
Anselm Kiefer, La forma del pensiero antico (gm)
Negli ultimi due anni la pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger ha suscitato un dibattito molto vivace. Mimesis ha da poco pubblicato un volume collettivo intitolato I Quaderni neri di Heidegger, a cura di Donatella Di Cesare. Ne fa parte il saggio di Peter Sloterdijk di cui pubblichiamo un estratto
Imprigionato nei Quaderni neri
In Fichte si deve scorgere il fondatore 
della filosofia della storia, sia sotto un profilo cronologico sia sotto
 un profilo logico. Nella sua opera del 1804 I tratti fondamentali dell’età presente
 Fichte descrisse lo schema della storia mondial-filosofica come quel 
processo del mentale perdersi e ritrovarsi, che diventò matrice di tutto
 ciò che più tardi, in diverse declinazioni, e gradi differenti, fu 
chiamato filosofia della storia, processo progressivo, storia dello 
spirito e infine storia dell’essere.
In quell’opera Fichte delinea uno schema
 della storia spirituale del mondo in cinque gradi. Spetta un rango 
intermedio all’epoca presente, concepita come terzo atto del grande 
dramma. Il presente coincide con una crisi di civiltà senza quartiere. 
Nel terzo stadio dello spirito Fichte vuole riconoscere «l’epoca della 
piena peccaminosità», cioè l’era della estraneazione assoluta e della 
sottrazione violenta del singolo da ogni verità unificante. Questo 
eccesso di critica torna in Heidegger che, in una citazione quasi 
letterale da Fichte, definisce il proprio presente «l’età del pieno 
oblio dell’essere». La prossimità di Heidegger a Fichte affiora inoltre 
nella possibilità, prospettata sia da lui che dal furioso idealista, di 
pensare il risanamento dell’«oblio» (della «peccaminosità») solo come 
opera del ricordo. Fichte concepisce ovviamente il ricordo come l’esito 
del progresso del genere umano: è così che, nel quarto e nel quinto atto
 del dramma, l’umanità riesce a liberarsi dall’aberrazione. Dopo la 
discesa sino alla estraneazione estrema, è l’ascesa in programma verso 
la riappropriazione.
Heidegger, invece, delinea all’orizzonte
 un ricordo salvifico inteso come evento di cui, da parte umana, non si 
può disporre. Non siamo noi a ricordarci, quando ci piace e pare di 
ricordarci. L’Essere si ricorda di noi, mediante noi – o forse no. 
Questa prospettiva non vale, inoltre, per gli appartenenti a quel 
genere, cui non è possibile comunque prestare soccorso, bensì solo per 
quei “pochi” assennati, che chiama anche gli «unici».
Alla fine degli anni Trenta Heidegger 
sviluppò una forma di critica del presente che non ha quasi precedenti. 
Dopo il 1933 aveva sperimentato come i suoi interventi dilettanteschi 
negli sconvolgimenti politici del tempo erano finiti sotto le ruote 
delle reali battaglie di potere. Fu in seguito che emerse un nuovo modo 
di discutere la situazione del presente in cui il suo errore avrebbe 
dovuto divenire la chiave per decifrare la storia del mondo. Si possono 
leggere i passi corrispondenti dei Quaderni neri come una rimobilitazione delle tesi sul “si”, sul Man, in Essere e tempo. Verso la fine degli anni Trenta si produce nel Man una polarizzazione dove i molti e i pochi si separano, senza cessare per questo di essere Man. Nelle Überlegungen di Heidegger risuonano le reminiscenze dell’antica distinzione tra hoi polloi e hoi oligoi.
 Se nel pensiero classico, però, i molti giocano la parte della 
volgarità e dell’esistenza vegetativa, mentre i pochi rappresentano 
l’aristocrazia e l’esistenza piena di spirito, con un golpe Heidegger 
finisce per abrogare questa distinzione. Deluso dalla sua escursione 
nella “politica”, stabilisce che i pochi (in termini moderni le élites),
 quanto a smarrimento, non sarebbero da meno dei molti. Al contrario, i 
pochi – gli oligarchi della modernità – rappresentano la punta della 
lancia di quel che tradizionalmente si imputa ai molti inconsapevoli. I 
pochi sono i molti, ma nel modo peggiore.
