11 giugno 2014

SCRITTORI E MADRI

Silvana Mauri e Pier Paolo Pasolini


Pasolini e la madre Susanna

SCRITTORE, A TUA MADRE TORNERAI

Pubblichiamo la versione integrale di un articolo di Andrea Cirolla apparso su Pagina 99
Sarà vero che sempre alla madre torna, la scrittrice, lo scrittore, come al ricordo più antico? Che non ne parli o che ne celebri il culto a ogni pagina, davvero non può fare a meno di sceglierla? Ma poi, perché parlare proprio di scrittori e di scrittrici? Perché non domandarsi della madre del broker finanziario, ad esempio, o del lavavetri sui grattacieli, o del disoccupato?
Servirà resistere al giudizio che vede banalità nel riferimento, e superare il dubbio di una corrispondenza scontata, perché se è evidente che scrivere non basta a rendere speciale il proprio rapporto con la madre, sarà pure necessario ammettere che solo uno scrittore potrà dire qualcosa della sua relazione dicendo al tempo stesso qualcosa anche della relazione degli altri; se non altro per una questione di mestiere. In altre parole: attraverso la “lente” dello scrittore ci si aspetta di vedere qualcosa di più; o al limite di vedere le stesse cose, ma più chiaramente. E allora, e al di là di tutto, e anche fuori dai libri, chi sono queste madri, qual è il loro volto?
È una delle domande che ho rivolto a dieci figli, tra scrittori e scrittrici. In cinque (uomini) hanno preferito non rispondere: troppo intimo, no grazie. Gli altri hanno accettato, con grande generosità: Teresa Ciabatti, Helena Janeczek, Aldo Nove, Maria Pace Ottieri e Valeria Parrella.
«Di notte la sogno: all’inizio è lei, poi si trasforma in me, poi in mia sorella, in mia nonna, infine in mia figlia. Mia figlia che ha appena quattro anni. Abbiamo tutte gli stessi capelli castani, e gli stessi occhi scuri, siamo alte uguali, abbiamo denti bianchissimi. Ci siamo ancora tutte. Tutte nello stesso corpo». Questa è Teresa Ciabatti. Sua madre si chiamava Francesca: «era anestesista, ma ha smesso di lavorare poco dopo la nascita mia e di mio fratello (siamo gemelli). Era ansiosa. E mi trasmetteva ansia. La sua morte è stata un dolore infinito e anche una liberazione. Ho capito che la mia più grande angoscia era che lei morisse. Non riuscivo a staccarmi per troppo tempo da lei, quasi presidiassi la sua morte. Avvenuta quella, non avevo più niente da temere. Niente più ansie e paure. Dopo la sua morte ho lasciato per la prima volta qualcosa di mio nella casa di campagna. Un pigiama e due golf. La mia casa ora può essere ovunque».
Quando chiedo a Valeria Parrella in che relazione stia con sua madre, che ora non è più con lei, «ti sbagli di grosso» mi risponde: «lei è con me è in me, io sono lei. Questa è la nostra relazione». Davanti alla stessa domanda, Helena Janeczek racconta questo episodio: «qualche mese fa, forse poco prima che trascorresse un anno dalla sua morte, ho scritto una poesia indirizzata a Antonella Anedda sulla base comune delle madri che ci hanno segnato a vita; anche se, nel caso di sua madre, non c’era stata la catastrofe collettiva di un genocidio a aver determinato quella sofferenza estrema che aveva investito pure la figlia. In quei versi, parlo della “cattiveria straziante delle vittime” che però “non l’hanno mai fatto apposta”. Dico che i nostri tentativi di riparare a quel male – subito e inconsapevolmente inflitto – non sono stati inutili, “ma la salvezza, signora mia / è un’altra stoffa”. Aggiungo solo: vorrei che la pietas enorme che provavo per mia madre negli ultimi anni e che mi ha dato la possibilità di starle vicino sino alla fine, potesse accogliere anche me e la mia vita futura».
