02 giugno 2014

LACAN SULLA SOLITUDINE DEI MAESTRI


Un intervento sulla solitudine dell'insegnante secondo l'ottica di Lacan che ci convince solo in parte, ma ci pare un buon punto di partenza per una riflessione sulla comunicazione (anche politica).
Massimo Recalcati

Un maestro sa insegnare solo se parla ai muri 
Qualcosa sembra accomunare l’esperienza dell’insegnamento a qualunque livello essa avvenga, dalle scuole elementari sino all’Università e oltre. Ogni insegnante, a suo modo, ne ha fatto esperienza sulla sua pelle: ha parlato ai muri. L’insegnamento porta con sé, sempre, una inevitabile esperienza di solitudine nonostante in esso si tratti di trasmettere un sapere, di farlo circolare, di condividerlo con altri. Parlare ai muri è la condizione strutturale di ogni insegnamento perché in ogni insegnamento è in gioco un impossibilità. Quale? Quella di una trasmissione integrale, senza resti, trasparente del sapere.

La solitudine del maestro non è allora solo una figura retorica, ma dice qualcosa della postura essenziale di ogni insegnamento. Se “insegnare” significa letteralmente lasciare una impronta, una traccia, un segno nell’allievo, è perché esso esclude che la trasmissione possa ridursi a una clonazione, ovvero alla riproduzione passiva e conformista della parola del maestro. Al contrario un buon effetto di insegnamento consiste nel produrre una soggettivazione del sapere a partire dall’impronta che esso lascia nell’allievo. Questa impronta non è e non deve essere un calco, sebbene ogni insegnamento porti con sé questo rischio. Per questo i maestri trovano insopportabili gli allievi che fanno il loro verso.

Jacques Lacan in Il mio insegnamento e Io parlo ai muri (Astrolabio, Roma), due brevi cicli di conferenze tenute a ridosso dell’uscita, alla fine del 1966, dei celebri Ecrits, non si limita a tracciare una sintesi effervescente e intensa del suo percorso teorico, ma propone alcune notevoli riflessioni su cosa significa insegnare. Tanto più interessanti in quanto la disciplina in gioco, quella della psicoanalisi, appare per certi versi resistere a ogni forma di trasmissione essendo una pratica che esclude per principio la generalizzazione, la comparazione, la traduzione della sua esperienza singolarissima in concetti validi universalmente.
Per sapere bisogna desiderare il sapere. Per questo Lacan resta volutamente tortuoso nella sua parola. Esige che chi l’ascolta non resti passivo: «Mi sforzo che non abbiate un accesso troppo facile al sapere, così che voi dobbiate metterne del vostro».

Ma questa tortuosità non è solo un tatticismo didattico. Qualcosa sfugge sempre, qualcosa non può essere preso nella parola. Non è questa la scommessa di ogni insegnamento degno di questo nome? I muri, afferma Lacan, «sono fatti per circondare un vuoto». Insegnare non è provare a circoscrivere questo vuoto, a dire l’ineffabile, a tradurre in matemi trasmissibili universalmente il patema singolare della nostra vita? Con la consapevolezza però che non si può mai dire tutto. Se il sapere umano è attraversato da una faglia non è perché è impossibile acquisire tutto il sapere, ma perché un limite lo attraversa strutturalmente: il sapere non può mai venire a capo del senso della vita, il sapere non può sapere tutto. L’eccedenza della vita lo esorbita scavando al suo interno una mancanza.
Ecco allora da dove sorge un vero insegnamento. Quando il maestro sa alludere, evocare, portare alla presenza continuamente questo limite - questa mancanza e questa eccedenza - senza mai pretendere di ridurlo a un oggetto che possiamo padroneggiare. Il muro che ci separa dalla verità, afferma Lacan, «è dappertutto», cioè concerne il linguaggio. Tra l’uomo e il mondo c’è sempre un muro così come tra un uomo e una donna e tra la verità (che sfugge sempre) e il sapere. Eppure questo muro - il muro del linguaggio - non è solo una barriera che separa, ma è anche il terreno da cui sorge il dono della parola che rende possibile la poesia e l’amore, l’umanizzazione della vita e l’incontro. Per questo, conclude Lacan, la parola «che si indirizza ai muri ha la proprietà di ripercuotersi».
Più che sulla trasmissione efficace di informazioni (come crede l’odierna pedagogia delle competenze) un insegnamento dovrebbe preservare quello che non si può trasmettere. O, se si preferisce, può trasmettere un sapere vero proprio perché sa custodire l’impossibile da sapere.

La tortuosità che veniva spesso rimproverata a Lacan non era un artificio retorico finalizzato alla seduzione intellettuale dei propri allievi. In più occasioni egli insiste nel dire che questa tortuosità calcolata era il solo modo per provare a essere in sintonia con l’oggetto di cui la psicoanalisi si occupa, e cioè l’inconscio.
Lacan non lo fotografa a distanza, ma lo rende presente, lo mette in atto, persino lo teatralizza. Nel suo discorso l’inconscio parla, si rivela nelle contorsioni del senso, nelle forme oblique che assume la sua parola, ma anche nelle sue eclissi e nei suoi silenzi. In ogni maestro, sempre, qualcosa parla ( « ça parle »), qualcosa che trascende la parola viene alla parola.
Per questo ci ricordiamo così bene le voci dei maestri che abbiamo avuto. Quella roca e calda, quella forte e metallica, quella lucida e chirurgica, quella appesa ad un filo. Perché nella voce appare l’eros, il corpo, la carne della parola. È la voce del maestro a rendere vivo il sapere, a rianimarlo permanentemente.
Gli esempi dei grandi commentatori orali quali sono stati, Heidegger, Kojève e Deleuze, ma anche quello di Roberto Benigni lettore straordinario di Dante e con lui tutti gli insegnanti che abbiamo amato, mostrano come l’effetto dell’insegnamento consiste nel restituire vita a saperi che potevano sembrare morti mettendone in rilievo l’inesauribilità.

In questa operazione la voce non è mai inessenziale, non è solo un ponte per la parola o per il pensiero già costituiti nella mente del maestro. La voce a volte anticipa la parola e il pensiero.
Ogni insegnante sa che deve usare la sua voce per non fare addormentare i suoi uditori. È il punto minimo da cui scaturisce ogni insegnamento: tenere sveglio chi ascolta.
La Repubblica – 2 giugno 2014

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