Per Heidegger l’essenza della modernità,
 così come si rivela nel bolscevismo, nel nazionalsocialismo, 
nell’anglicismo o nell’americanismo, è una oligarchia onnicomprendente. 
Questa nuova tesi sull’oligarchia consente a Heidegger di proporre le 
sue famigerate equiparazioni tra grandezze ineguali: comunismo e 
liberalismo sono tutt’uno. L’agricoltura meccanizzata e la produzione di
 cadaveri nei lager vengono dalla stessa fonte. Fascismo e democrazia 
sono la stessa cosa. «Gli antifascisti sono gli infimi schiavi di quel 
grande fascismo che in America e in Russia si chiama democrazia»[1]. Il mondo viene accecato da differenze apparenti e perciò trattenuto dal riflettere su ciò che è propriamente vero.
I Quaderni neri appartengono al
 patrimonio della de-differenziazione. Gli oligarchi sono per Heidegger 
non già i ricchi (per i quali il termine adeguato sarebbe plutocrati), 
bensì tutti coloro che figurano in cima a quelle piramidi di potere 
dimentiche dell’essere. La moderna oligarchia costituisce un mob ontologico che non si ferma davanti a niente e a nessuno[2]. E non importa che parli inglese, russo, tedesco o francese.
Il dominio dei pochi, democraticamente 
mascherato, non sarebbe certo praticabile, se la tendenza dell’epoca, 
l’oblio dell’essere che agisce autorizzando tutto, non gli spianasse la 
strada. Quel mob di pochi, che governano per lo più in modo 
anonimo (sebbene di tanto in tanto mandino avanti portatori di nomi di 
culto come Stalin o Hitler), è a sua volta solo strumento di una 
tendenza più comprensiva, di qualità “ontostorica” e con ciò destinale. 
Convenzionalmente viene chiamata “tecnica”. Heidegger germanizza 
l’espressione traducendola con la parola idiosincratica Machenschaft,
 macchinazione. Attraverso le accezioni dell’espressione tedesca la 
tecnica viene stigmatizzata come fenomeno dell’ingiustizia ontologica.
Se la modernità è l’epoca della Machenschaft,
 senza aggettivi, la questione che si pone è se sia concepibile un tempo
 “dopo di essa”. Dato che le rivoluzioni sono realizzate, secondo 
natura, in modo macchinoso, la svolta verso un reale “poi” dovrebbe 
compiersi senza macchinazione. Chi sarebbero, però, gli agenti, ovvero i
 mediatori, e i mezzi, di questa rivoluzione non rivoluzionaria? Anche 
per questa domanda Heidegger sembra aver pronta una risposta, seppure 
molto provvisoria e insufficiente. Una volta che la classica distinzione
 tra i molti e i pochi è divenuta ai suoi occhi inutilizzabile, occorre 
fare una scelta ulteriore tra i pochi, per trovare quei rari che non 
sarebbero gli agenti della macchinazione.
I rari, scelti tra i pochi, vengono chiamati nei Quaderni neri
 gli «unici». Qui Heidegger sembra non darsi insolitamente cura della 
terminologia, come se non sapesse di calcare, con quella espressione, il
 terreno sdrucciolevole dello stirnerianismo. Che avesse presente il 
pericolo? Forse avrà pensato a Kierkegaard piuttosto che a Stirner. Il 
filosofo danese aveva osato opporre il singolo credente all’universo 
storico della chiesa, anzi all’intera communio sanctorum, per 
sganciarlo dal consenso del collettivo. Quel che in Kierkegaard si 
chiama “fede” è un “salto”, un golpe contro la verosimiglianza e suoi 
gruppi comunitari d’ausilio. La chiesa danese del 1848 è il prototipo 
del Man, del “si”. Sotto questo aspetto Heidegger resta un 
kierkegaardiano e, come tale, un antisociologo senza speranza. L’unica 
“società”, a cui può pensare, sarebbe una “contro società” di 
non-seguaci della macchinazione, fra loro quasi svincolati. Come 
dovrebbe essere immaginata? Forse come una rete impercettibile di 
altruisti che, dopo essere stati eletti vescovi, sono andati a 
rifugiarsi nelle stalle per le oche.
