Do you remember Amiri Baraka?
Conversazione con Amiri Baraka (2011)
di Luigi Cinque
Amiri
è un piccolo marziano. Non ancora sceso dall’astronave, si vede!
Continua a viaggiare. Sorride. “Il passato e il futuro – mi dice – sono
solo una speculazione “ volatile” del presente”. Viene da lontano.
Nel 1961 con il nome di LeRoi Jones scrive Preface to a Twenty-Volume Suicide Note (Prefazione a una nota suicida in venti volumi).
E’ la sua prima collezione di poesie. Da poco ha fondato insieme alla
moglie la Totem Press, casa editrice che pubblica, tra gli altri, opere
di Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Siamo in uno dei periodi più complicati della storia sociale americana. Le Roi è un nero di Newark.
E i neri sono in gioco per i diritti civili, quelli veri. Si svegliano.
Bruciano. Aderiscono in massa, nei ghetti, alla religione Islamica. Un’
Islam blues, si capisce, metropolitano, con spazi per il solista, ma
quel che conta è avere un dio diverso dai bianchi, dai padroni, un dio
affidabile che li riconosca come fratelli neri, separati e uguali, anzi
più belli, dal resto del mondo. Siamo nell’America di Malcom X. “Se ti trovassi mai in un posto/perduto e circondato dai nemici/ che non vogliono /che tu parli la tua lingua/ che màcerano le tue statue e gli attrezzi/che proibiscono il tuo um bum ba bum (…. )/ be’! Probabilmente ti ci vorranno diverse centinaia d’anni per venirne fuori!” ( Amiri Baraka . saggio 1)
C’è
da correre per venirne fuori. E’ vero. Ma gli afroamericani vanno
veloci. Sopratutto in quella che è la loro storia, la loro possibilità :
la musica. Sono gli anni in cui Ornette Coleman con sette angeli
musicanti – come qualcuno disse – incide FreeJazz. Siamo
alla rottura del tonalismo, al flusso di coscienza in musica, alla
creazione istantanea, al martirio edipico del compositore. E il bello è
che, per altre vie, i neri si ritrovano nelle stesse acque
dell’avanguardia bianca dell’emisfero settentrionale. Non a caso la copertina di “Free jazz” è un’opera ( White light
) di Jacson Pollock vate dell’action painting, morto solo quattro anni
prima. Intanto Miles Davis, con altri angeli che osavano avere nomi tipo
John Coltrane e Cannonball Adderley o Bill Evans, incide ( nel ‘59 ) il
leggendario “Kind of blue” che nella breve e intensa storia del jazz
possiamo già definire una questione neoclassica, ovvero, il recupero di
antiche scale modali applicate alla tecnica e all’alchimia del jazz. Le
Roi in quegli anni partecipa all’avventura della “beat generation”. E’
il movimento artistico che esalta, tra l’altro, il rapporto tra
letteratura e jazz; che indipendentemente da colore, razza, sesso e
simili, interpreta – on the road – il disadattamento vero; che svela
alla poesia quell’ America patinata, razzista, mafiosa,puritana – ancora
maccartista – capace di combattere i movimenti bombardando i ghetti (e i
giovani ) di ‘roba pesante’, eroina; un’America pronta (
come spesso Amiri scriverà ) ad assassinare, tra gli altri, JFK e suo
fratello, Malcom e Luther, e così tantissimi altri fino a Lennon, fino
alle Twin Towers, tra una guerra e l’altra. Verso il neoliberismo
petrol/bancario, spietato, di oggi.
Nel 1963 LeRoi scrive il “popolo del blues”. E’
il racconto dell’intreccio che lega il blues e il jazz alla vicenda
umana dei neri americani. In poco tempo “blues people” diventa un
manifesto letterario-musicale. E pone (non è il solo) la questione
dell’estetica nera. Scriverà Amiri in una recente introduzione alla
ristampa del volume ( Shake edizioni, in Italia ): “
non vogliamo più nessun Nietzche a dirci che la sensazione ostacola il
pensiero. Per noi neri ciò che non può sentire non può pensare. La
massima intelligenza sta nel ballo, non nella pubblicità delle scuole di
ballo. Il pensiero massimo è concreto, vivo, non astratto.”
Mi dice: “Attraverso la musica si può dire moltissimo, forse tutto, di un popolo.” Fa
un piccolo salto logico e aggiunge: “ io vedo l’arte come un’arma…
forse, oggi, l’unica vera arma di cambiamento e di rivoluzione. Anche
per una rivoluzione in senso marxista.”
