26 dicembre 2016

GIANFRANCO CONTINI ED ALTRI ESPONENTI DEL PARTITO D' AZIONE

Perugia, 1929 - Gianfranco Contini (a destra) con Aldo Capitini (a sinistra)

Gianfranco Contini. Una breve ma esaltante stagione politica

 Silvia Giacomoni 

Gianfranco Contini si definiva "antifascista frustrato". Nel 1989 ricordò a Ludovica Ripa di Meana (Diligenza e voluttà, Mondadori) la sua esperienza del 44 in val d'Ossola come rappresentante del Partito d' Azione. Per cinque settimane aveva lasciato Friburgo, dove insegnava da sei anni, e quell'esperienza, diceva, era stata "assolutamente esaltante": "La cosa più straordinaria è che la popolazione (...) era veramente entusiasta. E quando la val d'Ossola fu rioccupata, la gran parte della popolazione si rifugiò in Svizzera, e i fascisti trovarono la città deserta". Quanto al presente, affermava: "È forse ridicolo passare per moralista, ma io vorrei che si sentisse che esiste il prossimo". Cosa resta, ora, del Contini politico? "La stagione politica di Contini è stata breve ma molto intensa. E ci vorrebbe una messa a fuoco", dice Giovanni Pozzi, e lo sguardo gli si illumina di allegro interesse: "Lo farò io, un volumetto di Scritti politici di Gianfranco Contini anzi, di Scritti politici e morali. Lo farò per Adelphi, una cosa semplice, scritti ossolani e ticinesi, qualche altra cosa, e una prefazione".
Sono belli, gli scritti politici di Contini? "E di grande originalità: di un politico non professionale, dettati da premesse non ideologiche. Ci sono pagine sui giovani, sull'Europa, su Aldo Capitini, che sono riflessioni sulla moralità dell'azione. Per la parzialità delle informazioni che riceveva, le sue vedute politiche non sono tutte illuminate. Ma c'è grande attualità e freschezza nel modo di pensare politico con la doppia ispirazione morale e religiosa. La politica è l'arte del possibile, e lui ci mette un pensiero. Non vuole la politica pura, come non voleva la poesia pura, crociana. Non è mai vago, Contini, c'è sempre concretezza. Non c' è paragone con gli altri scrittori antifascisti che sono di cultura retorica, avvocatesca, meridionale. Qui siamo in Lombardia, di fronte a un intellettuale, che è critico militante di scelte molto esclusive, che è filologo nel senso stretto della filologia come tecnica testuale, e fa una parentesi... alla grande. In Italia non l'avrebbe mai fatto. Non c'erano luoghi, per farlo, in Italia".
Contini deve molto alla Svizzera e il ticinese padre Giovanni Pozzi, uno dei sette che si laurearono con lui a Friburgo, ne parla volentieri. L' università dei cattolici svizzeri, Friburgo, chiamò Contini alla cattedra di filologia romanza nel 1938. Contini ha 26 anni ed è celibe: per questo dato anagrafico non può insegnare in Italia. Friburgo è cruciale, per lui, anche sul versante politico. Dalla cattedra che è stata di Bertoni, di Monteverdi, di Migliorini, Contini scopre il cuore italiano della Svizzera nel canton Ticino, dove stringe amicizie, partecipa a una significativa giuria, recensisce il primo Pasolini e dà alle stampe Finisterre di Montale. Viene il 1943, l' armistizio, l'8 settembre, l'invasione dei rifugiati italiani ed emerge - dice Pozzi - "la solidarietà - poco ricordata - di una popolazione italiana che non appartiene all'Italia. In nome della cultura". Le università svizzere accolgono gli studenti italiani e i giornali ticinesi si riempiono di firme italiane. "Anche se c' era la censura, se la carta era razionata e i giornali erano esilissimi, fatti di due fogli, - ricorda Pozzi - tra il 44 e il '45 escono centinaia di contributi italiani". Firme disparate: da Montanelli che firma Calandrino a Franco Fortini, a don Gnocchi. In Cultura e azione, il supplemento del “Dovere”, quotidiano liberale radicale, che lui diresse dal febbraio al giugno 45, escono gli scritti politici del filologo, raccolti con altri da Renata Broggini nelle Pagine ticinesi di Gianfranco Contini (Salvioni). Cose straordinarie, come Noi e i tedeschi, uscito nell'aprile. Un articolo scritto per trasferire agli italiani il messaggio che Karl Barth, il teologo protestante di Basilea, rivolgeva ai connazionali complici del nazismo: "quanto più è religioso che l'uomo accetti le proprie colpe, piuttosto che affannarsi in ogni istante a proclamare la sua totale innocenza". Anche il Contini religioso è tutto da studiare.

