Riforme. Il caso
italiano conferma che all’introduzione o al cambiamento di
Costituzione si arriva solo in momenti gravissimi (guerre e
rivoluzioni), quando vi si è costretti dalla pressione di eventi
straordinari. Un articolo di qualche mese fa, ma ancora di grande
interesse.
Adriano Prosperi
Nella discussione
intorno alle riforme istituzionali in corso in Italia
lo schema conservazione-innovazione si è sostituito da
tempo alla coppia antica destra-sinistra. Così si è giunti
all’esito di definire conservatori i critici
delle proposte del governo Renzi, anche se qualcuno ha
ricordato (come un dato negativo) che si tratta di figure
appartenenti alla «sinistra radicale»:
radicali inguaribili, attardati
professionisti dello scontento.
Inutile, davanti al
vento di tempesta che sospinge le vele dell’opinione
pubblica, ricordare che non tutto ciò che è nuovo
è bene e tutto ciò che è conservazione
è male: anche se tutti sappiamo quanto sia necessario
conservare beni come l’ambiente, i beni
culturali, i diritti umani, la memoria del
passato, e così via.
Polemiche
a parte, la discussione di merito si è svolta
prevalentemente tra esperti di diritto: ogni
parte ha sfoderato i suoi costituzionalisti.
E tuttavia davanti all’importanza dei mutamenti
oggi in via di ratifica ma anche alla lunga discussione
e alle molte polemiche che li hanno preceduti
negli anni scorsi, vale forse la pena di fare qualche
riflessione sulla genesi storica delle costituzioni.
È noto che da sempre
le Costituzioni, materiali o scritte che siano,
sono figlie di tempi agitati: guerre e rivoluzioni
. Senza bisogno di risalire alla Costituzione di
Atene, basta considerare la storia medievale
e moderna degli stati europei: dalla Magna Charta e dal
Bill of Right del Parlamento nella lotta contro la
monarchia inglese del ’600 fino alla Costituzione
degli Stati uniti d’America e a quelle della Francia
moderna, si è trattato ogni volta di interventi
regolatori dei rapporti formali di potere resi
necessari da profonde trasformazioni nei
rapporti sostanziali.
Il caso italiano
conferma che all’introduzione o al cambiamento
di Costituzione si arriva solo in momenti gravissimi,
quando vi si è costretti dalla pressione di eventi
straordinari. Non avremmo avuto la nostra Costituzione
se non ci fosse stata una guerra perduta, seguita dalla
perdita della sovranità nazionale
e dall’auto-cancellazione delle istituzioni
statali vigenti ratificata dal referendum
istituzionale del 1946. Senza una feroce guerra
civile, senza la Resistenza non ci sarebbe stato quel fermento
di volontà innovativa che sopravvive ancora nella
Costituzione repubblicana dandole un valore
di esortazione ad andare al di là dell’esistente.
Si pensi a quel
fondamentale secondo comma dell’art.3 sulla
necessità di rimuovere gli ostacoli di ordine
economico che limitano di fatto libertà
e uguaglianza dei cittadini e impediscono
il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione dei lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale
del Paese. Mai come in questi tempi si è avvertita
tutta l’importanza e l’angosciante attualità di
questo testo, bandiera di una battaglia che
riguarda ancora e sempre i lavoratori tutti
intesi come persone, ma oggi soprattutto chi per non avere
lavoro o per averlo precario e revocabile
a piacere scivola nella categoria delle non
persone.
E tuttavia non
va dimenticato che alla nascita della Costituzione
repubblicana si arrivò non per una rivoluzione
popolare contro il regime precedente ma per
effetto della ricezione del nuovo ordine mondiale in cui
aveva finito per trovare collocazione lo
sconfitto stato italiano. Questo aiuta a capire
la debolezza e l’inefficacia della Carta
costituzionale una volta ripartita la vita del
paese sotto il saldo controllo di forze moderate e di
apparati ereditati dallo stato fascista. Fu
allora che, invece dell’alternanza al potere di forze diverse e di
una dialettica sana del conflitto sociale
e politico, si aprì l’epoca del partito unico al
potere e dell’opposizione bloccata da una
insormontabile esclusione.
L’Italia di allora fu
uno dei paesi dove un solo partito aveva accesso al governo
dello Stato: una delle uncommon democracies, secondo la
definizione di T. J.Pempel evocata di recente da
Sabino Cassese in Governare gli italiani. Storia
dello Stato (Il Mulino). Dunque, se rivoluzione ci fu
con l’avvento della Costituzione repubblicana,
si trattò ancora una volta di una specie particolare
di rivoluzione.
Nella storia
italiana si materializzò di nuovo un fantasma
antico, quello della «rivoluzione passiva». Un
concetto che Vincenzo Cuoco nel Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana del 1799,
introdusse nel vocabolario politico
italiano. Ricordiamolo: secondo lui quella
rivoluzione napoletana era stata «passiva»
perché importata da fuori e attuata da una
minoranza , un’élite intellettuale, senza che ci
fosse stata una coscienza,una partecipazione
diffusa in mezzo al popolo. Quel fallimento
dimostrava, secondo Cuoco, che nessuna rivoluzione
poteva calare dall’alto, da «un’assemblea di filosofi»
o essere imposta con «la forza delle baionette».