Con Nina, cinquant’anni dopo «quel giorno», Helena affrontò il viaggio in Polonia da cui nel ’97 trasse il romanzo Lezioni di tenebra. «Glielo feci leggere in prima o seconda stesura. Non l’avrei pubblicato senza il suo beneplacito». Come la prese? «La prese – come si può riscontrare nel testo finale – intervenendo: i dialoghetti in corsivo nei quali lei dice cosa correggere, omettere, aggiungere, sono frutto di quella sua lettura, sono rielaborazioni del suo parlato. Più in generale la prese in modo ambivalente: da un lato era grata che avessi voluto prendere il testimone;  era anche orgogliosa di trovarsi protagonista assoluta di un libro assai premiato e elogiato dalla critica. Dall’altro, mi faceva talvolta sapere che certe amiche o conoscenti (mai lei direttamente) erano stupite che lei mi avesse concesso una pubblicazione che la ritrae così negativamente».
Come nacque il romanzo?
«Lezioni di tenebra nacque dalle prime pagine buttate giù come reazione al programma televisivo di cui parlo proprio all’inizio. Poi mi resi conto che potevo (o dovevo) proseguire; la storia di chi si trova l’abnormità dell’Olocausto mediata quotidianamente dalla normalità di un rapporto madre-figlia (la normalità che prevede il conflitto) sinora non l’aveva raccontata nessuno, almeno non in Italia. L’idea principale era quella di sfruttare la posizione mediana e mediatrice dell’io narrante per avvicinare i lettori il più possibile a quel buco nero assoluto della storia umana:intraprendere insieme questo viaggio verso la tenebra, fin dove risultasse esplorabile e esperibile».
A tutti ho rivolto la stessa domanda: tua madre ti leggeva?
«Certo» risponde Maria Pace Ottieri, «mi leggeva, ma era pudica, capivo che i miei libri erano una soglia su cui si tratteneva, c’erano troppe implicazioni, mio padre era più aperto, più a suo agio. Credo che mia madre considerasse quella di scrivere una scelta coraggiosa, perfino audace, destinata forse a crearmi conflitti. Ma io in fondo non ho mai scelto di scrivere, ogni libro è un’avventura a sé che mi capita, più che essere inseguita, o così mi dico. Invidio i grandi scrittori come Melville o Conrad che traevano la scrittura dalla loro vita sulle navi…».
«Mi leggeva» è la risposta anche di Valeria Parrella, «e in genere le piaceva tutto, a volte le piacevano così tanto i miei libri, che mi ringraziava, come fanno i fan… Poi veniva a vedere i miei spettacoli teatrali e si spellava le mani negli applausi. Se pensava qualcosa della mia scelta di essere scrittrice non l’ho mai saputo, perché approvava ogni mia scelta».
Le chiedo cosa c’è di sua madre in ciò che scrive: «nel mio ultimo libro (Tempo di imparare, NdR) c’è un albero di fantasia, che prende il nome da un gioco enigmistico che si chiama il logogrifo. Ecco, mamma è là, bella radicata nella pagina».
Anche Teresa Ciabatti era letta da sua madre, ma non voleva sentire i suoi commenti. E in ciò che scrive non c’è solo sua madre, dice, «ci sono tutti. Tutti i miei morti. C’è una foto nel giardino della casa al mare. L’unica foto dove ci siamo tutti: mamma, papà, nonna, mia sorella, la mia tata, mio fratello. Io e mio fratello abbiamo sei anni e saremo gli unici superstiti. Ma al momento della foto nessuno lo sa. Io sorrido senza immaginare che presto le persone attorno saranno solo fantasmi. Le mie assenze. Per sempre. Ogni cosa che scrivo gira intorno a loro. Chissà che sia un modo per riportarli in vita, finire discorsi interrotti, chiarire misteri, confessarsi quel che non si è confessato. Ogni tanto sento che mi manca la vecchiaia dei miei genitori. Non potermi prender cura di loro. Poi però penso che non sarei stata all’altezza. Troppo egoista. E per un attimo questo dolore immenso, questo senso di mancanza perpetua, questa certezza che la felicità sia già tutta avvenuta, si placa. Ma è un attimo».
