28 giugno 2014

GIUSEPPE CASARRUBEA RICORDA DANILO DOLCI

1956. Elio Vittorini testimone di difesa nel processo a D. Dolci per lo  sciopero alla rovescia.


Riprendo dal blog dell'amico Giuseppe Casarrubea un suo articolo su Danilo Dolci, già pubblicato nel dicembre 2002 dalla rivista SEGNO: 


CARATTERI DI UN TESTIMONE
DEL ‘900: DANILO DOLCI
Giuseppe Casarrubea

Tra gli intellettuali del ‘900, formatisi nella temperie del fascismo e che iniziano la loro avventura culturale, sociale e politica, lungo il percorso di costruzione dello Stato democratico e repubblicano, Danilo Dolci è quello che, più di tutti, rappresenta e interpreta la crisi della coscienza collettiva nazionale. E non solo della crisi di transizione, legata alle conseguenze politiche poste dagli equilibri internazionali, ma anche e soprattutto di quel particolare e più profondo travaglio che interessava, più nascostamente, l’uomo, la sua esistenza e il senso stesso della vita.
Non ancora ventenne era stato arrestato per attività antifascista. Fu quello, forse, il battesimo della sua giovinezza. Una nutrita schiera di intellettuali nel primo Novecento gli si erano parati davanti come maestri: punti fermi, spartiacque che avevano saputo segnare la deriva delle masse cortigiane ligie alle sudditanze culturali, pronte a irreggimentarsi, a credere, obbedire e combattere, e quei poco numerosi gruppi che nel silenzio, nella prigionia o nel martirio avevano fondato le ragioni e il senso del futuro, quando tutto sembrava perduto. Erano uomini come Gramsci e Gobetti, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, Carlo Levi ed Emilio Lussu. Tutti accomunati, nel martirio o nella lotta, da una comune fede, nella libertà e nella ragione.
Dolci segna il secondo Novecento sul fondamento dell’antifascismo. Lo deriva da quella temperie di opposizione e di resistenza dalla quale dovevano nascere la Costituzione e, prima ancora, i governi di unità nazionale antifascista. Non sarà un caso che uno dei capi di quei governi, Ferruccio Parri, più tardi, incontrerà Dolci sul terreno di battaglia a Partinico, sul finire degli anni ’50, come non sarà fortuito l’incontro avvenuto, a metà di quel decennio, tra Levi e Dolci. E tuttavia Dolci è profondamente diverso dai suoi maestri. E’ più se stesso che simile a qualcuno.
Stando alle sue prime uscite editoriali c’è da ritenere che quest’uomo, che si era formato ad una cultura mitteleuropea (era nato a Sesana, oggi in territorio sloveno, nel 1924), e che appena laureato in architettura aveva deciso di non costruire case ma uomini, abbia più ragioni religiose che convinzioni culturali o ideologiche alle origini delle sue iniziative. Alcune liriche uscirono nell’ ‘Antologia della poesia religiosa italiana’ a cura di Valerio Volpini, a Firenze, edite da Vallecchi, nel 1952, e nell’antologia ‘La Giovane poesia’ curata da E. Falqui (Roma, Colombo, 1956). A quell’epoca la comunità cattolica di don Zeno, a Nomadelfia, gli sembrava già inadeguata. Dolci non cercava la tranquillità del proprio recinto religioso appagato dalle rassicurazioni caritatevoli, cercava la via del rischio e della ‘resurrezione’, il percorso interiore che sulla spinta di un misticismo non ancora definito lo conducesse sulla via della sofferenza, di un’altra resistenza dopo quella condotta contro il fascismo e il nazismo. Non era la sua una scelta masochistica, ma una coraggiosa ricerca di valori.
Trovò nei contadini e nei pescatori di Partinico e Tappeto il terreno adatto al suo impegno, alle sue vocazioni e con loro cominciò a sognare. Convinto com’era che nulla potesse essere mutato senza il sogno e senza l’utopia. Volevo scoprire l’anima della vita, scrisse nel ‘Tempo illustrato’ (29 marzo 1956) e due anni prima furono due pescatori a raccontare in dialetto siciliano la storia del Borgo di Dio (Milano, Portodimare, 1954), la comunità che egli aveva fondato costruendo con le sue mani una piccola casa su una collina, con la vista su Tappeto e il golfo di Castellammare. Qui cominciò a costruire il suo sogno e a inventare il futuro. E qui, dentro quelle quattro pareti riscaldate da un camino nelle notti d’inverno, chiuse gli occhi per sempre col sorriso sulle labbra e la serenità dei grandi. Il suo motto era stato: ‘Vivi in modo che in qualsiasi momento muori o t’amazzano, muori contento’.
In modo molto pertinente, pertanto, la sua figura si colloca all’interno del dibattito e della riflessione sul tema scelto per l’ VIII^ Settimana Alfonsiana che ha come tema centrale il versetto 19,40 di Luca. I concetti nodali sono due: il ‘grido’ come dovere, legato alla parola e al suo esercizio di libertà e di liberazione, e la ‘pietra’ come elemento fondamentale di un processo costruttivo. Nel Nuovo Testamento questi elementi concettuali sono ricorrenti, rinviano a scene simboliche cariche di significato. Quando Cristo entra a Gerusalemme, i farisei lo invitano a fare tacere la folla che lo acclama, ma egli li mette a tacere con una espressione che rappresenta un imperativo della coscienza, raramente accolto: ‘Se essi tacessero griderebbero le pietre’. Certamente si tratta di un paradosso perché le pietre non possono gridare. Ma detta da Cristo quell’affermazione ha un senso che non possiamo ridurre al solo paradosso. Il paradosso, infatti, è sterile in quanto inapplicabile. Dovremmo dunque pensare ad una lettura che dia senso e prospettiva a quella scena. In questo senso non pare ci possano essere dubbi nell’interpretarla nel suo significato più realistico, che è quello della testimonianza, dell’indicazione di uno stile di vita e di comportamento. E’ automatico il ricorso alla scena del Pilato che ‘si lava le mani’. Si può vivere in ‘silenzio’, ‘lavandosi le mani’, standone a guardare, diventando soggetti più o meno consapevoli del processo che conduce al sacrificio di qualcuno, a rovesciare l’ottica del giudizio, affidandolo allo spontaneismo istintivo delle masse disorientate o che non sanno perchè indotte a scegliere sulla base di un potere non esercitato nella direzione della giustizia, o di un potere che si nega a se stesso.

