra­zione pro­cede nel «lento pale­sarsi delle più recon­dite inten­zioni, celate nel tran tran quo­ti­diano o nelle volute ser­pen­tine di una sedu­zione mediata, riman­data, eppure sem­pre pre­sente». Quelle volute ser­pen­tine quasi sof­fo­cano Taeko che s’impone di non chie­dere, non sospet­tare, non ven­di­carsi al momento oppor­tuno quando sco­pre il defi­ni­tivo tra­di­mento di lui che intende spo­sare la figlia di un ricco uomo poli­tico, la solita Satoko, nome ricor­rente per le eroine ver­gini di Mishima, pic­cole kami da adorare.
Yukio Mishima

La finezza della scrit­tura, della pene­tra­zione psi­co­lo­gica, fa pen­sare a un coin­vol­gi­mento per­so­nale di Mishima in una sto­ria del genere. «Nel legame della carne con la carne, l’apparizione di un mondo privo di ango­scia creava, riflet­ten­doci, una situa­zione di per sé ango­sciante. Si affer­ra­vano sal­da­mente per i capelli a vicenda, guar­dan­dosi fissi negli occhi, come sul punto di pre­ci­pi­tare». Que­sto va oltre a quanto un gigolò possa offrire. Del resto Mishima non fa che dipa­nare il gro­vi­glio maschio-femmina delle sue famose, con­tur­banti, Con­fes­sioni di una maschera. Lui è Taeko e Sen­ki­chi, insieme al di là di tutto, come la carne inse­gna. Lui li vive entrambi. Il loro con­flitto, solo appa­rente, è ali­men­tato dalla povertà intel­let­tuale di lui che sulla carne troppo ele­gante di lei vuole iscri­vere solo il sesso, nudo e crudo. Difesa dopo difesa lei crolla. È la scon­fitta della parola. Sen­sicki non pre­senta che il baluardo del pro­prio corpo: «Negli occhi vacui del ragazzo c’era solo il pre­sente , la verità del qui e ora. E Taeko avrebbe dovuto rico­no­scere i meriti di que­sta verità cir­co­scritta. E così, ogni tanto si pre­sen­tava quel momento di calma che non lasciava spa­zio alle parole».

Anche Bar­thes rico­no­sce che in Giap­pone l’individualità non è chiu­sura, supe­ra­mento, vit­to­ria, sin­go­la­rità inac­ces­si­bile, ma «è ripresa qui e là, corre di dif­fe­renza in dif­fe­renza, distri­buita nel grande sin­tagma dei corpi». E Mishima ne for­ni­sce la prova nel con­clu­sivo Sole e acciaio. Le parole sono morte, solo il corpo è vivo e signi­fica. «L’“Io” che mi occu­perà non è l’“Io” che si rife­ri­sce stret­ta­mente a me, ma qual­cosa altro, qual­che resi­duo, che rimane dopo che tutte le altre parole pro­nun­ciate da me siano rifluite in me … Quello che cer­cavo, in breve, era il lin­guag­gio del corpo». Che dice la sua parola più potente nel suicidio.

Il manifesto - 22 dicembre 2013

Yukio Mishima
La scuola della carne
Fel­tri­nelli, 2013
euro 16,00

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