Aldo Nove racconta che sua madre, prima di morire, fece a tempo a sentire una sua «orrenda poesia sul natale. Tutto il resto è venuto dopo la sua morte. Scrivere è stato un modo per riprendere il dialogo con lei quando la morte lo ha interrotto. [In ciò che scrivo] c’è il suo spirito. Antico e allo stesso tempo “rivoluzionario”: quello di una ragazza che veniva da un paese arcaico della Sardegna ancora immersa in uno spirito del luogo senza tempo che ha vissuto tutte le utopie degli anni Sessanta».
Da quel paese arcaico, negli anni Sessanta, da sua madre contadina, morta di parto («sarebbe stato il suo quarto figlio»), Gianna scappò a quindici anni. «Era molto bella, e tutti i ragazzi del suo paese la corteggiavano. Lei si innamorò di mio padre e io sono il risultato di quell’amore. Era diplomata infermiera, e lavorò un po’ in un ospedale psichiatrico svizzero. [Aveva occhi] castani. Molto profondi. Mi guardava con grande profondità, facendomi sentire nudo». Gli chiedo come definirebbe il loro rapporto – «Abissale» – e che ricordo emerge se ripensa al suo nome: «Un prato. Io e lei da soli a fare le capriole. È un immagine ripresa dal film La vita oscenadi Renato De Maria, che uscirà a ottobre, e dove mia madre è interpretata da Isabella Ferrari».
Quello con sua madre, Maria Pace Ottieri lo descrive come un rapporto «di grande amore reciproco, esplicito e dichiarato quasi quotidianamente da lei, camuffato e conflittuale da parte mia. Per tutte le ragioni che ho descritto, rendeva difficilissimo staccarsi da lei e questo induceva alla ribellione che era proporzionata alla fatica del distacco. I viaggi, girare per l’Africa da sola, ospite di amici africani, nei villaggi e in città, immedesimarmi nelle loro vite, è stato il mio modo il di allontanarmi da lei, con le sue stesse inclinazioni». La sua determinazione materna, allegra e cocciuta («Mia madre era diabolica» riconosce la figlia), emerge da un aneddoto: «Ricordo che una volta, in quei tempi pre- cellulari, satelliti, Skype, riuscì a scovarmi perfino in un albergo di Nouakchott, in Mauritania, dove passavo l’ultima sera prima della partenza per l’Italia e non sapevo nemmeno io che ci avrei dormito. Sentii dalla mia camera al primo piano il portiere dell’albergo che avevo lasciato addormentato dietro il banco, urlare Ottiri, Otteri, e dissi: mi ha trovato! Metteva di mezzo tutte le sue conoscenze e le mie, per ricostruire i miei spostamenti. Quando è morta mi è mancata moltissimo, sono rarissime le persone in grado di capire tutto, ma proprio tutto, ogni sfumatura della vita, come lei e di saperci ridere e piangere insieme».
Chiedo a Teresa del suo rapporto con la madre, Francesca. «Pieno di astio» risponde, «risentimento, rabbia, sensi di colpa e accuse. Era l’unica persona con cui litigando urlavo. Non l’abbracciavo mai. Eppure quando è nata mia figlia, quando mia madre la teneva in braccio, sentivo di esserci anch’io in quell’abbraccio. Ammetto: ho fatto un figlio per lei. E sono diventata madre dopo la sua morte, quando la bambina aveva tre anni». Le chiedo qual è la prima immagine che le torna in mente pensando a lei: «Io che faccio le capriole in piscina e lei dal bordo, con l’asciugamano tra le mani, che mi dice di uscire: è troppo tempo che sto dentro».
La prima immagine che emerge in Valeria Parrella? «Una volta che stavamo a casa mia, e guardavamo tutte e due dai vetri, la città, in silenzio». Il luogo in cui più amavano stare insieme era «una casa di campagna in Lucania».
Helena Janeczek torna alle «ultime passeggiate al lago o al parco, io che la tenevo per mano, lei che si trascinava con passetti sempre più piccoli e mi diceva di non correre troppo perché avevo le gambe più lunghe delle sue. Il suo godersi il sole sulla pelle».
