08 settembre 2021

IL CINEMA DI QUENTIN TARANTINO

 



IL CINEMA DI QUENTIN TARANTINO

Pubblichiamo un pezzo uscito su Linus, che ringraziamo.

“Stop! La scena era perfetta. Ma ne giriamo un’altra lo stesso.

Perché? Perché noi AMIAMO fare i film!”.

E’ il mantra da set di Quentin Tarantino, urlato all’intera troupe con felicità da invasato. Dilatandogli occhi spiritati alla Gloria Swanson, come chi crede fino in fondo alla finzione in cui ha scelto di abitare.

Girare una sequenza, per il regista di Knoxville, è come assolvere ad un rito, offrire il proprio tributo di celluloide alla macchina espansa del cinema. Un universo parallelo che Tarantino vive con devozione ossessiva, maturata nei drive in di Los Angeles, negli anni settanta. E’ lì, nella prima adolescenza, che Quentin comincia a scavare i suoi cunicoli teorici. Rintracciando, in una personalissima mappatura cinefila del globo, prossimità insospettabili tra i sobborghi della blaxploitation, le Milano calibro nove, e le Hong Kong più scatenate, passando per l’Almeria metafisica ridisegnata da Sergio Leone come una Monument Valley purgata dall’epica di frontiera e ridotta ad arido palcoscenico verghiano. Pieno di villains barocchi, quasi operistici, ripresi nella frontalità estrema dei primissimi piani. Give me a sergioleone è uno dei suoi comandi fissi, all’operatore.

“Figli di puttana, ma non banali” chioserà da adulto, Tarantino, rievocando la sua fascinazione per i bounty killer della Trilogia del dollaro. Antenati diretti dei personaggi tarantiniani, come le canaglie scerbanenchiane di Fernando Di Leo, bravo quasi come Don Siegel a raccontare delinquenti controversi, spesso logorroici e inclini a girare in coppia, come i comici. Con facce, look e battute indimenticabili, perfette per ravvivare, con piccoli lampi di teatralità, i tempi morti dell’attività criminale. Un pantheon di feticci e mitologie, in cui Tarantino non ha mai smesso di credere fino in fondo, risacralizzandone codici e linguaggi, rielaborandoli con l’intensità amorosa di un bambino eterno. Denunciando da subito la forza seducente del suo sogno: sprofondare al di là dello specchio, nell’universo cinema che gli preesiste, ma che lui ha assorbito nella sua interezza. Aggiornandolo quotidianamente come un palinsesto smisurato, da attraversare fluidamente, mescolando epoche, generi, latitudini, tra connessioni e analogie.

Tutto viene cannibalizzato nella sua macchina tritalinguaggio, ma digerito in uno stile così personale, da eludere il manierismo. Non c’è spazio per le strizzate d’occhio e i citazionismi compiaciuti, snobismi da studentato cinephile. Dal suo ingresso in scena, Quentin ha ridotto la ricerca dei suoi plagi, presunti, realio truccati da omaggio, a pratica onanistica per guardoni. Tutto si impasta, alla fine, diventando squisitamente tarantiniano. “Gli artisti bravi copiano, quelli grandi rubano”: nella sua parafrasi di Picasso, Tarantino ha enunciato da subito le sue intenzioni. Ruba per eccesso d’amore, strappando brandelli di cinema a morsi, come faceva Jean Genet con la letteratura. O Edward Bunker, lo scrittore rapinatore, uno dei totem viventi ingaggiati da Tarantino in Reservoir Dogs. Un esordio al cinema che ha quasi trent’anni: i tempi sono maturi, per ripercorrere i suoi primi passi, abbozzando un Ritratto dell’artista come giovane cane (da rapina). Parafrasando Dylan Thomas che, a sua volta, con piglio quasi tarantiniano, confessò di aver plagiato James Joyce, con quel titolo impertinente, “al fine di fare soldi”.  Partiamo dalle origini: come si traduce Reservoir Dogs? Il primo titolo della sua filmografia si presenta già enigmatico, come una oscura dichiarazione di metodo.  Non vuol dire nulla, in sé. Eppure evoca, attiva una reminiscenza nella mente degli spettatori. Cani da ricettacolo, letteralmente? Oppure va considerato slang, e sta per poliziotti infiltrati, sotto copertura? Secondo una teoria leggendaria, viene dal periodo in cui il giovane Tarantino lavorava da commesso nella Manhattan Beach Video Archives, storica videoteca di Los Angeles. Lo avevano assunto per la sua preparazione da Rischiatutto su titoli, date e generi. Reservoir dogs deriverebbe da una crasi di quel periodo, partorita di getto,  ricollocando le videocassette sugli scaffali. Fantasticando sui film da fare, fonde arbitrariamente due titoli che gli passano per le mani: Aurevoirles enfants e Straw Dogs

