03 marzo 2014

CRIMEA, UNA FRONTIERA STORICA



La difesa della Crimea, porta della Russia sul Mediterraneo, è una costante della politica “imperiale” russa da Caterina a Putin. Come è una costante nella storia dell'Ucraina moderna il tentativo di autonomizzarsi dal potente vicino. Ricordiamo la guerra civile del 1918-23 e la guerriglia antisovietica del 1945-53.
 

Sergio Romano - La Frontiera della Storia
 

I buoni accordi internazionali sono quelli in cui ciascuna delle due parti, senza trascurare i propri interessi, riesce a mettersi nei panni dell’altra e ne comprende le esigenze. Dopo la guerra del 1870 Bismarck capì che la Francia umiliata non avrebbe dimenticato la sconfitta e ne favorì le ambizioni coloniali in Tunisia per dare qualche soddisfazione al suo bisogno di dignità e grandezza.

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Stalin capì che una Finlandia indipendente e neutrale sarebbe stata meno pericolosa per l’Urss di una repubblica sovietizzata e costretta a vivere all’interno delle frontiere del Paese contro cui si era coraggiosamente battuta. La Nato e più recentemente l’Unione Europea sembrano avere dimenticato questo principio della convivenza internazionale. Hanno esteso le frontiere dell’Alleanza Atlantica al di là del sipario di ferro sino ai confini nord-occidentali della Russia. Hanno incluso l’Ucraina e la Georgia fra i Paesi che, prima o dopo, ne sarebbero divenuti membri. E corrono il rischio di commettere errori altrettanto gravi nel caso della Crimea.

Fino alla seconda metà del XVIII secolo la Crimea era un khanato tataro, residuo storico dell’Orda d’oro (da cui la Russia era stata occupata nel XIII secolo) e vassallo dell’Impero ottomano. Conquistato da Caterina la Grande nel 1784, permise alla Russia di rafforzare la sua presenza nel Mar Nero e divenne la principale base militare della sua flotta meridionale. La guerra di Crimea e l’assedio di Sebastopoli, nel 1854, confermarono che quello era il ventre molle dell’Impero, la provincia che la Russia non poteva abbandonare senza rinunciare alla propria sicurezza. Una delle condizioni più umilianti del Trattato di Parigi, dopo la fine della guerra di Crimea, fu per l’appunto la chiusura delle basi, imposta dai vincitori.



La clausola fu revocata prima della fine dell’Ottocento, ma dopo la Rivoluzione d’Ottobre, durante la guerra civile, la Crimea divenne uno dei principali contrafforti dell’esercito bianco del generale Denikin e, più tardi, del generale Wrangel. Riconquistata dai Rossi, continuò ad avere per lo Stato sovietico la stessa importanza politica e militare che aveva avuto per lo Stato zarista. Erano criteri e riflessi imperiali, ma non diversi da quelli che ispiravano le grandi potenze e che hanno motivato negli ultimi decenni molte iniziative della politica americana.

La Seconda guerra mondiale confermò i timori della Russia. Quando le armate tedesche invasero l’Urss nel 1941 e avanzarono rapidamente sino ai sobborghi di Mosca, Hitler volle che una parte del corpo di spedizione piegasse verso sud e scendesse in Crimea. Non gli bastava Odessa, presidiata dai romeni sul Mar Nero. Voleva conquistare il Caucaso e impadronirsi del petrolio di Baku, sognava di lanciare la Wehrmacht verso l’India con un sogno strategico che ricordava quelli di Alessandro e di Napoleone. I tedeschi s’installarono in Crimea (dove poterono contare sulla collaborazione di molti tatari) e furono respinti per qualche tempo dall’Armata Rossa, ma riuscirono a tornarvi sino all’autunno del 1943.

Stalin non dimenticò il rischio corso dall’integrità dello Stato e non esitò a deportare le popolazioni tatare in Asia centrale. Più tardi, nel 1954, Kruscev regalò la penisola a Kiev per festeggiare il trecentesimo anniversario della storica unione fra Russia e Ucraina. Forse voleva dare una soddisfazione al Paese in cui era nato, forse aveva festeggiato, come era spesso sua abitudine, con troppi bicchieri di vodka.

Anche Boris Eltsin era un grande bevitore, ma in materia di Ucraina e di Crimea dette prova di prudenza e buon senso. Sapeva che la fine dell’Unione Sovietica presentava grandi rischi. I confini delle repubbliche erano il risultato delle manipolazioni staliniane e quasi sempre contestabili. Occorreva quindi evitare che lo scioglimento del patto federale imposto dal regime comunista risvegliasse i nazionalismi che continuavano ad ardere come brace sotto la crosta della vecchia Unione Sovietica.

Eltsin sperava di sostituire all’Urss una Comunità degli Stati indipendenti e sapeva che il suo disegno avrebbe avuto qualche possibilità di successo soltanto se le frontiere di tutte le repubbliche fossero state confermate e riconosciute. Avrebbe potuto rivendicare la Crimea, dove i russi, prima del ritorno dei tatari, rappresentavano circa due terzi della popolazione. Ma rinunciò a qualsiasi pretesa. Non poteva, tuttavia, ignorare l’importanza strategica di Sebastopoli per la flotta e negoziò con i dirigenti di Kiev un affitto di lunga durata fino al 2017 che è stato recentemente rinnovato per un periodo di 25 anni dal governo di Viktor Yanukovich.



Vladimir Putin non ha abbandonato questa linea. Ha fatto la guerra cecena per impedire la nascita di uno Stato musulmano a nord del Caucaso, ma ha dato in cambio denaro e autonomia. Ha punito le aspirazioni atlantiche della Georgia con la creazione di due piccoli Stati vassalli (Abkhazia e Ossezia), ma soltanto dopo la provocazione militare di Mikhail Saakashvili. Ha cercato di impedire che l’Ucraina, insieme alla Crimea, venisse attratta verso l’Unione Europea e domani, probabilmente, verso la Nato. Ma non credo che tema il cambiamento dei confini meno di Eltsin.

L’Unione Europea, in queste circostanze, ha di fronte a sé due scelte possibili. Può sostenere le piazze ucraine e accettare di conseguenza la possibilità che il Paese si spacchi in quattro pezzi: l’Ucraina di Leopoli, quella di Kiev, quella russofona e una Crimea inevitabilmente soggetta a una sorta di protettorato russo. Può invece cercare con la Russia un accordo che salvi l’integrità dello Stato e lo aiuti economicamente a uscire dalla crisi. Speriamo che si ricordi, prima di prendere una decisione, ciò che accadde quando la Germania, nel dicembre 1991, riconobbe troppo frettolosamente l’indipendenza della Slovenia e della Croazia.


Il Corriere della sera – 2 marzo 2014

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