A Nina «piaceva l’idea di avere una figlia scrittrice (se fossi stata più di successo, sarebbe stato meglio) – raccoglieva recensioni ecc. per poterle mostrare all’occorrenza. Sapeva che per me» ricorda Helena, «leggere era da sempre vitale e quindi non si era stupita del mio passaggio alla scrittura. Però, come quasi tutte persone che svolgono un mestiere pratico, non sapeva come rapportarsi alla persona seduta davanti al computer o al quaderno. Immagino sia anche questione di gender: se sei un uomo è più facile che le persone più vicine accettino e rispettino come un lavoro quest’attività immobile e svolta in casa. Se sei una figlia (madre, moglie) quello spazio – la stanza tutta per sé di cui parla Virginia Woolf – resta tutt’altro che inviolabile, anche se esiste. Vale a dire che nei periodi in cui c’era mia madre in casa, riuscivo a scrivere solo se era uscita o se dormiva». Alla domanda se avesse mai voluto confrontarsi apertamente con lei di quel che scrisse nel suo libro, «la risposta è negativa: Mai».
Quella di genere è una questione che «non è possibile tralasciare» aggiunge Parrella. «Mia madre era una femminista, e lo sono anche io. Alla sua emancipazione e al suo esempio devo tutta la forza con cui oggi vivo».
La madre di Valeria nacque «da nonna Ada, casalinga di origini russe, e nonno Michele, operaio alle ferrovie della provincia di Napoli. Mamma amava molto sua madre, che le aveva consentito di studiare ed emanciparsi; si chiama Annamaria – una sola parola – perché la nonna aveva perduto un figlio prima di avere lei, così aveva votato la sua gravidanza alla madonna e a sua madre, che è la protettrice delle partorienti. Molto di questo l’ho raccontato nella prima parte di Lettera di dimissioni cambiando qualcosa, ovviamente, ma nella sostanza in quel libro c’è parecchio della mia discendenza».
Annamaria era quella che «a Napoli si direbbe “una femmina esagerata”, una donna intelligente, viva e molto molto radicata al Sud, al suo portato culturale. Mamma ha sempre saputo parlare con tutti, l’ho vista raccontare a Bill Clinton dei lavori che aveva condotto nei giardini di Pompei [era una biologa, NdR] e servire a tavola il pranzo a dei giardinieri che avevano lavorato a quegli stessi giardini. Era rotondetta e canuta, molto rassicurante fisicamente. E aveva delle mani bellissime».
La mamma di Maria Pace Ottieri aveva «un viso triangolare da gatta, che esprimeva un’intelligenza luminosa e uno straordinario umorismo. Riusciva a conciliare una visione del mondo molto comica con la sua natura profondamente tragica, di chi vive con la percezione di essere sempre sull’orlo di una catastrofe imminente. Ho una sua foto intorno ai quarant’anni» aggiunge Maria Pace, «e per quanto non me la ricordi così, è quella l’immagine che conservo di lei».
«Ha condizionato il mio immaginario», dice Teresa Ciabatti di sua madre. «Da piccoli io e mio fratello in macchina ci picchiavamo sempre, poi stavamo male, e vomitavamo. Che fa mamma? Si compra un Fiorino. Dietro mette la gommapiuma e giocattoli, tanti giocattoli. C’infila lì e noi giochiamo per l’intero viaggio (da adulta le rinfaccerò: “ci trattavi come cani”). Lei, la nostra vita è stata un’alternanza di gioco e dolore. Di conquista e perdita. La mia missione di scrittrice è quella di conciliare queste due anime. Quando ci riuscirò, scriverò un grande libro. Per adesso sono solo tentativi».
Scrivevano, queste madri? E cosa leggevano?
«Mamma leggeva gialli», risponde Parrella. «Agata Christie, Camilleri, Simenon. E poi solo saggistica. Il giorno in cui mi sono laureata mi ha regalato un abbeccedario. Ha scritto tantissimo, centinaia di articoli scientifici e decine di libri. Quando indissero un concorso interno al ministero nel quale lavorava, i libri di testo previsti dall’esame li aveva scritti lei, e la commissione si rifiutò di farle domande, perché era composta da persone che avevano studiato sui suoi libri…».