Mai del tutto confermata dal regista, questa forse è solo una storiella da dare in pasto ai giornalisti. Ma rende bene l’idea della bulimia anarcoide di schegge intere di storia del cinema, assimilata senza steccati né gerarchie.

Il titolo di Louis Malle, storia di ragazzini su cui incombe la deportazione nazista, torna buono per una pura assonanza musicale, di superficie. Da incollare sul film di Peckinpah, altro padre nobile di Quentin, cantore della vendetta brutale e della ferinità della natura umana. Ma i cani da rapina tarantiniani entrano in scena, e nella storia del cinema, seduti a tavola, in un bar. La prima Ouverture tarantiniana rimane anche una delle sue sequenze più pregnanti, distintive.

La macchina da presa li scopre ad uno ad uno, i suoi rapinatori in pausa pranzo, girando lenta attorno al tavolo, come uno squalo attorno alla preda. O meglio, come un regista, intorno ai suoi attori, durante una lettura del copione. Coglie i suoi gangster in piena quotidianità: incravattati di nero, in camicia bianca, un po’ Blues Brothers e un po’ sicari di John Woo, immersi in una rilassatezza greve, che trasuda dai loro dialoghi. Discorsi apparentemente futili, come l’esegesi fallocentrica di Like a virgin di Madonna, la discrezionalità della mancia alle cameriere, una vecchissima agendina piena di donne ormai perdute: temi intrecciati da prologo teatrale. Perfetti per tratteggiare le personalità, calcolatrici, cameratesche e psicotiche, di questo mazzo di pendagli da forca così ben assortito. C’è Tarantino in persona, con il volto già caricaturale, da nemico di Dick Tracy, anche se non ha nemmeno trent’anni. C’è Harvey Keitel, con ancora addosso la devianza suburbana del coevo cattivo tenente, qui vagamente umanizzata dall’empatia. Spalleggiato dall’apatia nervosa di Tim Roth, da spia che si finge amico, come il Guildenstern che è stato per Stoppard.

Spicca a centro tavola la giovialità psicotica di Michael Madsen, fan del Lee Marvin più estremo, come scopriremo. C’è anche la faccia segnata, da vecchia conoscenza delle forze dell’ordine, di Eddie Bunker, comprensibilmente nauseato da Papa don’t preach. Chris Penn appare in una tuta lucida da pusher, che ne contiene a stento gli eccessi, mentre Steve Buscemi comincia a scoprire i denti, da iena avida e razionale qual è. Tutto ruota attorno al cranio gigantesco, da pianeta morto, o da Cosa dei Fantastic Four, di Lawrence Tierney: uno dei Dillinger rimasti più impressi, nella memoria degli americani.

E l’inizio di un film di hold up paradossale, che amputerà del tutto la rapina, ingigantendo i postumi del colpo fallito, con i rapinatori chiusi con lo spettatore in un magazzino claustrofobico, a rimeditare su chi li abbia traditi. Tarantino enuncia, da subito, il suo amore per gli attori. Da ragazzino, voleva essere uno di loro, più che un regista, “perché a quell’età si desidera sempre essere quello che si vede”.