Dopo
l’assassinio di Malcom X ( ‘65 ), LeRoi prende il nome di Amiri Baraka e
abbraccia la causa estrema del Nazionalismo Nero. Ma il suo
sguardo sarà sempre sostenuto da profonda intelligenza critica. Al
punto che il radicalismo diventa metodo filosofico, cambia la
prospettiva, inverte la logica, guarda dalla parte degli esclusi, di
tutti i “niggers” del mondo. Del resto, senza la “negritudine” e il
meticciato dell’ ”emisfero settentrionale”, senza quella capacità di
trasfusione, senza quella energia e istinto con la quale hanno rinnovato
la tecnica e la chimica del ritmo, dell’armonia, del racconto,
dell’astrazione, senza tutto ciò, il Novecento – in arte, sopratutto –
sarebbe stato molto più povero e triste.
Amiri
è arrivato a Roma da tre ore. Siamo in una stanzetta della Casa del
Jazz. E’ in tournè Europea. Fra poco assisteremo ad una straordinaria
lettura. Lo accompagna Dave Burrel al piano. Nel reading, la sua voce
dall’ intonazione perfetta, ( l’intonazione è tutto per un oral poet)
correrà per lo spazio siderale tra il canto del Congo Square ( lo slargo dove si riunivano la sera e i giorni di festa gli schiavi della piantagione)
e il blues, il bebop, il rap, l’atonale. Beve un caffè. Silenzio. Ho in
mano alcune sue poesie. La traduzione italiana è di Raffaella Marzano
Leggo un frammento:
Supponete, di esservi svegliati una mattina/ E c’era il vampiro alla televisione /Intervistato da un negretto scemo/Un bel sorcio, per il quale l’idea di cervello era solo un’idea,/che non pensava, se ce la faceva a pensare, fosse cattiva./ E
lo scemo era un assassino che ancora non si era laureato /alla scuola
degli assassini /così adorava il dente del vampiro/ le due succose zanne
che pendevano ai lati delle labbra/il negro pensava fosse figoe
sognava di avere denti come quelli/ così avrebbe potuto essere un
sorcio, /era stanco di essere un semplice stronzo ( da Fashion this .)
LC. Amiri,
oggi che sei autore di più di 40 libri di saggi, poesia, teatro, storia
della musica e critica, e sei un’ icona e un attivista politico e sei
anche, a tuo modo, un rapper. Come ti descrivi?
AB.
Se hai una visione, diciamo, africana, del mondo puoi anche considerare
di essere molte cose contemporaneamente. Molti sguardi diversi. Ogni
cosa sulla terra è viva e ogni cosa esistente è parte della stessa
realtà. Anche lo sguardo, dunque, può mutare forma a seconda che guarda
una rana o il presidente degli Stati Uniti che beninteso sono simili
perché parte di un tutto.
LC. Visione africana?
AB. Quelli del rock and roll (
così Amiri definisce la cultura borghese dell’emisfero settentrionale
), hanno chiamato “selvaggio” chi credeva che “ ogni cosa è tutte le
altre”. Invece sia la ciambella sia il buco sono la stessa cosa, sono
semplicemente spazio. Ed io sono lo spazio che occupo.”
Chi ha ammazzato Malcom, Kennedy e suo fratello/Chi ha inventato l’AIDS/..
(…)Chi campa su Wall Street (…)Chi sapeva che la bomba stava per
esplodere (…) Chi sa perché i terroristi impararono a volare a San Diego
in Florida (…) Chi sapeva che il World Trade Center sarebbe stato bombardato, Chi fa soldi con la guerra, Chi fa grana su paura e menzogne, Chi vuole il mondo così com’è (…)(da Somebody blew up America ( qualcuno ha fatto saltare l’America) Amiri Baraka 2001)
Somebody blew è un testo caldo. Tra l’altro, quel CHI, ripetuto, ci ricorda qualcosa di familiare. Ha la stessa misura dell ’Io so di Pasolini (lettera al Corriere della Sera 14 novembre 1974) :. Io so i nomi dei responsabili (…) Io so il nome del vertice che ha manovrato(…)
Ma
bisogna ascoltare “Somebody blew”, cantata da Amiri, come un blues, per
ritrovare l’analogia con il poeta friulano. La pagina non basta. Glielo dico. Amiri sorride. Sorride, finisce il caffè e aggiunge : “l’idea
di fondo della poesia civile è di aiutare la gente a comprendere
davvero il mondo in cui viviamo, di promuovere una rivoluzione che cambi
la società. Quanta gente oggi si trova nei guai a causa dei mercati
borsistici o paga per le logiche di una società imperialista?
LC. il rapporto tra musica e parola… per un poeta?
AB.
La musica rende le parole più accessibili, più efficaci. I cantanti
conoscono bene la questione. E poi… è la nostra storia di Afroamericani.
Bisogna valorizzarla. Oggi le parole della poesia hanno bisogno di
essere pronunciate ad alta voce, di essere declamate, cantate,
amplificate, hanno bisogno di riprendersi tutta la loro sacralità. E
anche nello scrivere dobbiamo essere coscienti che quando si scrive
poesia, si scrive musica. Ci sono i registri, le scale, le tonalità
possibili, le sillabe che richiamano certe intonazioni, parole che di
per se hanno socialmente un loro suono.
