Da Mussolini in poi
chi ha voluto governare in Italia ha dovuto scendere a patti con la
Chiesa e il PD non fa eccezione. La scuola ne è l'esempio più
chiaro.
Chiara Saraceno
Perché nella scuola
il privato non è pubblico
SEMBRA che Renzi abbia frenato lo slancio con cui la ministra Giannini, sbilanciandosi molto nel parlare alla non disinteressata platea di Cl, aveva promesso più soldi alle scuole paritarie come parte importante della riforma della scuola in cantiere (ormai non c’è governo che non ne faccia una, con risultati non sempre apprezzabili).
Ma la Giannini ha fatto
di più che promettere maggiori fondi. Ha infatti affermato che
occorre superare «le posizioni ideologiche» per quanto riguarda la
distinzione scuola pubblica/scuola paritaria, e di conseguenza i
relativi finanziamenti, per «guardare solo alla qualità». Le ha
dato successivamente manforte il sottosegretario Toccafondi, che ha
spiegato: «Per troppo tempo in questo Paese si è detto che la
scuola era pubblica o privata. La scuola è tutta pubblica e si
divide in statale e non statale».
Non ci si può neppure
stupire. È un processo iniziato con il maquillage linguistico,
operato dal governo Prodi e dal ministro Berlinguer, che ha
trasformato le scuole private, appunto, in pubbliche, per aggirare il
dettato costituzionale, che ammette, e ci mancherebbe, la piena
libertà di istituire scuole a organismi diversi, ma “senza oneri
per lo stato”. Definita la scuola paritaria parte del sistema
pubblico, il gioco sembra fatto. La scuola paritaria non solo è
legittimata ad accedere ai fondi pubblici, ma a competere per essi
con quella pubblica/statale.
Finora ciò era avvenuto
con fondi “a parte” – ancorché sempre sottratti al sistema
autenticamente pubblico, anche in questi ultimi anni di tagli
dolorosi. Sembra di capire che Giannini auspichi un finanziamento
sistematico, regolare che non distingua più tra i due sistemi, salvo
che sulla base della “qualità”. Sembra così ignorare che il
dettato costituzionale non è solo una norma di tipo finanziario, ma
una precisa regola di attribuzione di responsabilità.
Lo Stato ha la
responsabilità prioritaria di garantire un’istruzione di qualità
a tutti, senza privilegiare né il ceto sociale, né particolari
opzioni di valore o visioni del mondo (salvo quelle della libertà,
della democrazia, della uguale dignità di ciascuno), ma se mai
metterle in comunicazione tra loro. Tutte le risorse disponibili
vanno investite in questa direzione.
Dio sa quanto ce ne sia
bisogno in Italia, dove le disuguaglianze nello sviluppo delle
competenze cognitive tra classi sociali e ambiti territoriali
costituiscono una denuncia drammatica del fallimento dello Stato nel
far fronte a quella responsabilità proprio nei confronti dei suoi
cittadini più svantaggiati. Si può, si deve, anche ampliare la
sfera del “pubblico”, non già, tuttavia, a scuole private con le
loro legittime visioni del mondo (e regole di reclutamento degli
insegnanti), ma alle comunità locali, agli individui e associazioni
che possono integrare e arricchire le offerte educative della e nella
scuola pubblica, alla costruzione di spazi, metodi e competenze
perché la pluralità delle visioni del mondo possano confrontarsi
criticamente e dove i bambini e i ragazzi non siano costretti a
muoversi in una sola, per quanto ricca, pregevole, carica di storia.
Non è detto che tutti
gli insegnanti della scuola pubblica siano attrezzati per farlo. Ma
ciò vuol dire che nel formarli e aggiornarli occorrerà tener
presente anche questa dimensione, non che se ne può fare a meno.
Il riconoscimento di statuto pubblico alle scuole paritarie ha già fatto danni nelle scuole dell’infanzia, nella misura in cui un comune non si sente più in obbligo di fornire il servizio se in un determinato quartiere c’è già una scuola paritaria; anche se questa, come capita per lo più, è di tipo confessionale e non risponde agli orientamenti culturali dei genitori. Era questo il motivo del referendum bolognese, fallito per scarsa affluenza e per il timore, alimentato dall’amministrazione, che senza le scuole paritarie molti bambini non avrebbero avuto posto – appunto perché i finanziamenti erano stati dirottati lì.
Ancora più grave è
quanto è successo in Piemonte con l’amministrazione di
centrodestra. Una legge regionale ha stabilito non solo
l’equiparazione tra scuole per l’infanzia pubbliche e paritarie,
ma ha dato alle seconde diritto di veto all’istituzione di una
scuola pubblica sul “proprio” territorio, nel caso questa rischi
di ridurne il bacino di utenza. Il modello Giannini realizzato? Ora
la nuova amministrazione regionale ci metterà una pezza, se non
altro eliminando il diritto di veto.
Ma rimane il fatto che,
una volta riconosciuto il diritto al finanziamento pubblico delle
scuole paritarie la competizione sulle risorse continuerà. Con il
modello Giannini, rischia di estendersi dalla scuola per l’infanzia
a quella dell’obbligo e oltre, con buona pace del diritto di scelta
delle famiglie e soprattutto delle opportunità dei bambini e ragazzi
di essere educati in un contesto culturalmente pluralistico. Su
questi punti, e non solo sull’entità dei finanziamenti, è
opportuno che Renzi e il governo facciano chiarezza, approfittando
della pausa di riflessioni che si sono presi sull’argomento.
La repubblica – 28 agosto 2014
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