Non ha mai frequentato una scuola di cinema, ma ha avuto per sei anni ottimi insegnanti di arte drammatica. Gente come Allen Garfield, attore brillante, allievo del Lee Strasberg Theater Institute. Ed è proprio Stanislavskij ad essere evocato, nel lungo flashback de Le iene. Tim Roth, per mescolarsi ai criminali, deve creare un character, costruirgli un corpo immaginario, per poi scivolarci dentro, con naturalezza. Deve rendere credibile la sua fedina penale sporca, riempiendo la sua storia di dettagli attraenti, e verosimili, in un cadenzato impasto di ricordi personali, memoria collettiva e immaginazione pura. Dee saper affabulare, riempiendo un tempo morto della vita criminale, per distrarre i gangster da sospetti e pensieri, familiarizzando con loro, sospendendone la naturale incredulità. Proprio come fa Tarantino, con il suo cinema. L’universo tarantiniano ha sempre mostrato una sua compatta coerenza, una strana forma di iperrealismo, legata all’accumulo di oggetti d’uso e di culto popolare, affioranti nei dialoghi e nella scenografia.

Come un artista pop, sulle orme di Lichtenstein, Tarantino seziona le figure, scompone le forme, dilata all’eccesso particolari apparentemente insignificanti. Frammenta e ricompone, come nei fumetti: un’operazione analoga al suo smontare e rielaborare la cronologia narrativa. “Le risposte prima, le domande dopo” è la semplificazione teorica del suo metodo, che scardina e spiazza la linearità americana. “Non ci sono flashback, in Reservoir Dogs, ma solo capitoli, come in letteratura, necessari a rompere il tempo reale, e a cesellare, con la giusta gradualità, i personaggi incastrati nel tempo reale dell’angosciante dell’attesa nel deposito, colta nella sua vera durata. “Lo spettatore non si domanda mai perché i banditi non lascino il deposito: ogni qualvolta cercano di andarsene, succede sempre qualcosa. Non volevo che la finzione cinematografica intervenisse e rendesse le cose più semplici, ad esempio utilizzando delle ellissi. Tutti sono davvero prigionieri in questo deposito: ogni minuto che passa per loro è un minuto anche per chi guarda”.

Tarantino si assume la sfida creativa di dilatare l’attesa, il tempo morto del noir, solitamente lasciati fuori dai margini della sceneggiatura, o tagliato fuori dal montaggio.

Irrompe sulla scena mondiale di prepotenza, Tarantino, superando da subito, nel primo scorcio degli anni novanta, lo status di semplice regista e sceneggiatore. Si attesta immediatamente come sintomo epocale. Persino i suoi detrattori più accaniti, deploratori del presunto cinismo di superficie e della vacuità postmoderna, hanno intuito che il suo linguaggio sta mutando l’immaginario.

Molti anni prima, a Parigi, i ragazzi del dopoguerra potevano scrollarsi di dosso i postumi bellici, tuffandosi con entusiasmo nella penombra della Cinematheque, scoprendo il cinema mondiale e maneggiandolo, pionieristicamente, da teorici. Ridefinendo, anche nelle cinematografie più industriali, come quella americana, linee autoriali, poetiche, analogie, visioni del mondo, a cui nessuno aveva ancora mai pensato. Ma quei cinephiles, futuri protagonisti della Nouvelle Vague, erano ancora immersi nella vita, negli amori, nelle notti brave, nella politica attiva, nei conflitti più o meno simbolici con la figura paterna. Tarantino, invece, è il pioniere di un mondo diverso, quello dei ragazzi americani diventati maggiorenni negli anni ottanta. Ancora devoti al cinema come rito collettivo, ma già molto maniaci della visione domestica, del culto autoreferenziale del film, consumato in compulsiva solitudine. Cultori di una cinefilia sempre più lontana dai recuperi avventurosi di certe pellicole, dalle sale fumose e affollate, animate da dibattiti sanguinosi. La generazione tarantiniana vive della comoda fruibilità dei supporti leggeri, delle videocassette, degli scaffali delle videoteche in cui appare, compressa e maneggevole, la filmografia di intere nazioni. E’ in questo mondo, che Tarantino si forma e deforma, pur rimanendo un feticista della pellicola. La sua è una scopofilia che spinge la vita in sè un po’ più lontano, concentrandosi sulla sua ombra sullo schermo.