Rimanendo nell’ambito del Nuovo Testamento Dolci richiama alla mente un’altra scena, quella che si svolge attorno a un pozzo della Samaria. Gesù vi arriva dopo un faticoso viaggio. Ha sete e chiede alla samaritana, che si era avvicinata, dell’acqua da bere. Come fa a dargli dell’acqua se il pozzo è profondo e per giunta non c’è la corda che possa tirare su neanche un secchio? La donna sarà rimasta incredula anche dopo la risposta dello strano pellegrino:‘Se tu sapessi il dono di Dio e chi è che ti dice dàmmi da bere, saresti tu a chiedergli dell’acqua ed egli ti darebbe un’acqua di vita eterna’. Anche qui ricorre il paradosso, ma rispetto a un sentire più profondo, l’inapplicabilità del paradosso rinvia alla necessità di dare senso e, direi, materialità alla scena. Non c’è dubbio che se la donna avesse voluto dare da bere all’assetato, piuttosto che interrogarlo si sarebbe attivata per dare una risposta attiva al suo bisogno. Forse entrò in crisi, forse prevalse in lei il dato della razionalità. Certamente non andò oltre la constatazione obiettiva della circostanza. Ma se avesse creduto e voluto, la scena si sarebbe animata e il contesto si sarebbe trasformato. Non credo si possa legittimamente separare questa considerazione, legata all’azione dell’uomo, dal valore trascendentale, che è anche il valore intimo, personalissimo, del ‘sentire’, dell’essere in una qualche sintonia, lungo la filigrana della fede. Da questo punto di vista, e cioè, dell’essere testimone attivo, per gli ultimi, con gli ultimi e per soddisfare il loro grido di assetati e di affamati, nella Sicilia dei primi anni ’50, Dolci è ‘pietra che grida’, testimone del suo tempo. Fu infatti l’intellettuale italiano più perseguitato del secondo ‘900. Subì una serie interminabile di accuse, denunce e condanne ed ebbe davanti a sé un potere che gli fu sempre ostile. Per fortuna ebbe dalla sua parte i massimi rappresentanti della cultura italiana del suo tempo, che gli furono accanto, anche nei momenti più difficili. Si sollevò uno scandalo nazionale quando nel 1956 fu arrestato e portato in galera, assieme al sindacalista Salvatore Termini, per avere messo in opera una formula inconcepibile di sciopero: ‘lo sciopero alla rovescia’. Gli operai avevano insegnato che si scioperava per i diritti e migliori condizioni salariali, ma in un paese come Partinico dove il lavoro mancava e si moriva di fame, si poteva scioperare solo mettendosi a lavorare, senza padroni e senza paga, nell’attesa della Provvidenza. Perciò Dolci aveva pensato di far lavorare tutti mettendosi con pala e pico a riattivare una vecchia trazzera dove alle prime piogge i contadini che andavano al lavoro con i loro carretti, dovevano fermarsi per le numerose pozzanghere, rischiando quotidianamente di non raggiungere le campagne. C’erano un migliaio di persone con lui. Quando puntualmente arrivò la polizia lo dovettero prendere di peso e caricarlo su una camionetta, dopo averlo ammanettato. E in manette si presenterà nell’aula di tribunale. A difenderlo ci saranno uomini come Piero Calamandrei, e a testimoniare per lui intellettuali come Elio Vittorini e Carlo Levi. Quest’ultimo dirà ai giudici:


 Danilo Dolci in catene
Ho appreso dai giornali che Danilo Dolci sarebbe accusato di avere rivolto a un agente della forza pubblica una frase ingiuriosa che suonerebbe all’incirca: “Chi ci impedisce di lavorare è un assassino”.
Ora, io credo, pure senza essere stato presente all’episodio, di potere escludere in modo assoluto, e di poterlo provare con documenti, che il Dolci abbia pronunciato una simile frase rivolgendola al commissario in modo ingiurioso; e questo non soltanto per le assicurazioni e le affermazioni che ho fatto prima. Una frase che suona analoga ma che ha tutt’altro significato, dà inizio alla prima pagina del suo libro Banditi a Partinico, ed è, direi, quasi il filo conduttore di tutto il suo pensiero, l’idea fondamentale attorno a cui si organizza la sua visione del mondo e dei problemi sociali e umani. Dice questa frase, che cito qui a memoria: ” noi viviamo in un mondo di condannati a morte da noi”.
Sì fino a quando esistono degli uomini condannati ad essere tali, a vivere in una condizione che è precedente alla stessa esistenza, fino a quando esiste l’esclusione e l’alienazione, noi ne siamo tutti responsabili, noi siamo tutti degli assassini. Tutti, nessuno escluso. Io sono un assassino, e anche Lei, signor Presidente, è un assassino, e anche Danilo Dolci è un assassino. Questo è il senso della frase che ritorna e domina ogni pagina di quel libro. Come Ella vede, è l’opposto di quanto si pretende che egli abbia detto al commissario. Basta aprire il libro alla prima pagina, e non occorre che saper leggere per capire il testo e il senso della frase pronunciata sulla trazzera, che, anziché ingiuriosa, è certo delle più alte e nobili che possa pronunciare un uomo.[1]
Elio Vittorini testimone al processo per lo sciopero alla 'trazzera vecchia'
Elio Vittorini testimone al processo per lo sciopero alla ‘trazzera vecchia’ (1956)
Che i suoi maestri fossero Cristo e Gandhi era dimostrato dalla sua storia e dal suo metodo: la storia di un uomo che si era messo a vivere con gli ultimi per migliorarne le condizioni e il metodo dell’azione nonviolenta per affrontarle.
Gli era stato amico e consigliere Aldo Capitini, l’inventore della marcia per la pace e la fratellanza tra i popoli da Perugia ad Assisi. Questi il 12 gennaio del ’58 gli scriveva da Perugia: “Stai attento a non creare un Centro con impiegati, che consumano troppo”, oppure “Stai attento a non fare la minima concessione a parti politiche. Riafferma che sei indipendente”, o ancora: “La tua opera è di condurre i rivoluzionari, nell’evoluzione attuale della opposizione nel mondo, a riconoscere il valore del metodo non violento”. Capitini, come Dolci, pensavano a una rivoluzione nuova, dopo quella che aveva segnato la storia del primo Novecento nel mondo con l’instaurarsi dello Stato sovietico. E Dolci era un personaggio tutt’altro che secondario con cui discutere. Giusto i sovietici gli avevano concesso il premio Lenin per la pace nel 1957, e Capitini, come un fratello premuroso, temeva che il suo amico potesse essere catturato dai comunisti e in tal modo compromettere la missione più generale che egli doveva darsi nei confronti degli uomini, a prescindere dalle appartenenze politiche. In realtà le attenzioni dei due non erano rivolte a dati empirici, ma alla costruzione di un mondo nuovo a partire dall’idea del ‘villaggio gandhiano’, della ‘comunità/alveare’, dietro la quale si nascondeva una ‘riserva’ non solo sociale, ma anche religiosa.
L’Europa è avvelenata dai nazionalismi reazionari –gli scriveva sempre da Perugia il 16 maggio 1961- , l’America ha troppe tentazioni di titanismo imperialistico e affaristico che può portare al bellicismo e a spazzare via gli avversari, come disturbatori “dell’ordine americano”. Invece quel lavoro paziente di comunità nonviolenta che studia se stessa e forma strumenti per guidarsi ad elevarsi, è veramente l’indicazione di un ritmo più pacato, di un vivere dove ci si conosce e ci si controlla insieme, e dove si progredisce rispettando sempre più la vita.[2]
