Una nuova analisi
dell'opera gramsciana, dal periodo torinese ai Quaderni, che ne
evidenzia la continuità di pensiero.
Guido Liguori
Una vivente filosofia
della prassi
Dopo Gramsci storico
(2003) e Per Gramsci (2012), Alberto Burgio torna sul marxista e
comunista sardo con un volume corposo e denso, punto di arrivo di un
lungo lavoro di scavo e riflessione. In Gramsci. Il sistema in
movimento (DeriveApprodi, 2014, pp. 489, euro 27) vengono riversati
studi già noti, ma molto materiale è aggiunto, e il tutto è
riordinato al fine di ricostruire l’insieme della riflessione
gramsciana, dagli anni torinesi a quelli del carcere. Un contributo
di grande ricchezza, che presenta però anche tratti problematici,
che meritano di essere quanto meno indicati e, per quel che è qui
possibile, discussi.
La cifra di fondo della
ricostruzione di Burgio è quella dell’unitarietà e della
continuità: per ciò che concerne il pensiero di Gramsci, ma anche i
legami tra questo e i punti di ispirazione principali, individuati in
Hegel e Marx, Labriola e Lenin. Un Gramsci hegelo-marxista-leninista,
per cui fondamentale fin dagli anni giovanili è la «presa di
coscienza» e la comprensione di una «necessità» non fatalistica
operante nella storia. Un pensiero non esente da svolgimenti, ma
unitario e organico.
Le idee-forza del
«sistema» gramsciano permangono lungo tutto l’arco della
riflessione di questo autore. Sistema, perché internamente coerente,
anche se non statico, per i mutamenti radicali che segnano gli anni
considerati. L’opera gramsciana è per Burgio «unitaria, benché
incompiuta, e sistematica nelle intenzioni del suo autore, il quale
concepisce la realtà e la storia come una totalità». Lo sviluppo
storico è «un processo unitario relativamente coerente e dotato di
senso», «suscettibile di previsioni e anticipazioni da parte del
soggetto rivoluzionario»: alla teoria spetta «l’onere di
restituirne una rappresentazione organica».
Problemi di metodo
Si impone su queste tesi
una prima riflessione. Di contro a un certo uso post-moderno di un
pensatore adattato a tutte le bisogne, fino a dimenticarne o a
tradirne il quadro di riferimento complessivo (il marxismo) e le
finalità (rivoluzionarie), è ben comprensibile che Burgio faccia
opposizione. Ci si chiede però se questa intenzione di fedeltà a
Gramsci, alla sua problematica e alle sue motivazioni sia
perseguibile facendone l’autore di un sistema compiuto. Non va così
persa proprio la dimensione politica e militante del suo pensiero,
ancorata alla prassi e alle sue inevitabili discontinuità? E non si
finisce per trascurare – in questo continuismo teorico tutto
interno al marxismo – «fonti» ugualmente importanti?
Non che gli autori citati
non siano fondamentali per Gramsci, tutt’altro. Bisognerebbe però
stare attenti a non dimenticare la più vasta complessità della sua
formazione, l’ampio arco di fattori (ad esempio, la cultura
francese) che, nel clima della reazione al positivismo, contribuirono
alla sua originalità e che riemergono (basti pensare a Sorel) negli
scritti del carcere. Spingere troppo sul tasto della continuità
rischia di offuscare questo elemento cruciale, di lasciare in ombra
come – accanto a problematiche costanti e anche al ritorno, nei
Quaderni, di alcuni originali tratti giovanili – sussistano
discontinuità dovute ad esempio al ruolo di direzione politica
esercitato negli anni Venti. Momenti di vera e propria svolta (ad
esempio su Croce, per citare un caso eclatante) vi sono nella
riflessione carceraria: fattori che si rischia di sottovalutare con
un tale impianto di metodo.
Contro il canone
dominante
Mi riferisco anche alla
polemica – a volte esplicita, pur se accompagnata da qualche
prudenza – che Burgio solleva verso il
canone prevalente negli ultimi lustri di studi gramsciani in Italia,
quella nuova attenzione ai testi e alla loro storia, al rapporto tra
elaborazione a battaglia politica, nata a partire dall’opera
filologica di Gerratana e poi dal lavoro di Francioni. Mi sembra che
Burgio nutra verso questo che
considera un eccesso di filologismo una preoccupazione in qualche
modo «politica»: il fatto cioè che nella filologia si perda la
«filologia vivente». Egli giunge ad affermare che il «feticismo
dei testi» impedisce di comprendere lo spirito gramsciano, da
cogliere anche contro la lettera dei testi.
Il Manifesto – 2 agosto
2014
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