04 settembre 2014

GRAMSCI, malgrado tutto, E' ANCORA VIVO!





Una nuova analisi dell'opera gramsciana, dal periodo torinese ai Quaderni, che ne evidenzia la continuità di pensiero.

Guido Liguori

Una vivente filosofia della prassi

Dopo Gramsci storico (2003) e Per Gramsci (2012), Alberto Burgio torna sul marxista e comunista sardo con un volume corposo e denso, punto di arrivo di un lungo lavoro di scavo e riflessione. In Gramsci. Il sistema in movimento (DeriveApprodi, 2014, pp. 489, euro 27) vengono riversati studi già noti, ma molto materiale è aggiunto, e il tutto è riordinato al fine di ricostruire l’insieme della riflessione gramsciana, dagli anni torinesi a quelli del carcere. Un contributo di grande ricchezza, che presenta però anche tratti problematici, che meritano di essere quanto meno indicati e, per quel che è qui possibile, discussi.

La cifra di fondo della ricostruzione di Burgio è quella dell’unitarietà e della continuità: per ciò che concerne il pensiero di Gramsci, ma anche i legami tra questo e i punti di ispirazione principali, individuati in Hegel e Marx, Labriola e Lenin. Un Gramsci hegelo-marxista-leninista, per cui fondamentale fin dagli anni giovanili è la «presa di coscienza» e la comprensione di una «necessità» non fatalistica operante nella storia. Un pensiero non esente da svolgimenti, ma unitario e organico.

Le idee-forza del «sistema» gramsciano permangono lungo tutto l’arco della riflessione di questo autore. Sistema, perché internamente coerente, anche se non statico, per i mutamenti radicali che segnano gli anni considerati. L’opera gramsciana è per Burgio «unitaria, benché incompiuta, e sistematica nelle intenzioni del suo autore, il quale concepisce la realtà e la storia come una totalità». Lo sviluppo storico è «un processo unitario relativamente coerente e dotato di senso», «suscettibile di previsioni e anticipazioni da parte del soggetto rivoluzionario»: alla teoria spetta «l’onere di restituirne una rappresentazione organica».



Problemi di metodo

Si impone su queste tesi una prima riflessione. Di contro a un certo uso post-moderno di un pensatore adattato a tutte le bisogne, fino a dimenticarne o a tradirne il quadro di riferimento complessivo (il marxismo) e le finalità (rivoluzionarie), è ben comprensibile che Burgio faccia opposizione. Ci si chiede però se questa intenzione di fedeltà a Gramsci, alla sua problematica e alle sue motivazioni sia perseguibile facendone l’autore di un sistema compiuto. Non va così persa proprio la dimensione politica e militante del suo pensiero, ancorata alla prassi e alle sue inevitabili discontinuità? E non si finisce per trascurare – in questo continuismo teorico tutto interno al marxismo – «fonti» ugualmente importanti?

Non che gli autori citati non siano fondamentali per Gramsci, tutt’altro. Bisognerebbe però stare attenti a non dimenticare la più vasta complessità della sua formazione, l’ampio arco di fattori (ad esempio, la cultura francese) che, nel clima della reazione al positivismo, contribuirono alla sua originalità e che riemergono (basti pensare a Sorel) negli scritti del carcere. Spingere troppo sul tasto della continuità rischia di offuscare questo elemento cruciale, di lasciare in ombra come – accanto a problematiche costanti e anche al ritorno, nei Quaderni, di alcuni originali tratti giovanili – sussistano discontinuità dovute ad esempio al ruolo di direzione politica esercitato negli anni Venti. Momenti di vera e propria svolta (ad esempio su Croce, per citare un caso eclatante) vi sono nella riflessione carceraria: fattori che si rischia di sottovalutare con un tale impianto di metodo.

Contro il canone dominante

Mi riferisco anche alla polemica – a volte esplicita, pur se accompagnata da qualche prudenza – che Burgio solleva verso il canone prevalente negli ultimi lustri di studi gramsciani in Italia, quella nuova attenzione ai testi e alla loro storia, al rapporto tra elaborazione a battaglia politica, nata a partire dall’opera filologica di Gerratana e poi dal lavoro di Francioni. Mi sembra che Burgio nutra verso questo che considera un eccesso di filologismo una preoccupazione in qualche modo «politica»: il fatto cioè che nella filologia si perda la «filologia vivente». Egli giunge ad affermare che il «feticismo dei testi» impedisce di comprendere lo spirito gramsciano, da cogliere anche contro la lettera dei testi.


Il Manifesto – 2 agosto 2014

Nessun commento:

Posta un commento