06 marzo 2014

CENT'ANNI DI SOLITUDINE E SETE





Arriva l'acqua potabile a Aracataca, il villaggio colombiano, meglio noto come Macondo, in cui il 6 marzo del 1928 nasceva Gabriel Garcia Marquez. Dove i passeri cadevano in volo, stremati dall'afa e dove finora il progresso aveva portato solo catastrofi.

Filippo Fiorini

Cent'anni di solitudine e sete

Molti anni dopo, davanti al plo­tone d’esecuzione, il colon­nello Aure­liano Buen­dia avrebbe ricor­dato quel pome­rig­gio remoto, in cui suo padre lo portò a vedere il ghiac­cio. Allora, Macondo era solo un vil­lag­gio di venti case di fango e canne, costruite sulla riva di un fiume dalle acque chiare, che cara­col­la­vano per un letto di pie­tre lisce, bian­che e grandi come uova di dino­sauro».

Gli esperti che vedono nella let­te­ra­tura una selva di signi­fi­cati ulte­riore al pia­cere di leg­gere, ci spie­gano che con un ini­zio così, Gabriel Gar­cia Mar­quez ha voluto dire fin da subito che in Cent’anni di soli­tu­dine c’è da aspet­tarsi una sto­ria di andi­ri­vieni nel tempo e acca­di­menti sen­sa­zio­nali. La scena, infatti, si svolge nel futuro, ma Aure­liano pensa al pas­sato e ricorda il pro­di­gio di una cosa banale quale è il ghiac­cio, se mostrata in un luogo cal­dis­simo come Macondo.

Quello che però sicu­ra­mente non i cri­tici (visto che non ne hanno mai scritto), pro­ba­bil­mente non i let­tori e forse nem­meno Gabo Mar­quez ave­vano osser­vato, è che que­sta frase inau­gu­rale sve­lava oltre a ciò che era voluto, anche un sor­ti­le­gio di cui quel vil­lag­gio non si è ancora del tutto libe­rato: l’acqua, che nel libro scor­rerà spesso e a lungo (salvo poi scom­pa­rire per epo­che altret­tanto enormi, in cui i pas­seri mori­ranno in volo per il gran caldo), sarà per sem­pre un bene scarso, inca­strando i suoi abi­tanti, per­sone o per­so­naggi che siano, nella perenne schia­vitù di una risorsa assente o ecces­si­va­mente presente.

Macondo, che in realtà di nome fa Ara­ca­taca e viene detto Cataca dal vici­nato, è un vil­lag­gio mon­tano della Colom­bia set­ten­trio­nale, fon­dato in riva al fiume omo­nimo e noto al mondo per due soli fatti rile­vanti, acca­duti, secondo una con­ce­zione fan­ta­stica delle cose, nel corso dello stesso anno. Il 6 marzo del 1928, nac­que in una casa grande di que­sto pae­sello il Pre­mio Nobel per la let­te­ra­tura Gabriel Gar­cia Mar­quez e, di lì a qual­che mese, i sol­dati del despota locale, gene­ral Car­los Cor­tez Var­gas, fir­ma­rono con le loro mitra­glia­trici l’episodio che gli sto­rici colom­biani chia­mano la Strage di Ara­ca­taca e che con­si­stette nell’uccisione indi­scri­mi­nata di cen­ti­naia di ope­rai della bana­nera Uni­ted Fruit, in scio­pero da quasi quat­tro settimane.

In realtà, i bio­grafi di Gabo, come Dasso Sal­di­var, hanno da tempo sco­perto (e suo fra­tello Luis Enri­que lo ha con­fes­sato), che il grande scrit­tore è nato nel 1927 e ha pas­sato la vita a dire di essere di classe ’28, per il vezzo di dichia­rarsi figlio di quel sacri­fi­cio di brac­cianti a cui dedica 4 pagine del suo romanzo più riu­scito. D’altra parte, dopo aver spa­rato sulla folla, degna­mente immo­bile nella piazza di Cataca, Cor­tez Var­gas avreb­bero fatto sapere che le vit­time della mat­tanza di cui ancor oggi è dif­fi­cile sta­bi­lire il numero reale, erano state solo 9: una per ognuno dei reclami che i loro sin­da­cati ave­vano pre­sen­tato alla Uni­ted Fruit. Met­tendo que­ste due fal­si­fi­ca­zioni a con­fronto, è facile capire per noi posteri, come nella zona di Macondo sia per­messo ritoc­care i numeri, se que­sto serve a creare una coin­ci­denza degna d’esistere.

Chi ci abita lo tiene sem­pre bene a mente, così come ha impa­rato a ricor­dare che spesso c’è più realtà in una fin­zione let­te­ra­ria, che in una verità di Stato. Tra gli esempi che più si acco­mo­dano al primo caso, c’è di certo il fatto che nel libro di Gar­cia Mar­quez i fon­da­tori di Macondo siano un gruppo di pel­le­grini che viag­gia in cerca del mare e, ras­se­gnati all’impossibilità di tro­vare l’acqua, deci­dano di pian­tare le tende in riva a un fiume. In quanto al secondo, si pos­sono citare le sei volte in cui si è ini­ziato a costruire l’acquedotto di Ara­ca­taca e le altret­tante volte in cui i lavori sono nau­fra­gati nelle neb­bie della cor­ru­zione caraibica.