Silvana Mauri, da cui nacque Maria Pace, è nota alle cronache letterarie per l’amicizia con Pasolini, ma le andrebbe invece tributato il lungo, invisibile lavoro alla Bompiani, e il talento di scrittrice «involontaria», per citare il titolo del suo unico libro. «Era una scrittrice orale…» spiega la figlia. «Della scrittura la spaventava non solo la concentrazione ma la selezione, che cosa scegliere di raccontare e come nell’infinita materia della vita». Silvana viveva l’atto di scrivere come una forzatura. «La passione più grande di mia madre erano le persone e i rapporti con le persone. Aveva una capacità straordinaria di entrare nella vita degli altri, di indurre chiunque ad aprirsi, a confidarsi, anche al primo incontro, cogliendo di ognuno il punto più cedevole, non per invadenza, per autentica empatia, partecipazione, finendo così col diventare necessaria. Applicava senza saperlo o volerlo la regola aurea della seduzione, far credere all’altro di essere l’unico, ma in assoluta buonafede.
Diceva spesso di non conoscere il senso dei propri confini, dei confini della propria vita rispetto a quella degli altri. Gli altri potevano essere una persona del suo mondo, aveva moltissime amicizie profonde e durature, maschili e femminili, o un vicino d’aereo, o un tassista. Le sue agende traboccavano di indirizzi di ogni tipo, dal vescovo cinese incontrato in un aeroporto al giovane poeta rumeno, con i quali a volte nascevano lunghe corrispondenze, come quella con la poetessa americana Carol Geyser, che ho trovato dopo la sua morte e da cui ho tratto un libro Promettimi di non morire, una amicizia durata tutta la vita anche se non si erano più riviste dopo essersi conosciute e frequentate a Roma negli anni Sessanta. Ma le bastava uscire di casa per tornare carica di incontri e di storie che raccontava in famiglia o al telefono ai fratelli o alle innumerevoli amiche».
Chiedo a Maria Pace Ottieri di commentare l’atteggiamento con cui sua madre si accostava alla scrittura, e quale sia invece la sua propria idea.
«Sì, è necessaria l’ossessione, concordo con mia madre, e l’immaginazione, sapersi staccare dal reale, ma io ho bisogno della realtà, di partire da un’esperienza, e infatti non sono una romanziera, ma conosco l’ossessione di inseguire un’idea, o un’ipotesi e doverla verificare, o di raggiungere un luogo, una situazione per raccontarli. A differenza di lei a un certo punto mi sono messa a scrivere, durante un soggiorno in Africa, unica bianca per mesi immersa in una vita africana. Non pensavo assolutamente di scrivere, mi pareva una montagna altissima impossibile per me da scalare, per mio padre scrivere era la vita, valeva più di ogni altra cosa, non era un mestiere, ma una necessità, piena tuttavia di insidie, di tormenti, di fatica. Scrissi un diario durante quel soggiorno africano, molto avventuroso, sia in modo concreto che dal punto di vista intellettuale. Al ritorno lo feci leggere a Valentino Bompiani, mio prozio, che vegliava sui talenti di tutta la famiglia allargata, figlie, nipoti, pronipoti e lui mi disse “è un libro”, non c’è da cambiare nemmeno una parola. L’argomento, il tentativo di una ragazza europea di entrare nella “mente” di una cultura così diversa, era allora nuovo; il libro (Amore Nero, uscito per Mondadori nel 1984) andò bene, i giovani scrittori erano una novità, (avevo ventotto anni), vinsi il Premio Viareggio Opera Prima. E poi mi bloccai per molti anni, di nuovo di fronte alla montagna.
Mi pareva impossibile aver scritto un libro senza soffrire, anzi con grande divertimento e naturalezza. Il giornalismo, i lunghi articoli per Diario della settimana e per l’Unità, mi ha aiutato e così ho ripreso a scrivere libri in forma di reportage narrativi, da artigiana, su un argomento che avevo esplorato a fondo, così come facevo in Africa, l’immigrazione. E sono andata avanti poi con altri temi senza più pensare al confronto con mio padre, o con altri scrittori “veri” dominati dalla pura ossessione letteraria.
