Dal disincanto all’utopia? Appunti per un pensiero dell’individuale
di Alessandro Bellan
1. Il pensiero contemporaneo è
interamente attraversato dall’idea della fine dell’utopia e dalla
stessa impensabilità di tale concetto. L’utopia come ideale normativo
cui conformare l’azione appare un’esperienza inesorabilmente conclusa,
consumata, fallimentare. È raro che ci si interroghi se essa viva
ancora, quanto meno come desiderio di quell’altrimenti senza il quale il
presente e l’esistente non sarebbero nemmeno pensabili. Sebbene sia
diventato impossibile sognare romanticamente la redenzione globale della
società e della vita, ci si dovrebbe almeno chiedere in quale misura è
ancora possibile rapportarsi ad un trascendimento senza fughe nel
totalmente altro: ovvero, se è ancora possibile comprendere il presente
come ciò che ci disloca e ci proietta verso qualcosa che noi stessi, qui
e ora, non siamo, verso una dimensione che non controlliamo e non
dominiamo e che, forse, nemmeno siamo in grado di comprendere fino in
fondo. La nostra inconciliata condizione postmetafisica non è che questa
trasversalità del comprendere: con un occhio fissiamo il presente, con
l’altro ne vediamo l’insufficienza e il necessario passaggio ad altro.
2. Non possiamo, insomma,
identificare l’utopia con il mero desiderio di trascendimento del
presente, né escludere dal presente stesso la tensione
all’autotrascendimento (nonostante in esso siano sempre latenti anche le
forze che spingono al congelamento degli equilibri fattuali). La
comprensione del reale decurtata del momento critico-utopico si risolve
nondimeno in pura descrittività avalutativa che non incide
sull’esistente e che, pertanto, nemmeno lo comprende davvero.
3. Pensiamo solo a colui che
viene considerato il filosofo anti-utopico per eccellenza, Hegel. Se
nella speculazione hegeliana l’utopia non svolge alcuna funzione
particolare, questo accade non già perché la dialettica è schiava, come
credeva Bloch, della “malia dell’anamnesi”, ma perché essa è già sempre
prassi critica, controfattuale (Enciclopedia §12, Agg.: il pensiero è
essenzialmente la negazione di una datità immediata). La dialettica
speculativa non delinea perciò un ou-topos nel quale la verità si
realizza una volta per tutte. La verità si fa continuamente: è il
movimento del togliere, l’essere presso di sé nell’altro, essere che si
conserva – trasformandosi – nella furia del dileguare che attraversa la
storicità. Pensare l’oggetto implica perciò la sua trasformazione, il
sottrarlo alla sua presunta esteriore immediatezza. Allo stesso modo,
comprendere il momento attuale significa trasformarlo, mostrare che esso
non è conforme al suo concetto cogliendone l’unicità nascosta (Bloch).
4. “Comprendere il presente”,
pertanto, significa necessariamente qualcosa di altro e di più rispetto
all’idea che tale comprensione consista semplicemente nel muoversi
all’interno di una cornice minimale fissata una volta per tutte (la
democrazia liberale, il “libero” mercato, l’iniziativa privata ecc.)
alla quale sarebbe irrazionale sottrarsi. Certo, oggi noi ci troviamo in
una condizione in cui comprendere il presente consiste nell’aderire a
“fatti” regolando l’agire in base a “norme” ricostruite discorsivamente e
cioè democraticamente (vedi l’ultimo Habermas), ma proprio questo
significa aderire a ciò che già vige e che, proprio perché in vigore, ha
diritto di esistere senza ulteriore critica. Ciò che trascende
l’attualmente vigente, l’altro dall’esser-così, viene bandito in quanto
inattingibile e inattendibile, inattuale e irrapresentabile.
5. L’utopia, nel suo
concetto, è un darsi pensiero di ciò che potrebbe valere altrimenti:
pensiero della contingenza dell’esser-così. Essa dunque spinge alla
resistenza: resistenza nei confronti dell’essere, il quale non è né un
destino necessitante né una gabbia di ferro, ma solo un che di storico e
di divenuto. Tale resistenza, che si manifesta nel tempo presente come
impulso a far riemergere da esso i suoi nuclei sedimentati, è sempre
trascendimento attivo e apertura, così come Verantwortung, capacità di
rispondere concretamente all’appello che i limiti del presente ci
rivolgono.