la Repubblica, 28 gennaio 2000

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Dal quotidiano "Non mollare", Firenze 1946
  
Partito d'Azione. Quattro gatti in libertà
 Beniamino Placido



Ci si chiede spesso come faccia questo nostro paese, bellissimo e misterioso, a sopravvivere, a volte addirittura a prosperare: diviso com'è in bande che lo percorrono, lo aggrediscono, lo taglieggiano. Non mi riferisco soltanto alla P2: essa non è che l'ultima (per ora) incarnazione dell'indomabile tendenza degli italiani ad associarsi in bande, a proporsi - se del caso a imporsi - come banditi (anzi "banditti", come dicevano i viaggiatori stranieri dell' Ottocento, avidi del nostro pittoresco).
Com' è allora che questo nostro paese di "banditti" (o presunti, o aspiranti tali) se la cava sempre, riesce sempre a riemergere, non fa mai (quasi mai) naufragio? Di spiegazioni ne sono state proposte tante, tutte ampiamente imperfette. Forse bisogna avere il coraggio di proporre un' altra ipotesi, che quest'ultimo libro di Norberto Bobbio Maestri e compagni (Passigli, pagg. 300, lire 25.000) autorevolmente giustifica. L' ipotesi è che non tutte le bande sono cattive. Che ci sono state e ci sono nel nostro paese - a fare da contraltare a quelle cattive e pessime - delle "controbande" di uomini corretti, interessati alla giustizia ed al buon funzionamento delle istituzioni. Anzi: alla Giustizia e alla Libertà.
Dell'esistenza di una almeno di queste associazioni segrete (ma non tanto) siamo sicuri. È quella di cui si intravede il profilo in proprio quest' ultimo libro di Bobbio: la banda del Partito d' Azione. Alla sua ideologia, alla sua "cultura", alla sua area di influenza appartengono i "maestri e compagni" descritti in queste pagine: da Piero Calamandrei ad Aldo Capitini, da Eugenio Colorni a Leone Ginzburg, da Augusto Monti a Gaetano Salvemini. E vi appartiene in prima linea Norberto Bobbio, maestro, compagno, punto di riferimento essenziale di noi tutti, da sempre.
Per chi non lo sapesse, per chi - nato tardi - non l'abbia ancora imparato, va spiegato: che la "banda" del Partito d'Azione nacque negli Anni Trenta come una confraternita intellettuale interessata al liberalsocialismo di Carlo Rosselli; che si impegnò nell'antifascismo militante; che diede un contributo essenziale alla Resistenza con le formazioni di "Giustizia e Libertà" (erano quattro gatti, ma quando venne il momento scesero tutti e quattro in campo per fare il loro dovere, anche se penoso, anche se faticoso. Erano quattro gatti, ma si diedero tanto da fare da lasciare l' impressione di essere molti di più).
Nel dopoguerra, i quattro gatti intellettuali liberalsocialisti fondarono il "Partito d' Azione": il "ridicolo partitino d' Azione", come lo definiva sbrigativamente Guglielmo Giannini. Se ogni cosa piccola è di per sé ridicola, allora il fondatore dell' "Uomo Qualunque" aveva ragione. I quattro gatti del Partito d' Azione si erano contati, alle prime elezioni del dopoguerra, ed avevano constatato - con amarezza - che molti li stimavano, pochi li votavano. Per questo (anche per questo) poco dopo, al congresso di Roma del 1947, il Partito d'Azione si sciolse. La componente più liberale (Parri-La Malfa) si avvicinò al Partito Repubblicano. La componente più socialista (Riccardo Lombardi in testa) confluì nell'area socialista.
Questo dicono i libri di storia. Ma mentono. I quattro gatti del Partito d'Azione si sciolsero come partito, ma rimasero uniti (magari senza dirselo, magari senza saperlo) come "setta", come "banda". Si dispersero, si disseminarono un po' in tutti i partiti politici, ma continuarono ad ammiccarsi a riconoscersi, a parlarsi, a polemizzare fra di loro. Ad esercitare la loro funzione di vigilanza critica ovunque si trovassero. I nostri nemici lo hanno sempre saputo.