La madre di Helena Janeczek «aveva un rapporto molto pragmatico con le diverse lingue in cui soleva esprimersi: non scriveva. Il suo attivismo e la sua impazienza le rendevano difficile rilassarsi a casa nel tempo libero, ma qualche volta leggeva (a differenza del guardare un film o un programma in tv). Ci teneva che quei pochi libri all’anno fossero buone letture. Mi chiedeva consigli e anche rifornimenti: mi portò via diversi tascabili di Joseph Roth e di  Canetti, per esempio». Quanto al ruolo giocato da Nina sulla scelta della figlia di diventare scrittrice, Helena risponde: «sì e no. Ha avuto un ruolo determinante nel farmi diventare quella che sono. Ma cominciai a scrivere sin dall’adolescenza e la raccolta di poesia con cui esordii nel 1989 per Suhrkamp contiene una sola lirica a lei dedicata. Lezioni di tenebra nacque quando avevo già accumulato quasi due decenni di scritture – abbozzi di romanzi fantasy (giuro), un lungo racconto di un amore infelice popolato di fantasmi, quaderni e quaderni pieni di poesie. Alla fine direi più no che sì».
È un caso simile quello di Maria Pace Ottieri. Sulla sua scelta «non ha giocato nessuna particolare influenza, se non quella di essere stata una madre sempre incoraggiante. La sua presenza la riconosco in molti tratti del mio carattere che le somigliano, l’interesse per le vite altrui, la capacità di empatia e di entrare in comunicazione anche con le persone più lontane, il sapere ascoltare».
La madre di Aldo Nove «leggeva giornali femminili e romanzi rosa», e l’edicola che gestiva col marito, «una sorta di bazar, come accadeva nelle edicole di paese di quegli anni», fu la prima biblioteca del figlio, che pescò lì «le solite letture da ragazzi. Verne e Salgari su tutti. Ma anche Rodari».
Teresa Ciabatti ricorda il primo libro che le regalò sua madre: «un libro con le figure dalla copertina rosa. Era la storia di una bambina maschiaccio a cui regalano una bambola, Mary Elle: boccoli biondi, occhi azzurri, ginocchia non sbucciate. E piano piano la bambina comincia a scambiarsi pezzi con la bambola, finché diventa la bambola, la bellissima bambola bionda, solo che ora non può più correre, saltare, rotolarsi a terra. Per rimanere bella deve essere immobile».
Nell’età della ribellione, essendo cresciuta dentro un mondo letterario, differenziarsi dalla madre e dal padre significò per Maria Pace Ottieri cominciare «a leggere tardi, all’università, prima saggi di antropologia a cominciare da Levi Strauss, Tristi Tropici mi aveva folgorato, poi scrittori che loro non leggevano, africani, o francesi viaggiatori, Griaule, Leiris. Capii di essermene andata davvero di casa, qualche anno dopo averlo fatto, quando le chiesi di prestarmi la Recherche in francese (non gliel’ho più restituita), lingua che avevo imparato sul campo in Africa. Nel corso del tempo, ho letto e amato scrittori e scrittrici italiani, scoperti per ultimi, in ordine di tempo, dopo africani, russi, americani, israeliani, che mia madre leggeva con grande interesse, Corrado Alvaro, Paolo Volponi, Lalla Romano, Alberto Savinio, Guido Piovene, o Moravia e Pasolini. Con alcuni aveva lavorato alla Bompiani, dove è stata dai diciotto anni ai cinquanta, fino a quando la casa editrice fu venduta e la nuova proprietà epurò i parenti».
L’episodio della Recherche ci riporta alla domanda iniziale. Sarà vero che sempre alla madre torna, la scrittrice, lo scrittore, come al ricordo più antico? Forse è proprio così: sempre alla madre si torna. A lei, con cui costituimmo un intero. A lei che ci donò la misura, rompendo l’assoluto per trasformarlo in relazione. Lei, da cui imparammo ad amare e a odiare, a ricercare negli altri l’intero perduto, perché (cito Yeats) «nulla può essere unico o intero che non sia stato lacerato».

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