6. Compito del pensiero
dovrebbe essere, allora, quello di istituire una dimensione, pratica e
teoretica insieme, qualcosa come una prassi del limite che sia sì
descrizione delle insufficienze e delle aporie del reale, come voleva
Adorno, ma anche impegno costante nell’indicare le condizioni pratiche
in base alle quali si può realizzare un loro effettivo toglimento. Senza
tale impegno quella stessa descrizione manca il suo oggetto, non riesce
a cogliere la realtà in atto.
7. Questo compito può essere
avviato solo mantenendo l’istanza centrale della filosofia
post-hegeliana: l’indissolubilità della dimensione singola, individuale,
non-trasparente. Questo è il punto in cui confluiscono la filosofia
jaspersiana dell’esistenza, la teoria critica della prima generazione
francofortese, una certa sociologia (da Simmel a Elias a Dumont),
finanche certo pragmatismo, pur nel mantenimento dell’istanza
antisoggettivistica che anima tutta la riflessione filosofica
novecentesca.
8. L’individuo non coincide
infatti con il soggetto, essendo semmai ciò che vi è di irriducibile in
esso, di non-identico, ciò che non si risolve nella totalità sociale. In
esso si agita e resiste quell’elemento utopico che vivifica e dà senso
all’impresa critica e senza il quale essa svanisce nella più totale
inconsistenza, sia teoretica che pratica.
9. Pensare la dimensione
individuale come possibile luogo dell’utopico, come luogo di ciò che non
ha luogo, dovrebbe in primo luogo offrire un riparo alla tentazione di
cercare rifugio nella dimensione di un’alterità controfattuale tanto
“altra” da essere impraticabile e irrapresentabile. Nel ripensare
l’utopia, cioè, noi non possiamo ignorare la condizione paradossale in
cui si trova oggi la riflessione filosofica: essa non può lasciar cadere
né la domanda di utopia, né dimostrare la superiorità di una qualche
utopia, ovvero di un modello ben determinato di vita buona. In questa
oscillazione paradossale sembra consistere il dilemma del pensiero
utopico oggi, un dilemma che però non può valere semplicisticamente come
liquidazione del paradosso.
10. Individualità oggi
significa infatti contingenza, prima ancora che autonomia come vuole la
tradizione kantiana (e che trova anche oggi difensori eminenti, come ad
esempio Alain Renaut). Ma la contingenza – e qui sta il nocciolo della
questione – può forse essere accostata in modo aproblematico all’utopia?
Da qui si può partire per spiegare il concetto di contingenza nel senso
di tutto ciò che sfugge al nostro controllo e che, pertanto, è un
non-luogo. Come ha notato Charles Larmore, l’individualità è tanto più
ricca quanto più non è interamente sotto il nostro controllo.
11. Nella dimensione
individuale, dunque, noi facciamo esperienza non già di un’autonomia
compatta e senza residui e nemmeno di un’eteronomia che ci consegna
all’imponderabilità dell’accadere, ma di una dimensione utopica che vive
nello e dell’impulso desiderante, nella tensione liminare di quella che
Bloch ha definito non contemporaneità e che ha in sé un potenziale
etico consistente. Nella contingenza fuori controllo dei sogni non
realizzati, nei desideri ancora informi, in una realtà che mostra crepe
impreviste e improvvise interruzioni, in ciò che sfugge al potere e alle
fissazioni normative, resiste ancora quel dare voce ad un’esistenza
ormai non più intatta e integra, ma che rivela sempre un momento
prolettico, la tensione desiderante di uno sguardo e di ascolto non
reificati, non umiliati, capaci ancora di descrivere se stessi e il
mondo. Forse scomposti e disseminati, forse privi di adempimento, ma
proprio perciò in grado di restituire prismaticamente nuove forme e
nuovi colori proprio nel presente, come presente, oltre il presente.
[Pubblicato su “Autodafè”, 3, 1999]
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