Dico "nostri" con una punta di imbarazzata, evidente immodestia. La mia prima militanza politica, poco più che infantile - ma entusiasta, dopo lo svezzamento dal fascismo - si è svolta nel Partito d'Azione. Ma non avendo potuto (o saputo) far nulla allora, so che passerò la vita a cercare di meritarmela, quella giovanile iscrizione alla "banda". I nostri nemici, dicevo, lo hanno sempre saputo. Hanno sempre individuato gli "azionisti" a colpo sicuro, dovunque fossero andati a finire: eccoli lì gli intellettuali, gli esigenti, i rompiscatole, i "visipallidi". Un intellettuale esigente, intransigente, qualche volta provvidenzialmente "rompiscatole", dotato oltretutto di un viso pallido ed arcigno, è Norberto Bobbio. Eccoli lì, i "pazzi malinconici", i visipallidi azionisti che "non sanno quello che vogliono, ma lo vogliono subito".
Ebbene, il libro di Norberto Bobbio fa giustizia, definitivamente, di questa vecchia ridicola accusa. Sicché non sapevano quello che volevano, uomini come Piero Calamandrei ed Augusto Monti, come Ferruccio Parri e Guido Calogero, come Tristano Codignola ed Ernesto Rossi? Andiamo! Lo sapevano benissimo. Volevano la democrazia. E la volevano subito perché bisogna volerla sempre; anzi bisogna costruirla sempre; perché ogni giorno la democrazia è insidiata, ogni giorno è in pericolo. È la nostra tela di Penelope. Qualcuno delle bande avverse nottetempo la disfa. E noi, che siamo una banda ma lavoriamo alla luce del sole, ogni giorno riprendiamo in mano la tela.
È possibile descrivere, sia pure sommariamente, la cultura del Partito d' Azione, quale risulta da queste memorie di Bobbio? Ci si può provare, isolando tre punti. Primo: nella cultura del Partito d'Azione non c'è posto per le vongole. Preciso: nessuna prevenzione nei confronti di questo benemerito mollusco. Ma una ferma avversione per "l'Italia alle vongole". Suppongo che qualche lettore si sia sorpreso quando ha incontrato questa espressione nell'articolo scritto da Eugenio Scalfari in morte di Berlinguer (la Repubblica, 10 giugno 1984). E forse una spiegazione era necessaria. Eccola: "l' Italia alle vongole" era una espressione cara ai visipallidi del Mondo quando - negli Anni Cinquanta e Sessanta - volevano indicare - e criticare - l' Italia mangiona e pasticciona, approssimativa e compiaciuta, delle grandi scorpacciate (gastronomiche e ideologiche) e delle digestioni sonnolente.
Ma qual è l'antidoto alle vongole? Il peperoncino, mi immagino. Ne ho avuto conferma apprendendo qualche giorno fa, in un "ricordo" di Gaetano Afeltra (“Corriere della Sera”, 5 giugno) che Raffaele Mattioli, il grande banchiere-letterato amico del Partito d' Azione, si portava sempre appresso un vasetto di peperoncino essiccato, e lo offriva ai banchieri di New York, e lo offriva ai professori di Cambridge. Certo: perché il peperoncino (che assumo qui nel suo valore simbolico, come ho fatto prima con le vongole) è un condimento aspro, abrasivo: stimola la digestione, tien desto l'intelletto. Saremo "visipallidi" ma stiamo meglio in salute dell'italiano qualunquista, pasciuto e pletorico. Secondo: in questa cultura non c'è posto per le "filosofesserie", come le definiva Gaetano Salvemini, al quale Bobbio dedica uno splendido ritratto. Non c'è posto per quel pasticciato delirio pseudofilosofico (tanto diffuso anche oggi) che funziona, diceva Salvemini, come un filtro alla rovescia: in cui le idee entrano chiare ed escono confuse. Gli uomini come Bobbio amano la chiarezza, la precisione, la ragione. Terzo: gli uomini come Bobbio amano la democrazia. È la loro vera passione. Ma non pensano che essa si esaurisca negli istituti che ne garantiscono il funzionamento formale. Questi istituti (ovviamente irrinunciabili) hanno senso se aiutano a costruire una democrazia sostanziale, a promuovere l'uguaglianza fra gli uomini: Giustizia e Libertà, per l'appunto.
Ed è questa tensione alla democrazia piena che ispira a Norberto Bobbio le pagine più belle. Alle quali rinvio. Ma spero di aver fatto abbastanza per segnalare l'esistenza di questa "controbanda" di visipallidi. Che c'è. Che esiste. Che resiste. Che ha un suo Capo. Anzi, un Grande Vecchio. Noi visipallidi siamo pallidi anche perché - confessiamolo - abbiamo paura. Di comportarci male, in qualche circostanza difficile che potrebbe sopravvenire, domani. Ma finché ci sarà questo Grande Vecchio che è, oltretutto, il più giovane di tutti, avremo sempre un po' meno paura. Un po' più di speranza. Un po' più di fiducia.

“la Repubblica”, 2 agosto 1984  

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