Mostra di Venezia. Un
documentario racconta il tentativo del fascismo di mantenere la
lingua italiana esente da contaminazioni esterne
C’era una volta
un’Italia in cui si andava non a Courmayeur ma a “Cormaiore”, i
vestiti con le pajellettes si chiamavano “allucciolati” e per
aperitivo al posto del cocktail si beveva l’“arlecchino”. Nelle
riviste teatrali cantavano “Vanda Osiri” e “Renato Rascelle”.
E in platea applaudiva la “clacche”, sicuramente più energica
della vezzosa claque. Era il paese di Mussolini, artefice di un folle
progetto di autarchia linguistica. Via le parole straniere da insegne
e pubblicità, al bando gli esotismi a scuola e nei dizionari.
Vietati anche i dialetti e le parlate delle minoranze. Ammesso in
pubblico soltanto un italiano virile, meglio se muscolare, il
vigoroso “voi” invece del più effeminato “lei”, insomma lo
stile del Me ne frego!, come recita una celebre canzonetta
dell’epoca, «non so se ben mi spiego, me ne frego, ho quel
che piace a me».
Me ne frego! è anche il titolo del bel documentario dell’Istituto Luce a cura della linguista Valeria Della Valle e del regista Vanni Gandolfo, che sarà presentato questa mattina alla Mostra del Cinema di Venezia.
Un efficace viaggio nel tempo, il recupero di un’Italia dimenticata, ridicola nel suo purismo nazionalistico e anche drammatica per la violenza dei divieti, grottesca nelle sue liste di proscrizione e insieme terribile, lunarmente lontana nelle maestose coreografie littorie eppure paradossalmente vicina, perché c’è ancora chi invoca provvedimenti legislativi a tutela dell’italiano.
Durò vent’anni, quell’esperimento. Dall’anno in cui Mussolini prese il potere a quando fu costretto a lasciarlo, nel luglio del 1943. E furono molti gli intellettuali italiani che misero il proprio estro al suo servizio, studiosi della lingua e giornalisti, scrittori e poeti, romanzieri e accademici di Italia. Da Marinetti a Savinio, da Monelli alla Sarfatti, fino a Pavolini e Federzoni. Tutti prodighi di suggerimenti stilistici, perché «non c’è più posto per i cianciugliatori alla balcanica di parolette forestiere», come scrisse nel 1933 Paolo Monelli nel suo Barbaro dominio, un libro che raccoglieva cinquecento esotismi da bandire.
Tra i giornali era partita la gara per i lettori più inventivi. Cominciò la Scena Illustrata inaugurando la rubrica “Difendiamo la lingua italiana”. Poi intervenne la Tribuna e infine la Gazzetta del Popolo con “Una parola al giorno”. L’Accademia d’Italia, organo ufficiale della cultura di regime, fu incaricata di redigere l’elenco delle parole straniere con la sostituzione italiana. Trionfava lo “slancio” al posto dello swing , il “consumato” subentrava al consommé, e non si poteva più dire shock, ma “urto” di nervi. C’era anche chi non censurava, come Alfredo Panzini, che accolse imparzialmente nel suo Dizionario termini italiani e stranieri. E all’illuminato Bruno Migliorini si devono due parole poi entrare nell’uso comune: regista al posto di regisseur e autista invece di chauffeur. A proposito di Migliorini, fu il primo a ricoprire la cattedra di Storia della lingua, istituita nel 1939 da Giovanni Gentile: l’unica cosa buona nel delirio di una bonifica totalitaria.
E sono le imponenti scenografie ducesche a trasportarci in quel delirio imperiale che abbiamo ormai rimosso, immense scolaresche mineralizzate in maestose “M” o in forma di “DUX”, oppure fatte sciamare in piazza Bernini a Torino tra gli allestimenti della “Mostra anti-Lei”, le cui immagini scovate al Luce rappresentano una vera rarità: caricature, vignette, disegni satirici che riducono il pronome allocutivo a un bubbone da estirpare, severamente bandito dalla lingua perché considerato “femmineo” e “straniero”. In realtà «era una forma italianissima in uso fin dal Cinquecento », corregge Valeria Della Valle, docente di Linguistica italiana alla Sapienza e direttrice scientifica dell’ultima edizione del Vocabolario Treccani. L’impazzimento era tale che il settimanale di Rizzoli Lei dovette rinunciare al suo nome. Invano tentarono di spiegare a Mussolini che in quel caso era sinonimo di ella o essa, insomma di donna. Achille Starace, infiammato artefice dei “fogli di disposizioni”, ne impose la correzione in Annabella: sempre meglio di Voi, devono aver pensato al giornale.