LC … torno al bues… c’è una
bella affermazione di Alan Lomax, che è stato uno dei più importanti
ricercatori e studiosi del mondo afroamericano e soprattutto delle
radici del blues, dice: “ l’hanno
chiamata l’età dell’ansia ma forse sarebbe meglio definire il novecento
– il secolo del blues. Il blues è diventato il genere musicale più
familiare alla modernità perché oggi tutto il genere umano comincia a
sperimentare la stessa malinconia dei neri della terra del blues, quel
senso di anomia e alienazione, l’assenza o la precarietà delle radici,
la sensazione di essere merci più che persone…
AB.
Il blu è il colore dei vestiti che si usavano nelle feste del West
Africa Guinea; in America diventa il colore della perdita, il colore
della memoria, capisci cosa voglio dire? Blues viene dal [colore] blu,
cioè dalla bellezza perduta della vita africana. Come non poteva questo
adattarsi al disagio sociale della modernità… del neocapitalismo
selvaggio di oggi… del furto di identità e del futuro dei giovani …
LC. Come lo dobbiamo definire il legame tra blues e jazz?
AM.
C’e’ una canzone cantata da Julie Wilson che dice “Se non era per il
blues non esisteva il jazz”. Questo e’ il legame più chiaro e semplice.
LC. Due figure simbolo del jazz: Louis Armstrong e Miles Davis.
AB:
Louis Armstrong… penso che tanta gente ha sbagliato a considerarlo una
persona sottomessa. Non è così. E se hai mai ascoltato le sue
interviste, puoi capire che era molto cosciente di essere in una
posizione sottomessa, capisci? Ma lui, non era stupido, pensava che era
meglio sottomettersi perche’ questo gli permetteva di fare quello che
voleva fare: suonare. E non c’e’ dubbio che Louis Armstrong era il più
grande musicista del suo tempo, senza dubbio. Quando era giovane, lui
era il migliore.
LC. Quando
il Movimento Nero diventa più antagonista, cosa pensa di Armstrong? Un
intrattenitore di bianchi, un cattivo esempio, uno zio Tom?
AB.
I più giovani si risentivano del fatto che Armstrong era ritenuto
troppo sottomesso agli Stati Uniti. Ma non era vero. Lui era nato in
un’epoca così, era nato nel 1900, capisci? Mentre negli anni ‘50 e ‘60 c’era
una estetica diversa e un atteggiamento politico più cosciente. Certo
loro non capivano Louis, perché Louis sorrideva sempre, era sempre
gradevole. Ma penso che due cose hanno risvegliato la gente sul vero
Louis Armstrong. La prima fu quando i bambini neri provavano a entrare –
contro la segregazione che di fatto ancora esisteva – a Little Rock
High School e il presidente Eisenhower faceva delle dichiarazioni,
allora Louis gli rispose
pubblicamente, dicendo: “ tu ti dovresti alzare in piedi da uomo e
andare a portare quei bambini a scuola. “ In questa reazione fu molto
diverso da quello che si pensava di lui. Questo
ha aperto gli occhi a tanti. Anche ai Panthers. Durante un’intervista
che lui fece con Willis Conover a Washington con il suo manager, Joe
Glazer, seduto accanto, Conover gli diceva “Louis, sei nel mondo della
musica da più di 60 anni, dimmi come sei diventato così importante”. E
Louis rispose senza freni: “Beh, quello che devi fare è trovare un uomo
bianco e diventare “il negro” di quel uomo bianco, non e’ vero Joe? Ha,
ha, ha.” E lo disse direttamente al suo manager. Erano probabilmente 50
anni che voleva dire questa cosa! [ride] Alla fine la gente ha capito
chi era Louis Armstrong. Era tuo nonno che non poteva dire quello che
puoi dire tu.
LC: Miles Davis…?
AB:
Miles aveva una sua personalità particolare. Quando ero giovane ho
provato a fargli un’intervista e non me l’ha concessa. Avevo circa vent’
anni. Quarant’ anni dopo, l’ho intervistato per il New York Times.
Lo aspettavo nel ristorante dell’hotel delle Nazioni Unite e bevevo
Courvoisier. Finalmente entrò Miles con quegli occhiali da sole da 500
dollari e mi disse: “Ehi… l’uomo del mistero.” E io gli risposi: “Tu…
sei l’uomo del mistero.” Ho sempre amato Miles, era il mio eroe
culturale anche quando ero bambino. Quando provavo a imparare la tromba
imitavo lui. Per molti di noi, della mia generazione, Miles era il
simbolo della musica. Abbiamo perduto un po’ di tempo per apprezzare
Louis Armstrong ma tutti apprezzavamo Miles.
Fonte: Nazioneindiana
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