Molto prima di lui, Andy Warhol aveva imposto i suoi miti pop, mettendo in cartellone le sue superstar, le regine della Factory, protagoniste di una Hollywood parallela e rovesciata, orgogliosamente prostituita e strafatta. Una parodia acida, una scintillante fabbrica di incubi rivelatori, una sfilza di caricature struggenti delle dive dello Star System.  Tarantino invece, non sembra intenzionato a rovesciare nulla. Vuole conservare, piuttosto. Rovistando tra carriere morte o mai definitivamente decollate, recupera l’energia inesplosa di certi corpi e volti, accantonati dall’industria cinematografica, assumendone la patina d’invecchiamento come prezioso elemento espressivo.

Del resto, Tarantino è un insospettabile devoto di Pasternak, che scrive ”…la vecchiezza è una Roma, senza burle e senza ciance, che non prove esige dall’attore, ma una completa, autentica rovina”. John Travolta, protagonista di Pulp Fiction, il suo film più marcante e definitivo, è forse il suo recupero più esemplare, la sua intuizione più stupefacente.

Sfumata da tempo la febbre del sabato sera, era incappato in film sempre più umilianti e commercialmente ormai frusti, con neonati che parlavano come adulti cretini, doppiati in Italia da Villaggio, Banfi e Anna Mazzamauro.  “Ma che ti è successo, John, ti ricordi Blow Out? Ti ricordi cosa diceva di te Pauline Kael?” Deve avergli parlato così, Quentin, mentre gli proponeva la parte di Vincent Vega, dopo la fatale defezione di Micheal Madsen, già impegnato sul set di WyattEarp,.

Ed eccolo in pista, il Tony Manero imbolsito, capelli unti e lunghi, inebetito dalle dipendenze e invischiato nella malavita in un ruolo da comprimario. Capace però di ritrovare un lampo di grazia in un twist paradossale e in un’infatuazione ad alto rischio. Rientrando nel mito, sotto un’altra forma: nella struggente parodia di se stesso. A conferma del tocco magico di Tarantino, ereditato da Sergio Leone, suo maestro dichiarato. Il primo a riportare in auge l’attempato caratterista Lee Van Cleef, sottraendolo alla sua deriva.

Capace di reinventare con impudenza anche Henry Fonda, tirandolo giù dal piedistallo di eroe americano senza macchie né ombre, di tanto Ford e Lumet, per trasformarlo una sontuosa, credibilissima carogna, nel crepuscolo di C’era una volta il west. Con Leone, Tarantino condivide anche l’occhio lungo da casting. Quello che ti serve a bardare di cappellaccio, poncho e sigaro un semisconosciuto attore di telefilm, un certo Clint Eastwood, trasformandolo in icona eterna.

