28 ottobre 2014

LE LETTERE DI VAN GOGH AL FRATELLO THEO



Il carteggio di Van Gogh con il fratello Theo ne rivela la profonda cultura e il rapporto costante tra scrittura e rappresentazione pittorica.

Franco Marcoaldi

Le confessioni sulla sua pittura al fratello Theo


Quasi 900 sono le lettere che Van Gogh ci ha lasciato: più o meno la stessa quantità di quadri e disegni, ricorda Stéphane Guégan nel saggio per il catalogo della mostra di Milano. È la dimostrazione plastica del rimbalzo continuo tra l’attività del pennello e la riflessione affidata alla penna; un’osmosi felicissima e irripetibile tra colori, segni e parole. Molte sono rivolte al fratello Theo, tra cui quella celeberrima del 19 giugno 1789, nella quale Vincent dà una definizione di arte a cui resterà per sempre legato: un inesausto corpo a corpo tra l’uomo e la natura, con l’artista impegnato a svelarne l’arcano.

Se nella mostra milanese si dà così ampio spazio alle lettere non è soltanto per via della coincidenza numerica tra missive e quadri, ma perché mai o quasi mai il carteggio di un pittore risuona altrettanto potente, completo, profondo. Basta leggere l’edizione antologica curata da Cynthia Saltzman (Einaudi). Vi si incontra un artista immenso che riflette con ardore e acume sul proprio lavoro, accompagnando le lettere con schizzi coevi; un uomo sfortunato che si dibatte nei mille problemi quotidiani di un’esistenza drammatica; uno scrittore suo malgrado, che scrive magnificamente ed è capace di squarci metafisici sorprendenti. Van Gogh è convinto della necessità di ragionare sulla pittura a partire dalle parole.



Uomo colto – che maneggia la Bibbia come Shakespeare – Vincent si sofferma sovente sulla necessità di imparare a leggere per imparare a vedere, e viceversa. A fronte dell’intuizione baudelairiana che vuole la pittura moderna quale ininterrotta rêverie, Van Gogh, scrive ancora Guégan, «inverte, a modo suo e a proprio uso e consumo, il vecchio principio oraziano dell’ ut pictura poësis e si chiede come impadronirsi della superiorità del poeta, che consiste nella folgorazione delle immagini e nella loro capacità di illuminare istantaneamente lo spirito».

Questo è il corno alto, sublime della questione. Poi c’è il pittore terragno, che ama alla follia Millet, gli zoccoli ai piedi e la terra che sta sotto. E che quando raffigura i mangiatori di patate, vuole restituire l’idea «di come questa gente (…) avesse zappato la terra con quelle stesse mani poggiate nel piatto. Il quadro evoca quindi il lavoro manuale e l’idea che questi contadini si siano guadagnati onestamente il proprio cibo». Per ottenere tale risultato è necessario individuare con il massimo scrupolo il colore preciso della terra e dei volti di chi la lavora.



Ed ecco Van Gogh che cerca la “nota” giusta e domanda a Theo con fare imperioso: «lo sai cos’è un ton entier e cos’è un ton rompu? Certamente sei in grado di vederlo in un quadro, ma saresti ugualmente in grado di spiegare cosa vedi? ». Aggiungendo: «Le leggi dei colori sono indicibilmente belle proprio perché non lasciano alcuno spazio al caso». Così come non crediamo più ai miracoli, né a un Dio «capriccioso e dispotico che salta di palo in frasca», allo stesso modo in arte «bisognerebbe non dico abbandonare le vecchie idee del genio innato, ispirazione eccetera, ma analizzarle per bene, verificarle e cambiarle notevolmente ».

Basterebbe questo breve passo a smontare il cliché del Van Gogh tutto follia e sregolatezza. La pittura è studio, applicazione, ricerca. È fatica, come fanno fatica i contadini quando lavorano i campi.


La Repubblica – 18 ottobre 2014

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