La critica di Heidegger al mondo 
presente riprende un motivo che originariamente era stato sviluppato da 
Agostino, il patriarca della critica cristiana all’egoismo. Non è 
difficile seguire il modo in cui la prima Inquisi-zione cattolica andò 
estendendo la critica, rivolta dapprima contro il satana ispirato 
dall’egoismo, a una critica moderno-scettica della soggettività, in 
seguito a una critica della razionalità e della volontà di potenza, per 
sfociare poi in una critica della macchinazione. Si fa strada qui l’idea
 che il mondo, nel suo complesso, sia una falsificazione. L’unica 
maniera per rimetter-lo a posto consisterebbe in una conversione 
integrale dei falsificatori. Hannah Arendt ha certamente ragione quando 
in Heidegger vede all’opera la tradizione sotterranea della antica gnosi
 occidentale. Solo che in Heidegger, al posto dello stolto demiurgo, è 
subentrata la soggettività intramondana. Che la falsificazione del mondo
 sia da imputare a un dio incompetente (che poteva esercitare la 
creazione solo come falsificazione di quel che doveva creare) oppure a 
una civiltà soggettivistica, non è in fondo decisivo per il giudizio 
sulla falsificazione. Significativo resta invece non divenire succubi 
del mondo falsificato e mantenere il ricordo del dio estraneo e 
dell’altro inizio che ha ispirato.
Non voglio mancare qui di onorare Heidegger come autore che ha introdotto nella filosofia lo slapstick[3]. Nelle Überlegungen XIII cita indirettamente Agostino che aveva definito il peccato in senso esistenzial-formale come incurvatio in se ipsum,
 incurvatura in se stessi. In Heidegger ciò è reso così: «L’avvitarsi 
della vita su se stessa è lo scatenamento dell’esperire nell’assenza di 
misura e di rango di un inarrestabile sorseggio»[4].
[…] Vorrei infine aggiungere alcune 
osservazioni sull’“antisemitismo” di Heidegger. A tal fine occorre 
muovere dalla sua teoria del linguaggio. Heidegger aveva capito che un 
segno non equivale a un segno, il linguaggio non equivale al linguaggio.
 Ai suoi occhi, o alle sue orecchie, c’è un linguaggio prima del 
linguaggio. Prima della molteplicità delle lingue, in cui si può dire 
questo e quello, si muove un lógos, che dice quell’Uno, che 
deve essere detto. Occorre figurarsi ciò nel senso che è necessario 
distinguere tra la lingua come medium della comunicazione condizionata e
 la lingua come medium della missione incondizionata.
Se il linguaggio è medium della missione
 incondizionata, allora ne risulta una conseguenza inquietante. 
Heidegger si vede proiettato al centro di questa inquietudine, dato che 
intravede una lotta tra varie assolutezze. Le missioni incondizionate 
sono inizialmente legate alle culture che impongono ai propri membri di 
assumerle come tali. In seguito le missioni vengono impartite da 
programmi spirituali che vanno al di là dei confini delle singole 
culture.
Tipici commissionari sono da sempre 
quegli individui, disponibili nella comunicazione mediatica, i quali 
dalle culture provengono. Si possono in fondo distinguere tre forme di 
discorso che affida una missione incondizionata. Anzitutto quello 
profetico, nel quale il singolo essere parlante viene chiamato a essere 
mezzo degli interventi di Dio nelle vicende della vita. A questo si 
aggiunge inoltre il discorso poetico evocativo che si rivolge a coloro 
che, nelle culture, sono dotati di sensibilità, per comunicare loro una 
disposizione d’animo comune. E infine vi è il discorso filosofico che 
mira al consenso degli avveduti (per non trattare qui la loro mediale 
figura di decadenza, cioè la moderna produzione 
ideologico-propagandistica di rarefatto etere di menzogne).