E che fosse prevalente, anzi, causale, il senso religioso della vita vissuto nella prassi quotidiana del rapporto con l’uomo e i suoi problemi, a partire da quelli più gravi, era esplicitato in un’altra lettera dell’anno successivo, quando Capitini tornava a parlare degli estremisti francescani umbri del Duecento e del Trecento, abituati a mangiare pane e qualche oliva “ma che crearono le premesse della filosofia moderna dell’individuo (da Occam a Leibnitz) e le premesse del nostro lavoro social-religioso, appunto perché anti-autoritario”.
Questa centralità, che è religiosa ma si riconduce anche all’esperienza dell’antifascismo, accomuna, su un piano generazionale quasi conseguente, Dolci e Tullio Vinay (La Spezia 1909- Roma 1996), quest’ultimo una delle maggiori personalità del protestantesimo italiano e mondiale, che a Riesi, paese tra i più poveri dell’interno della Sicilia, aveva fondato nel 1961 una comunità laico/religiosa, al servizio della crescita di quella popolazione. Non si tratta di intellettuali mossi da capricci filantropici; ma, al contrario, di uomini che volevano sperimentare la possibilità di un diverso modo di esistere, e di agire, di rapportarsi con l’universo, a partire dagli anelli più deboli.
Nonostante le diversità culturali, politiche e umane, tra questi intellettuali del ‘900, non si può sottovalutare il dato che proprio in questo secolo, carico di tragedie e di insegnamenti, sulle ceneri del fascismo e del nazismo europeo, affondano le radici di una concezione innovativa dello Stato e della società che è giusto non smarrire, se non a costo di una perdita di senso e di prospettiva di quelle azioni che hanno fondato le ragioni della democrazia sostanziale, il sogno di un mondo nuovo. La pace nel mondo, il rispetto per l’ambiente, l’attenzione alla nonviolenza come metodo di crescita, la condanna di ogni guerra, l’ottimismo nell’uomo, sono il denominatore comune, il tessuto connettivo sul quale, in contrasto con ogni dottrinarismo, si cimentano le esperienze di uomini di così diversa provenienza geografica, ma così straordinariamente uniti, nella costruzione di un mondo diverso. Per tutti la Sicilia è, conclusa la tragedia del fascismo, frontiera, luogo della battaglia concreta in cui ciascuno misura, da diverse angolature, la scommessa che ha fatto con se stesso. Per Giorgio La Pira, ad esempio, valgano, succintamente, per tutte, opere come: L’attesa della povera gente, LEF, Firenze 1978; Le premesse della politica. Architettura per uno stato democratico, LEF, Firenze 1978; La casa comune. Una costituzione per l’uomo, Cultura Editrice, Firenze 1979; Il sentiero di Isaia, Cultura Editrice, Firenze 1979. Per Dolci, Voci nella città di Dio, Mazara, Società Editrice Italiana, 1951; Fare presto (e bene) perché si muore, Torino, De Silvia, 1954; Banditi a Partinico, Bari, Laterza, 1955; Processo all’articolo 4, Torino, Einaudi, 1956; Inchiesta a Palermo, Torino, Einaudi, 1956; Una politica per la piena occupazione, 1958; Spreco, Torino, Einaudi, 1960; Conversazioni, Torino, Einaudi, 1962; Chi gioca solo, Torino, Einaudi, 1962. Per Vinay la realizzazione della Comunità Agape, tanto vicina al Borgo di Dio di Dolci. Per Levi, il suo scavo nelle piaghe della Sicilia, per comprenderle, additarne i confini, curarle attraverso la denuncia, l’azione sociale.
Ma di fronte ai mali del mondo, e soprattutto alla guerra, all’oppressione e alla dittatura, alla miseria che uccide le energie dell’uomo, Dolci matura e definisce, in modo irreversibile, la sua scelta, politica e civile, per un’azione sociale dal basso, la cui opzione di fondo è l’obiezione di coscienza. Su questa si innerva tutta la sua esperienza successiva.
Giuseppe Casarrubea 


[1] Da “Processo all’articolo 4″, Torino, Einaudi, 1956 pp.216 – 221
[2] Cfr. A. Capitini, Lettere a Danilo Dolci, Il Ponte, 1969, bozze di stampa in possesso dell’autore.

Nessun commento:

Posta un commento