04 marzo 2014

ALAIN RESNAIS, IL REGISTA DELLA NOUVELLE VAGUE




Addio a Resnais, grande esponente della nouvelle vague. Agli inizi degli anni '60 rivoluzionò il linguaggio del cinema francese.

Paolo Mereghetti

Il regista della Nouvelle Vague che rivoluzionò il cinema tra passioni, solitudini e guerra


Il più francese (e il più letterato) dei registi della Nouvelle Vague se ne è andato sabato notte a Parigi. Avrebbe compiuto 92 anni il prossimo 3 giugno ma per lui l’età non era mai stata un ostacolo: all’ultimo Festival di Berlino, meno di un mese fa, aveva presentato il suo 19esimo lungometraggio, Aimer, boire et chanter , e tra gli applausi di tutti si era aggiudicato il premio «per il film più innovativo», un inno all’intelligenza, alla creatività, all’invenzione. Oltre che al piacere della visione.

Figlio di un farmacista, Alain Resnais nasce a Vannes, in Bretagna, il 3 giugno 1922 rivelando ben presto una salute piuttosto delicata che lo spinge verso le letture e la musica. Non ancora diciottenne si trasferisce a Parigi, dove nel 1943 si iscrive alla neonata scuola di cinema Idhec e si specializza in fotografia e montaggio. Le sue prime prove affrontano i temi dell’arte (i documentari V an Gogh , 1948; Paul Gauguin e Guernica , 1950; Les Statues meurent aussi , 1953) e della memoria (Toute la mémoire du monde , 1956, sulla Bibliothèque Nationale, e Notte e nebbia , sempre 1956, «per non dimenticare e invitare alla vigilanza. Senza sosta» sulla tragedia dell’Olocausto). Che insieme a un curioso elogio dei composti chimici (su testo di Queneau: Le Chant du Styrène , 1958), mettono in mostra i valori fondanti del suo cinema —la «bellezza» (dell’arte e della letteratura), la «memoria» (come ricordo ma anche guida) e la «politica» (vicino ai Cahiers du Cinéma , ne incarnava l’ala «sinistra», con Agnès Varda e Chris Marker) — oltre a un’attenzione particolare alle forme narrative non tradizionali («Occorre trattare l’immaginario all’interno del quotidiano»).



Tutti temi che si intrecciano mirabilmente nei suoi primi film: in Hiroshima mon amour (1959, scritto da Marguerite Duras) l’amore tra una francese e un giapponese rimanda al legame che la donna aveva avuto quindici anni prima per un soldato tedesco, mescolando guerra, memoria e morale; in L’anno scorso a Marienbad (1961) i testi di Alain Robbe-Grillet aiutano il regista a riflettere sulla forza ingannevole della memoria (e dividono il pubblico della Mostra di Venezia, dove vinse il Leone d’oro tra applausi e insulti); in Muriel, il tempo di un ritorno (1963, scritto con Jean Cayrol) il gioco di scambi e di tensioni tra i personaggi fa emergere la memoria che la Francia vorrebbe censurare della guerra d’Algeria e della tortura; e infine in La guerra è finita (1966, scritto da Jorge Semprun) un militante comunista tra Francia e Spagna — e tra passato e presente — interroga la Politica sulle sue «vere virtù».

Il discutibile risultato di Je t’aime je t’aime - Anatomia di un suicidio (1968, specie di divagazione fantascientifica «à la Borges») e il fallimento delle tensioni politiche che avevano attraversato la Francia negli anni Sessanta, spingono Resnais verso film meno emotivamente coinvolgenti, come se un certo scetticismo e disincanto finissero per prevalere su tutto. Sono gli anni di film interessanti ma più involuti, come Stavisky il grande truffatore (1974, su un banchiere-squalo, realmente esistito, amante del teatro), Providence (1976, sulle ossessioni di un vecchio scrittore che «regna» sui figli e la famiglia), Mon oncle d’Amérique (1980, dove le teorie del biologo Laborit offrono lo spunto per riflettere sui comportamenti del cervello) e La vita è un romanzo (1983, dove la ricerca — impossibile — della felicità è costruita come un puzzle temporale).



Con Melò (1984, da una pièce di Henri Bernstein) prende sempre più spazio la rilettura e reinvenzione di un testo teatrale, a volte volutamente datato e fuori moda, che offre a Resnais l’occasione di lavorare con un gruppo ricorrente di attori (Sabine Azéma, ultima compagna del regista, Pierre Arditi, André Dussolier, Lambert Wilson) con i quali l’eleganza della messa in scena e la sottolineatura del gioco delle parti finisce per portare lo spettatore verso una riflessione sul cinema, i suoi limiti e le sue possibilità narrative. In Voglio tornare a casa! (1989), per esempio, sfrutta la sceneggiatura di Jules Feiffer per invadere il campo dei fumetti. Con Smoking/No Smoking (1993) usa la commedia di Alan Ayckbourn per stravolgere le convenzioni della messa in scena (due soli attori, Sabine Azéma e Pierre Arditi, interpretano nove ruoli) e per giocare con gli scherzi del destino perché la storia cambia a secondo che lei si fermi o no a fumare in giardino. Con Parole, parole, parole... (1997) sfrutta mezzo secolo di canzoni popolari per continuare la sua riflessione sulle apparenze dei sentimenti. Con Cuori (2006, interpretata anche dalla nostra Laura Morante), un’altra pièce di Ayckbourn, sottolinea come spesso la ricerca della felicità finisca nella solitudine e nel fallimento.

E se Gli amori folli (2009) rischia di sfiancare lo spettatore tra capricci del caso e peripezie sentimentali, la sua penultima opera, Vous n’avez encore rien vu (2012), è una specie di summa-omaggio sulle passioni di tutta una vita: un gioco di specchi e di citazioni, di rimandi e di riletture, che con una freschezza sorprendente intrecciano teatro, letteratura e naturalmente cinema, in una specie di film-saggio che ribadisce la fiducia, coltivata per tutta una vita, sulla centralità del ruolo del regista, le ambiguità della visione e l’amore per un cinema di parola. Amore che si ritrova in Aimer, chanter et boire (2013) ma questa volta con un tocco di leggerezza in più e un piacere quasi infantile nel contraddire i sogni d’amore delle tre donne che devono contendersi le grazie di un personaggio invisibile. Un’ultima, meravigliosa e sorprendente dimostrazione di una vitalità e di una intelligenza che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del cinema.
 

Il Corriere della sera – 3 marzo 2014

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