Oggi riprendo da Repubblica la recensione di un libro recentemente uscito. Desidero però sottolineare che la problematica in questione ha una storia antica e che, nei primi dell'800, il giovane Marx l'aveva già lucidamente affrontata. A lui si deve infatti la profetica affermazione: " Quanto più valore si dà alle merci e alle cose, tanto più si riduce il valore dei lavoratori e degli uomini"( Manoscritti economico-filosofici del 1844)
Massimo Recalcati
Perché le persone
sono diventate solo cose e le cose solo merce
Con questo suo ultimo libro titolato Le persone e le cose , Roberto Esposito aggiunge un altro capitolo importante alla sua ricerca filosofica intorno alle origini della nostra civiltà e alle ragioni che rendono possibile (o impossibile) il dono-dovere della comunità, il nostro vivere insieme. La sua chirurgica e meticolosa genealogia si configura come uno dei cammini filosofici più originali e innovativi degli ultimi vent’anni. In queste due parole, “persone” e “cose”, si manifesta secondo Esposito una divisione ontologica che è stata la matrice di processi ben più ampi che hanno pesantemente coinvolto le fondamenta stesse della nostra vita collettiva.
Questo binomio è infatti
un “binomio escludente”. È una prima tesi del libro:
l’operazione che fonda la persona come soggetto autorale,
integralmente “decorporeizzato”, reso titolare di diritti e di
patrimoni, è tutt’uno con quello che lo elegge a padrone delle
cose. In questa doppia fondazione si produce un’esclusione di tutto
ciò che contrasta con questa biforcazione metafisica. In primis
l’esclusione del corpo: «Non rientrando compiutamente né nella
categoria di persona né in quella di cosa, il corpo è stato
cancellato come oggetto di diritto».
Esposito mostra bene come
la genealogia del concetto di “persona” sia il risultato di
un’astrazione progressiva che finisce per disgiungerla nettamente
dal corpo. Già nel diritto romano la persona giuridica appare
autonoma dal corpo e come padrona delle cose. Quello che definisce le
cose secondo l’ordinamento di quel diritto «è la loro
appartenenza a uno o a più proprietari». Allo stesso modo anche le
cose sono state private del loro corpo. Accade originariamente con la
metafisica greca, ma ancora più chiaramente con l’affermazione
della tecnica che da quella tradizione scaturisce già secondo
l’insegnamento di Marx, prima ancora di quello di Heidegger: le
cose non sono lasciate essere per quello che sono, ma sono ridotte a
“risorsa” (Bestand) e sottoposte a uno sfruttamento illimitato.
La spinta all’appropriazione appare così come una sorta di nucleo
pulsionale originario che regola in Occidente il rapporto tra l’uomo
e le cose.
Questo comporta lo
schiacciamento di altri esseri umani allo statuto inerte degli
oggetti inanimati, delle cose anziché delle persone. Il corpo stesso
viene colonizzato: il soggetto si divide in una parte animale e
sensibile e in un’altra razionale e spirituale che deve esercitare
il suo dominio su di essa.
Questo esito nichilistico troverebbe un suo antagonista irriducibile, anche se minoritario, in una tradizione di pensiero che Esposito fa risalire a Spinoza e che, passando da Vico, giunge sino a Nietzsche e alla fenomenologia francese (Sartre, Meleau-Ponty).
Questo esito nichilistico troverebbe un suo antagonista irriducibile, anche se minoritario, in una tradizione di pensiero che Esposito fa risalire a Spinoza e che, passando da Vico, giunge sino a Nietzsche e alla fenomenologia francese (Sartre, Meleau-Ponty).
Questa tradizione
contesta radicalmente il taglio che disgiunge irreversibilmente
l’anima dal corpo e la persona dalle cose e che ha fondato, a
partire dal gesto inaugurale di Cartesio che distingue la res
cogitans dalla res extensa, l’attuale primato narcisistico dell’Io
come governatore del proprio corpo e del mondo delle cose. Siamo alla
pars costruens del libro: il corpo può essere la pietra di scarto
destinata a divenire la pietra angolare di un altro modo di pensare
la vita. Una constatazione preliminare si impone: sebbene escluso, o
proprio perché escluso, il corpo vivente torna incessantemente al
centro della scena della politica e dei suoi conflitti.
«La vita umana —
scrive Esposito — da cornice dell’agire politico, ne diviene il
centro — si fa affare di governo, così come la politica diventa
governo della vita». Questo significa che l’esclusione del corpo
dal regime della persona genera uno spazio vuoto dove domande sempre
più pressanti restano senza risposta: «Da quando e sino a quando il
corpo può essere considerato persona anziché cosa? Il trafugamento
di un cadavere, oppure di embrioni, va considerato alla stregua di un
rapimento o di un furto?».
Ecco apparire la dimensione più chiaramente politica della riflessione di Esposito: come individuare i modi del ritorno di ciò che è stato rimosso, bandito, esiliato? Non si deve dimenticare che questa parte esclusa non s’incarna solo nelle istanze del corpo individuale vivente, ma anche in quelle collettive di un popolo — di una moltitudine — che è stata tenuta fuori dalla rappresentanza e che oggi spinge per denunciare il limite costitutivo di quella stessa idea di rappresentanza (fondata arbitrariamente su di una esclusione).
È l’aut-aut etico che
il libro ci consegna: prevarrà la passione immunitaria che esalta il
proprio sul comune, l’interesse individuale su quello collettivo,
l’Io sull’Altro o la passione per la comunità e l’economia del
dono insieme al rischio di smarrimento e di perdita di identità che
l’esposizione all’Altro sempre comporta?
La Repubblica – 29 agosto 2014
Roberto Esposito
Le persone e le cose
Einaudi, 2014
euro 10
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