Anche il cinema dovette conformarsi al nuovo costume, ma qualche volta gli attori inciampavano nel “lei” interdetto, prontamente corretto nella più maschia allocuzione. A teatro per fortuna c’era Totò che ironizzava sfigurando Galileo Galilei in Galileo Gali voi. Una volta incappò in un gerarca seduto in prima fila, che mostrando uno humour squisito decise di denunciarlo. Ma il procedimento fu bloccato da Mussolini. «Fesserie!», liquidò. E non se ne parlò più.
In realtà gli italiani nel privato continuarono a usare il “lei” e molti, pur di non darsi il “voi”, si buttarono sul confidenziale “tu”. E mentre il duce e i suoi gerarchi inseguivano il purismo nazionalistico, il novanta per cento della popolazione parlava ancora dialetto. I materiali del Luce mostrano questo “italiano nascosto”, il parlato vero della presa diretta, che proprio perché non in linea con le direttive ufficiali venne occultato dietro voci narranti ufficiali, asettiche e impostate. Inutile aggiungere che la bonifica mussoliniana non aiutò affatto l’alfabetizzazione degli italiani, che rimase tragicamente arretrata nel dopoguerra. «E in un certo senso», aggiunge Della Valle, «scontiamo ancora quei vent’anni persi dietro inutili miti nazionalistici».
Di quell’esperimento linguistico oggi è rimasto poco, quasi nulla. «Le parole straniere non sono state debellate da decreti legge», dice la studiosa. «Le minoranze linguistiche hanno reagito con insofferenza ai provvedimenti del regime, mettendo anche in atto tentativi di separatismo.
I dialetti continuano a essere usati come lingua degli affetti e delle origini famigliari: nei film, nelle canzoni e nella poesia. E il pronome “lei” ha ripreso il suo posto, mentre il “voi” è usato solo nell’italiano regionale del Mezzogiorno». Resta come ricordo il Vocabolario della Reale Accademia d’Italia, rimasto interrotto per sempre alla lettera C: quanto basta per leggere sotto alcuni lemmi il nome di Mussolini accostato ad Ariosto, Machiavelli e Petrarca. E restano pochissime formule care al duce come “colli fatali”, “bagnasciuga” e “colpo di spugna”, tra tutte la più fortunata.
Un’Italia troppo lontana nel tempo? Non del tutto. E fa bene la Mostra del Cinema a rilanciarla per più ampie platee. Già indagata dai libri di Sergio Raffaelli ed Enzo Golino, grazie al documentario del Luce quella pagina di storia dovrebbe circolare nelle scuole e all’università. Anche perché la volontà di bonifica linguistica si potrebbe presentare in nuove forme, seppur più morbide rispetto all’antica xenofobia. Di fronte alla crisi dell’italiano – che ha perso il suo status di lingua di cultura internazionale, scivolando al ventiduesimo posto per l’ampiezza del bacino di parlanti – perfino tra gli studiosi c’è chi rimpiange una robusta politica in sua difesa. «Sì, è vero», risponde Della Valle.
«Ci sono dei nostalgici
che invocano provvedimenti legislativi. Di tanto in tanto viene
riproposto qualche consiglio superiore della lingua italiana che
dovrebbe difenderla dal barbaro dominio delle parole straniere. Ma
per fortuna a occuparsi della nostra lingua ci sono istituzioni
solide come l’Accademia della Crusca, l’Enciclopedia Italiana e
la Dante Alighieri, del tutto estranee a queste nostalgie». La
lingua è uno strumento in continua evoluzione, nessuna politica
dovrebbe mai pensare di imbrigliarla. Me ne frego! serve a
ricordarcelo.
La Repubblica – 3
settembre 2014
Nessun commento:
Posta un commento