I tre lógoi vengono associati a
 tre ambiti di provenienza, ovvero a tre contesti funzionali. Al modo 
profetico sono da annoverare i discorsi ebraici, cristiani e islamici. 
Qui emerge che il monoteismo non è possibile senza collisioni 
interprofetiche. Al modo poetico corrispondono le opinioni pubbliche 
nazionali i cui membri sono in grado di comprendere entusiasmanti e 
spesso intraducibili tonalità musicali della lingua. La parola di Goethe
 Weltliteratur, “letteratura mondiale”, evoca la concertante 
coesistenza delle poesie. È la volta, quindi, del discorso filosofico, 
che pensa di poter essere efficace ovunque. Viene però privato della sua
 efficacia dalla entropia delle inesauste discussioni laceranti e, alla 
fine del giorno accademico, svanisce in scepsi.
Su questo sfondo si staglia il 
personaggio tragicomico di Heidegger. Pronto a fungere da medium 
dell’Essere, che voleva parlare, fu incapace di distinguere persino i 
modi contradditori della medialità. Alla fin fine sembrava come se, in 
un confuso slancio di profetismo, avesse voluto unificare, in un punto 
focale, filosofia e poesia. Per quel che attiene al rapporto tra 
profezia e filosofia, la sua ambizione non era del tutto priva di 
prospettive. In effetti si può intendere la filosofia come una forma di 
profezia concettuale, altrettanto entusiastica, altrettanto 
indispensabile, e di regola altresì vana. Sarebbe facile illustrare ciò 
nella produzione del neokantismo ebraico-tedesco, in particolare 
nell’opera di Hermann Cohen.
Heidegger rovinò tutto, facendo la caricatura del profetismo ebraico ridotto a una divinazione al servizio della Machenschaft.
 Non entro qui nel merito della questione se questa cruda e sbagliata 
concezione vada attribuita al complesso dell’“antisemitismo”. Nel 
contesto dei Quaderni neri gli ebrei non compaiono come attori,
 bensì come coloro che danno l’input a fatalità che avrebbero comunque 
potuto abbattersi sul mondo.
Nel contesto attuale si dovrebbe dire 
che la scortesia di Heidegger verso «ciò che è ebraico» era espressione 
di una inesplicabile rivalità profetologica. Se Heidegger fosse stato 
capace di un confronto aperto, avrebbe dovuto dire e provare che il 
veggente dello spazio greco-germanico vede e sa più del profeta del 
Medio Oriente con tutti i suoi discendenti ecclesiali. Heidegger non ne 
fu capace. Restò lui stesso, da martinista qual era, essenzialmente un 
profeta cripto-ebraico che reca conforto ai perdenti della storia, agli 
umili e ai semplici. In questo ruolo gli resta una parola di conforto 
anche per il proprio esorbitante sé di un tempo, umiliato dal corso del 
mondo.
L’opera tarda di Heidegger costituisce 
un’opera d’arte del naufragio. È qui che mette allo scoperto le carte 
della sua impotenza. Cerca rifugio nella poesia, senza essere poeta. 
Quel che in ultima istanza postulava, senza poterlo dire esplicitamente,
 era diventare uno Isaia con la forza di parola di uno Hölderlin e 
quella di pensiero di un certo professore di Friburgo. Sembra che abbia 
trovato alla fine una via per perdonarsi il fallimento.
Chi era l’autore che in una poesia 
autobiografica aveva scritto: «Sappiamo di essere caduchi. Dopo di noi 
non verrà nulla degno di nota»?
[1] M. Heidegger, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), GA 97,
Klostermann, Frankfurt 2015, p. 249. Il passo è forse del 1946.
[2] Mob vuol dire in inglese ressa, moltitudine [nota del traduttore].
[3] Slapstick (abbreviazione di slapstick comedy) è un sottogenere del film comico.
[4] M. Heidegger, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), cit. p. 80.
Pezzo ripreso
Nessun commento:
Posta un commento