Nello stesso posto in cui è suc­cesso tutto que­sto, è com­parso pochi giorni fa Luis Felipe Henao, mini­stro per la Casa e le Que­stioni Locali del pre­si­dente colom­biano Manuel San­tos, non­ché, con soli 33 anni, uomo gio­vane del suo gabi­netto di destra. In barba ai pre­ce­denti di fal­li­menti e magia che vanta la loca­lità in que­stione e par­lando dalla casa-museo dello stesso Gabo Mar­quez, Henao ha detto che nel cor­rente mese di marzo 2014 arri­verà final­mente l’acqua ad Ara­ca­taca, con­clu­dendo quella che ha defi­nito «una vicenda macon­diana», frutto di «anni di mal governo colom­biano». Se fosse vero, i locali pas­se­ranno dall’umiliante con­di­zione di avere solo quat­tro ore di acqua non pota­bile la set­ti­mana, al deco­roso sevi­zio di 12 ore al giorno di acqua chiara, bevi­bile e continua.

Ma c’è da cre­derci? Se fos­simo abi­tanti di quel posto in cui José Arca­dio Buen­dia, «l’uomo più intra­pren­dente del paese», aveva dispo­sto le case «in modo che tutti gli abi­tanti potes­sero arri­vare facil­mente al fiume e rifor­nirsi d’acqua senza alcuno sforzo», dovremmo per forza tener conto degli avver­ti­menti scritti nei Cent’anni di soli­tu­dine e dif­fi­darne. Sarà anche una let­tura sem­pli­ci­stica, ma quando lo stesso José Arca­dio uccide Pru­den­cio Agui­lar, acce­cato dall’insulto sulla sua pre­sunta impo­tenza che que­sto gli rivolge dopo aver perso un com­bat­ti­mento di galli, il fan­ta­sma del morto torna poi a per­se­gui­tarlo, cer­cando e non tro­vando mai un po’ d’acqua per bagnare la pugna­lata al collo che gli fu fatale. E quando il capo­sti­pite dei Buen­dia esa­spe­rato, decide di abban­do­nare Macondo, la moglie Ursula impie­to­sita dalla dan­na­zione del fan­ta­sma, sparge per la casa decine di cio­tole piene.

Più avanti, poi, l’orfanella Rebeca arriva stanca e affa­mata a casa di José Arca­dio, tace, man­gia la terra in segreto e rifiuta il cibo offerto, tanto, che si arriva all’estremo di cre­derla sorda. Una pro­spet­tiva che viene scon­giu­rata però quando le si chiede se ha sete e lei alza lo sguardo e annui­sce. D’altro canto, quando lo zin­garo e super­stite di una prima vita finita a Sin­ga­pore, Mel­quia­des, torna a Macondo e cura tutti dalla peste, otte­nendo così il per­messo di restare, si pro­nun­cia una frase mar­mo­rea: «Somos del agua». Siamo dell’acqua, dice il nomade autore delle per­ga­mene che sve­le­ranno la con­danna dei Buen­dia a un intero secolo d’isolamento, e poi muore affogato.

Ma oltre a que­sto, c’è un ragio­na­mento che supera la mera que­stione dell’acqua e che Gabriel Gar­cia Mar­quez inse­ri­sce tra le righe dei Cent’anni: l’azione dell’uomo sulla natura, solo porta alla cata­strofe. Lo hanno notato le ricer­ca­trici Dela­muta, Engel e Adoue nel loro lavoro com­pa­ra­tivo tra il romanzo e la realtà della Strage di Ara­ca­taca. La com­pa­gnia ame­ri­cana Uni­ted Fruit aveva por­tato pro­gresso tec­no­lo­gico nei monti di Macondo, un’evoluzione che si mani­fe­sta con la com­parsa del treno e a cui fanno da con­tro­parte le mec­ca­ni­che delle mitra­glia­trici di Cor­tez Vargas.

Nelle pagine del libro, quando José Arca­dio Segundo perde i sensi nella spa­ra­to­ria in piazza e si sve­glia da unico super­stite (oltre al bimbo che aveva tenuto in spalla) in quello stesso con­vo­glio che aveva por­tato a Macondo cen­ti­naia di ope­rai e ora li riporta indie­tro tutti e tre­mila, morti per mano del loro datore di lavoro, inco­min­cia un dilu­vio che durerà più di 40 giorni. Sotto le lacrime che gli inno­centi riu­sci­rono a non pian­gere davanti ai loro assas­sini e che un cielo impie­to­sito ora piange per loro, il pla­cido gemello che aiu­tava in par­roc­chia dovrà cam­mi­nare 3 ore e a lungo poi dovrà bri­gare per non vivere coi vestiti bagnati.

Nella realtà, le grandi piogge del 1932 cau­sa­rono allu­vioni in varie zone della Colom­bia, ma ad Ara­ca­taca toccò la parte peg­giore. Per irri­gare, la Uni­ted Fruit aveva fatto deviare il fiume che dava il nome al paese, oltre al San Joa­quin e all’Aji, situa­zione che portò a una cata­strofe cli­ma­tica, a una nuova tra­ge­dia umana e al ritiro della com­pa­gnia da quelle terre.

Ora che a Macondo arriva l’acquedotto vien da chie­dersi se le impli­cite pro­fe­zie di Gabo Mar­quez, che que­sta set­ti­mana com­pie 87 anni secondo l’anagrafe di posto e 86 per la sua per­so­nale visione dei fatti, non deb­bano essere con­si­de­rate valide. In fondo, la Colom­bia è il sesto Paese al mondo per risorse idri­che, ma il 50% delle sue acque sono di cat­tiva qua­lità. Lo dice il Mini­stero dell’Ambiente e il suo più grande scrit­tore dice: «La stirpe con­dan­nata a cent’anni di soli­tu­dine, non avrà altra oppor­tu­nità su que­sta terra». Spe­riamo abbia torto, in fondo sono tutte finzioni.


il Manifesto – 5 febbraio 2014

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