Anche Tarantino rivitalizza attori passati fuori moda, scopre potenzialità inespresse in semisconosciuti o generici sottoimpiegati, inglobando tutto nel suo immaginario. Come fa con certe musiche, sepolte nei lati b di vecchi vinili: le trasforma in pietre angolari dei suoi dispositivi, regalandogli una nuova, intensa vita. Assurgono allo status di dialoghi, connotano fortemente situazioni e personaggi. E’ il caso di Stuck in the Middle With You, degli Stealers Wheel, brano che evoca, nel suo testo, lo stallo messicano tanto caro a Tarantino. Lo spettatore è costretto ad ascoltarla nella sua durata, assistendo per intero alla danza macabra di Michael Madsen, conclusa dal taglio dell’orecchio, del poliziotto prigioniero. Con Mr Blonde Madsen che sussurra al padiglione auricolare reciso, introducendo elementi di commedia macabra. Un’altra vocazione tarantiniana: l’efferata commistione di generi. Complicare la lineare vita in noir dei suoi personaggi, costellando il loro cammino di piccoli ostacoli, capaci di creare enormi difficoltà. Nella narrazione classica del noir, i gangster arrivano puntuali ai loro appuntamenti. A volte in tragico ritardo. In Pulp fiction, i due sicari Samuel Jackson e John Travolta arrivano addirittura in anticipo. Incappano nella noia, nella necessità di far passare il tempo, confrontando le rispettive teorie sul massaggio di piedi femminili, prima di compiere il loro lavoro da killer. “Lo Humour viene fuori da queste situazioni realistiche. La maldestrezza di far esplodere la testa con un proiettile a uno che non c’entrava nulla, quando la missione da killer è ormai conclusa. Un disastro tragicomico, risolto da Mister Wolf, la stella del cinema che entra e risolve i problemi. Con il suo ingresso in scena, spargo un po’ di polvere magica cinematografica, gioco con il deus ex machina da film di 007. Mi concedo la rottura del realismo” .

Nel 1994, dopo Reservoir Dogs e Pulp Fiction, Quentin Tarantino, è un regista di culto mondiale. Una vertigine da cui riemerge nel 1997, cimentandosi, da trentaquettrenne, in un film sul tempo perduto, dalla struttura molto più classica dei film che lo hanno reso una star. Jackie Brown è un hostess quarantenne dalla fedina penale non limpidissima, abile a divincolarsi dalle pressioni di polizia e criminali.

Tarantino, per il ruolo, sceglie Pam Grier, diva della blaxploitation, idolo delle sue serate adolescenti, trascorse nei cinema in compagnia di sua madre e i suoi corteggiatori coloured. Il regista le cuce addosso quello che forse è uno dei suoi personaggi più belli e compiuti, dal realismo sfaccettato. Una donna indipendente, che tira le somme con un’esistenza dura e di una mezz’età che incombe. Forse somiglia a sua madre Connie, che ha avuto Quentin a sedici anni e lo ha cresciuto da ragazza madre, mentre il signor Tony Tarantino, attorucolo di quarta fascia, si dileguava rapidamente. Salvo poi riapparire, quando suo figlio è diventato una star mondiale.

Pam Grier tiene in stallo messicano, con astuzia felpata, il laido trafficante Samuel Jackson e i poliziotti che vorrebbero incastrarlo. Tra i complici di Jackson, c’è un De Niro strepitoso, rallentato dall’erba, che sembra sbucato da una tavola dei Freak Brothers.

Ad aiutare Jackie, con il suo amore discreto, compare un addetto alle cauzioni, velato dalla malinconia meditativa di Robert Forster, altro notevole ripescaggio tarantiniano.

Tra un traffico e l’altro, lui e Pam parlano, nel tinello, di capelli trapiantati e di culo che non sta più su. E ci sorridono sopra, come una vecchia coppia innamorata.

Sembrano i protagonisti di un telefilm replicato troppe volte, sfiniti da troppe stagioni, ormai spinti dall’anagrafe fuori dal ruolo. Guardandosi allo specchio si interrogano sulle occasioni perdute, senza farne un dramma.

Tarantino li accarezza con la macchina da presa, indulgendo, per la prima volta, ad una sua personale forma di umanesimo, dilatando i tempi e le inquadrature, attenuando la violenza, lasciando alla musica un ruolo autenticamente romantico.

Il risultato lascia i suoi idolatri perplessi, spiazzati. Commercialmente, è quasi un passaggio a vuoto, colto con quello che forse è il film più maturo della sua cinematografia.

Riemergerà dal brutto colpo conferendosi la statura del regista di kolossal. Arrivando a infondere nel suo cinema il potere magico di riscrittura della Storia, la possibilità di riavvolgere il nastro del tempo, di incenerire i cattivi prima che nuocciano. Sbarazzandosi, indifferentemente, di Adolf Hitler e degli accoliti di Charlie Manson.

Ma questo, è un altro capitolo.

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