03 marzo 2015

ICONOCLASTI IERI E OGGI


Dirck van Delen 1566

F. Hogenberg




Riprendo dal bel sito https://georgiamada.wordpress.com/2015/03/02/iconoclastia-dei-calvinisti/ l' articolo interessante di Silvia Ronchey sull’iconosclastia, che non è prerogativa di quelli dell’isis ma che a periodi alterni appartiene a tutte le religioni soprattutto a quella cristiana. Basti ricordare le rivolte calviniste del 1566 con assalti alle chiese cattoliche e distruzioni di immagini sacre. Gi episodi sono stati immortalati da pittori e incisori. Famose le opere dell’incisore tedesco Frans Hogenberg che narra la furia iconoclasta dei calvinisti nella sommossa del 20 agosto del 1566 e di Dirck van  Delen


I  martelli dell’Is che si abbattono sulle statue di Mosul hanno radici in secoli lontani. Più profonde nel cristianesimo che nell’Islam ICONOCLASTIA Il fanatismo politico che si nasconde dietro la furia teologica
di Silvia Ronchey


Repubblica 28 febbraio 2015, pp. 62-63

È DIFFICILE ammetterlo, mentre i martelli dell’Is si abbattono sulle statue del museo di Mosul, ma la più massiccia e vandalica distruzione di statue nella storia dei conflitti religiosi della civiltà mediterranea non si deve all’islam, né agli arabi né ai turchi né ai puristi wahabiti, e neppure ai riformatori protestanti dell’Europa cinque e seicentesca. I responsabili furono i condottieri cattolici della Quarta Crociata, che nel 1204 conquistò Costantinopoli. Un elenco delle statue distrutte durante ma soprattutto dopo il saccheggio fu stilato da Niceta Coniata, uno dei tanti intellettuali bizantini che assistettero agli eventi per poi fuggire dalla barbarie dei latini mettendo in salvo il loro carico di cultura.
Nella descrizione che Niceta fa della caduta della polis spicca la descrizione struggente delle antichissime statue bronzee del Foro di Costantino e dell’Ippodromo, sistematicamente distrutte dai crociati, fatte a pezzi e fuse.
Che cosa c’entrano i crociati con l’iconoclastia, ossia con la distruzione (dal greco klao, rompere) delle immagini (in greco eikones)? Nulla. Anzi, fu proprio il papato di Roma il primo e maggiore nemico di quella posizione dottrinale che tra l’VIII e il IX secolo fu adottata dagli imperatori dello stato bizantino, il più grande e civile del medioevo mediterraneo ma soprattutto il grande rivale del papato. L’iconoclasmo bizantino, nella sua condanna teologica delle immagini, si rifaceva a una doppia tradizione. Da un lato al cosiddetto aniconismo giudaico, trasmesso dall’ebraismo al giovane Islam, ma anche, ben prima, al giovane cristianesimo. Il suo fondamento stava nella proibizione biblica di riprodurre l’immagine divina, e difatti nell’iconoclasmo bizantino tornarono in voga gli scritti degli apologeti dei primi secoli cristiani, che si scagliavano contro l’idolatria e addirittura proibivano ai fedeli di svolgere la professione di pittore o scultore.
D’altro lato, sul piano filosofico, l’iconoclasmo era un’espressione estrema della filosofia platonica e della sua condanna dell’immagine in quanto “copia di una copia”, essendo il mondo sensibile solo una copia di quello delle idee. Peraltro i promotori dell’iconoclasmo, gli imperatori isaurici, non promossero la distruzione di icone, ed è stato recentemente messo in dubbio perfino che Leone III Isaurico abbia distrutto l’immagine del volto di Cristo sulla Chalké, sostituendola con una croce, come la propaganda degli iconoduli, i sostenitori delle immagini, ha tramandato. In ogni caso, la controversia restava interna alle dispute dottrinali del cristianesimo. Gli iconoduli condannano l’iconoclastia come eresia cristologica, considerando la rappresentazione di Cristo lecita in quanto proclamazione del dogma dell’incarnazione. La sottile disputa sfocerà in un nuovo statuto dell’immagine che si affermerà parallelamente al diffondersi dell’aristotelismo nella cultura bizantina: l’icona è ammissibile e non assimilabile all’idolatria solo se non intende rappresentare naturalisticamente la figura sacra, ma promuovere la riflessione teologica sulla sua essenza sovrasostanziale. Secondo la definizione conciliare: «Chi venera l’icona vi venera l’ipòstasi di colui che vi è inscritto », dove si usa il verbo “inscrivere” per distinguere questo tipo di rappresentazione da quella propriamente figurativa.
Avallare la rivendicazione ideologica dell’Is, che riconduce i vandalismi di Mosul alla tradizione dell’iconoclastia islamica, è tanto storicamente rischioso quanto parlare di medioevo in riferimento alla barbarie integralista delle frange estreme dell’Islam contemporaneo. Il medioevo è stato lungo, multiforme e complesso. La tolleranza araba verso chi rimaneva fedele al proprio culto era proverbiale. Quando nella primavera del 638 il califfo Umar ibn al-Khattab, successore del Profeta, conquistatore di Gerusalemme, era entrato nella città santa, aveva mostrato il massimo rispetto per i monumenti delle due religioni conquistate. Aveva visitato la basilica bizantina dell’Anastasis. Si era fatto accompagnare al tempio dei giudei e nel vederlo ridotto a un deposito di rifiuti si era addolorato e aveva preso a ripulirlo. Quando nella primavera del 1453 Mehmet II Fatîh, conquistatore di Costantinopoli, entrò nella Città delle Città, fece risparmiare i palazzi e le chiese e la Polis, una volta sottomessa all’islam, rimase la città conquistata con più altari consacrati alla religione dei vinti.
La distruzione delle statue di Mosul da parte dell’Is, così come quella dei Buddha di Bamiyan nel 2001 da parte dei talebani, non rientra nell’ambito della teologia né in quello dell’iconoclastia religiosa, ma nella storia, purtroppo densissima, della cosiddetta iconoclastia politica, termine oggi in uso per indicare un fanatismo di stampo religioso divenuto strumento di lotta politica eversiva. Ben prima dell’inizio dell’iconoclasmo la chiesa cristiana ne aveva dato prova, ad Alessandria d’Egitto, nel 392, quando le milizie integraliste, guidate dal patriarca Teofilo, avevano distrutto il simbolo della tradizione religiosa pagana, il Serapeo. Come scrisse allora Eunapio: «Stringendo d’assedio i luoghi sacri, accanendosi rabbiosamente sulle sante pietre e sui simulacri di marmo, fecero guerra alle statue, sgominandole come avversari che non potevano opporre resistenza».
Il patriarca cristiano fece anche decapitare con una scure la monumentale statua di Serapide, opera di Briasside. Come ha scritto Edward Gibbon nella sua Decadenza e caduta dell’impero romano : «Si tratta di eccessi che sarebbe ingiusto imputare alla religione di per sé; ma è bene lavare dall’accusa di ignoranza i poveri arabi, le cui traduzioni ci hanno conservato le meraviglie della filosofia, della medicina e delle scienze greche, e le cui opere fendevano coi loro raggi splendenti le brume ostinate dell’età feudale »
Repubblica, 28 febbraio 2015, pp. 62-63, nel sito di Ronchey e anche in pdf con l’immagine.

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