01 giugno 2014

LE MERAVIGLIE DEL GRANDE CINEMA


Ho visto l'altra sera il film "Le meraviglie" di  Alice Rohrwacher. Andatelo a vedere, si tratta davvero di una MERAVIGLIA!
Ripropongo di seguito la recensione che ne ha fatto Daniela Brogi:

 Le meraviglie (Alice Rohrwacher, 2014)

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È il momento più fantasmatico della vita: quello che abbiamo vissuto tutti e che ciò nonostante riusciamo a descrivere e a comprendere con maggior difficoltà; perché è l’unica stagione in cui sentiamo di disporre di tutto il tempo del mondo, ma è anche l’unica in cui proprio il sentimento di questa durata interminabile dentro un’esistenza in cui tutto è in movimento e tutto intorno è fermo (« – ti piaceva un cammello! – || – sì, da piccola! ») più che altro procura affanno, ansia di perdita, bisogni di promesse assolute («-ti giuro amore un amore eterno – »), e, retrospettivamente, opacità. È l’adolescenza: l’età che Alice Rohrwacherpreferisce raccontare, o per meglio dire l’età che i suoi film ci fanno rivivere, nel senso che la regia non spiega nulla, piuttosto mostra, spesso con tecnica documentaria, l’esistenza in quanto circostanza osservata nel proprio fisico accadere: come materia di cui sono fatte le stesse giornate, gli stessi anni che passano e che poi tendiamo a non ricordarci più, se non per effetto di una fulminea intermittenza tra la memoria e i sensi. Rohrwacher riproduce questo mondo, creando una narrazione che va verso l’illustrazione, come in fondo dicono anche le locandine dei suoi film (disegnate da Fabian Negrin), ma sia chiaro che l’illustrazione è da intendersi proprio nel senso di restituzione di luce, di suoni (Christophe Giovannoni – Marta Billingsley) di racconto, perfino di meraviglia (la fotografia è di Hélène Louvart), a dettagli, ambienti, situazioni (il lavoro materiale, per esempio) di solito percepiti, invece, con distrazione. Come accade nei libri illustrati dal grande artista Roberto Innocenti – di cui la regista cita La casa del tempo nel testo preparato per Lo Straniero proposto su minima&moralia – l’illustrazione, insomma, qui vale come forma di visione opposta all’estetica televisiva del reality (« – hanno assaggiato di tutto, ma più di tutto gli è piaciuta nonna: è “telegenica”! – »).
Gelsomina (Maria Alexandra Lungu), il personaggio principale de Le meraviglie, è una coetanea di Marta, la tredicenne protagonista di Corpo celeste (2011); anche qui, in assenza di focalizzazione interna, il personaggio è definito dai movimenti in esterna, dagli stacchi di montaggio (Marco Spoletini), oppure, in alcune delle scene più intense del film, attraverso la relazione faticosa di identificazione e rivalità con la sorellina (Marinella: Agnese Graziani) per la conquista dell’amore materno: « – oi, dove vai? Stai a anda’ dalla mamma? – »; « – mamma, quando avrò sessant’anni tu sarai morta? – » (ma stavolta, al contrario che in Corpo celeste, la protagonista è la primogenita: quella che ingombra, che si consuma di controllo, quella che poi tanto se ne andrà per prima, quella responsabile, mentre la più piccola è quella che dovrà per sempre dimostrare di essere capace anche lei di fare bene le cose). Siamo agli inizi degli anni Novanta, in un vecchio casolare tra l’Umbria e la Toscana che molto plausibilmente ai tempi di oggi potrebbe diventare un agriturismo fintocontadino, ma che all’epoca dei fatti raccontati – sono gli anni in cui Ambra canta T’appartengo(1994) – è ancora un’abitazione premoderna, dove Wolfgang (Sam Louwyck), che viene dalla Germania e fa l’apicoltore, tenta, con difficoltà crescente, di restare fedele agli ideali politici della propria gioventù realizzando e imponendo alla propria famiglia (formata dalla moglie – Alba Rohrwacher – e quattro figlie, a cui si aggiungono una ex compagna di lotta e un bambino preso in affidamento da un programma di rieducazione) una vita altra e contrapposta al modello unico di civiltà imposto dal consumismo. È una battaglia difficile (« – ci voglion far fuori! – »; « – il mondo sta per finire! – »), anche velleitaria, ma soprattutto ad armi impari, come già raccontano le due situazioni iniziali che mettono in scena Wolfgang: in entrambe è in mutande, ma se nel primo caso riesce almeno a inveire, a protestare contro i cacciatori che passano dalla sua terra, a riconoscere il nemico perché ancora è una presenza fisica legata a un territorio (« – troviamo un altro posto! »), nel secondo caso la partita è già persa, perché Wolfgang è un corpo inerme, addormentatosi davanti a un televisore acceso dove passa un’insensata trasmissione a premi: impercettibilmente il pensiero magico di quel mondo ha passato la soglia di casa, ha già vinto (« – mi sintonizzo con Dio! È la frequenza giusta! - » cantavano i ragazzi del catechismo in Corpo celeste).
Le meraviglie è un titolo plurale perché effettivamente stringe in un’unica espressione molte cose: anzitutto riprende testualmente il nome del concorso reality (Il paese delle meraviglie) a cui Gelsomina vuol partecipare, dopo essere stata ipnotizzata dalla bellezza della conduttrice (Milly Catena: Monica Bellucci) – e, in questa fantasia trasognata di autoriscatto attraverso l’incontro diretto con un personaggio famoso, Gelsomina (che porta la memoria di Fellini già nel nome) ricorda Wanda, la protagonista de Lo sceicco bianco. Ma il paese delle meraviglie è anche l’Etruria, con l’antica necropoli dove sarà girata la trasmissione, e, più che altro, è la mitologia artificiale legata al mercato dell’invenzione delle tradizioni. La meraviglia è anche il miele e tutti i processi legati alla sua produzione, che entrano nel film come materia reale anziché come espediente decorativo mirato a restituire colore locale al racconto; e, ancora, la meraviglia, intesa come atmosfera incantata, dove diventa possibile persino che vada a abitare un cammello, è la tonalità di fondo della dimensione fuori dal tempo e dal mondo in cui vive la famiglia di Wolfang.
È proprio la sequenza finale, tuttavia, che forse ci lascia il senso più forte di quel titolo, nello stesso momento in cui definisce la posizione da cui è stato elaborato tutto il film. Attraverso il movimento di macchina che risale dalla vecchia rete arrugginita che un istante prima era occupata da tutti i protagonisti – a parte Gelsomina, che li guarda – e adesso invece è vuota, abbandonata, come la vecchia casa su cui arriva la telecamera, si costruisce, in perfetta rima con l’inizio del film (quando la casa era uscita dal buio), una corrispondenza compiuta tra la cornice narrativa e la cornice temporale del film: l’unico tempo esistente è quello interno al mondo del film. Proprio questa equivalenza assoluta trasforma Le meraviglie in un edificio della memoria, in una costruzione che mette in scena il lento ma inesorabile movimento delle esperienze verso la propria fine. Su questo piano, il film realizza, come in un libro di illustrazioni accompagnato da poche, essenziali parole, il permanere inesorabile di certe immagini della nostra vita, che una volta accadute torneranno a ripetersi per sempre, come durata; e il loro simultaneo sfuggire. Ripresa e fuga dunque: la sequenza finale, fissando il taglio della storia, lavora proprio su questo doppio effetto di visione, producendo un effetto di risacca della memoria: « – sai che pensavo? [sono le ultime parole che sentiamo nel film] Che dovremmo nascondere qualcosa di segreto nella casa perché quel segreto tra tanti anni tornerà – ».
Daniela Brogi