Una Costituzione autentica come patto durevole
di un popolo poteva nascere e mantenersi solo se
adeguata alle caratteristiche, alla storia
e alla cultura di quel popolo.
L’appuntamento per una
nuova Costituzione si presentò alla metà dell ’800.
Fu nel 1848 che prese forma lo Statuto albertino, un
documento fondamentale della storia
d’Italia. Era una costituzione octroyée, concessa
dal sovrano sabaudo ai suoi sudditi, non conquistata
da una rivoluzione popolare, ma dettata dal
timore dei movimenti che agitavano l’Europa e in
modo speciale la Francia. Ancora una rivoluzione
passiva, dunque. E così si entra in quella stagione
della storia d’Italia che è stata chiamata
Risorgimento quando, per la prima volta sulla scena
europea, prese forma un stato italiano unitario.
Lo Statuto
albertino fu esteso senza modifiche a tutta
l’Italia di cui fu la Carta fondamentale dal 1861
al 1944 (con la cesura del Fascismo). Fu un fenomeno
singolare: lo potremmo definire una fusione fredda,
lontana come fu dal calore e dal rumore di popoli in
rivolta, anzi compiuta proprio allo scopo di evitarne
il rischio. Perché avvenisse questa
trasformazione in punta di piedi ci volle la paura
dello «spettro rosso» del comunismo, decisiva
nel convincere le classi dominanti della penisola
a rifugiarsi sotto la bandiera sabauda.
Così quello Statuto
fu non il frutto di una rivoluzione ma lo strumento
di una restaurazione. E proprio così –
restaurazione – la definì un appassionato
osservatore della realtà italiana, Edgar Quinet.
Bisognava – come ha scritto Giuseppe Tomasi di
Lampedusa – che tutto cambiasse perché tutto
restasse com’era.
Sulla questione
della «rivoluzione passiva» doveva riflettere
in prigione Antonio Gramsci in pagine che restano
fondamentali e da rileggere in questo
nostro presente. Il Risorgimento secondo lui era
stato una «rivoluzione passiva», una
«restaurazione»: una «reazione delle classi
dominanti al sovversivismo sporadico
e disorganico delle masse popolari con
‘restaurazioni’ che accolgono una qualche
parte delle esigenze popolari». Era mancata l’
iniziativa delle masse popolari , c’era stato
ancora una volta lo scollamento con l’élite
intellettuale del paese.
Uno scollamento che oggi emerge di nuovo pur se in condizioni storiche e sociali diversissime: il titolo di «professori», con la variante peggiorativa di «professoroni» ne è l’espressione più popolare. Le esigenze di mutamento sostanziale nell’assetto della catena di comando e di organizzazione del consenso nascono ancora una volta dall’esterno: dopo il crollo del muro di Berlino c’è stato quello degli assetti statali davanti alla globalizzazione come governo del mondo da parte della finanza internazionale. Da qui la necessità di rendere liquida la società e permeabili gli esseri umani ai rapidi riassetti di un sistema produttivo funzionale all’illimitato arricchimento di pochi .
Avremo dunque ancora una volta una «rivoluzione passiva». Se ne fa portatore un governo di emergenza sostenuto da un Parlamento di nominati e da un presidente della Repubblica da tempo convinto che il ritorno alle elezioni sia un male da evitare, una «sciocchezza». Quello che sulle riforme costituzionali proposte fa aleggiare il sospetto di una restaurazione è il fatto che manca in tutto il disegno una parola importante: la parola Partito. Se c’è oggi una realtà costosissima e che si è resa odiosa alla popolazione attraverso innumerevoli scandali è proprio il sistema attuale dei partiti.
Macchine di potere
refrattarie a qualunque disciplina di
legge e sorde al referendum dell’abolizione del
finanziamento pubblico, assistono adesso a una
sotterranea rinascita. È il Partito
che vincerà le future elezioni con l’Italicum (il nome
lo lasciamo alla fantasia dei lettori) l’entità
che si cela dietro la proposta di un Senato-fenice
che muore e rinasce dalle sue ceneri come Camera delle
autonomie. Camera non elettiva, beninteso, che
invece di cancellare il Senato, come dice la vulgata
demagogica, lo vorrebbe riciclare come
pensionato di lusso per quel ceto di amministratori
politici locali e regionali che si affolla in cerca
di altri incarichi pubblici e non vuole passare
attraverso altre elezioni.
Una piccola preghiera,
dunque: si elimini pure il Senato, ma senza resurrezioni
sospette. Altrimenti la definizione di
conservatori sarà meglio usarla per i «rinnovatori».
Il manifesto – 11 aprile 2014
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