1 commento:

  1. Una serie di immagini tutte in vario modo memorabili, anche il semplice taglio dei visi. Una regia inconsueta nel cinema italiano, che ha inondato di lirismi l’immaginario dei critici. Ma su un soggetto ben storicizzato: una famiglia-comune di fricchettoni, residuo degli anni 1970, non più fumati e anzi convertiti al lavoro sui campi, ecocosciente, piena di figlie, che s’incontra col mondo nuovo, se possibile più povero e più cialtrone, della televisione commerciale. Per il resto avulso dal contesto: niente scuole, maestri, vicini, paesi. Solo il lago Trasimeno, che il fango, la fatica, i sudori di queste “Meraviglie” addolcisce.
    Un’utopia-distopia, come tutte le utopie abortite, seppure proiettata nel passato. Con alcunché di storico, e forse di autobiografico – il proprio padre della regista, tedesco, è stato apicoltore transumante. Una forte caratterizzazione, che apparenta “Le meraviglie” a Pasolini. Al filone “povero” del suo cinema e forse il suo più innovativo e gravido: “La Ricotta”, “Uccellacci e uccellini”, lo stesso “Vangelo”. In tutti i suoi linguaggi: la parola, la psicologia, l’immagine. Non un calco, però, né un prodotto di scuola, ma una lezione felice (riuscita), un esercizio di maestria.

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