23 agosto 2023

IL CORPO NEL CINEMA ITALIANO

 


IL RITORNO DEL CORPO NEL CINEMA ITALIANO

In un film il corpo degli attori è sempre al centro della storia. Perché è la prima cosa che vediamo ed è il metro di misura con cui valutiamo non solo gli spazi ma gli stessi rapporti che uniscono i personaggi. È sostanza e cornice, è un invito e un avvertimento. Occupa un posto, ha un peso e un ruolo. E si muove, si piega, si adatta. Il corpo è lo spartito e allo stesso tempo lo strumento che deve suonare quello spartito, e può essere diverso, sottile, largo, più grande o più piccolo; può avvolgere o respingere. Può dire tutto, con un gesto. Oppure chiudersi in un silenzio forzato.

Moltissimi registi hanno usato ed esaltato il corpo: a volte l’hanno fatto delicatamente, giocando con i non detti e le sensazioni, lasciando credere agli spettatori qualcosa che semplicemente non c’era o che non veniva mai esplicitata; altre, invece, l’hanno fatto duramente, con forza, immergendosi negli ansimi e negli umori, nella pelle che si tira e nelle mani che, come artigli, si stringono (per fare un esempio: Passages di Ira Sachs, in sala proprio in questi giorni).

Negli ultimi anni, nel cinema italiano, c’è stato come un ritorno al corpo. È successo soprattutto nelle produzioni indipendenti, più piccole. In parte, certo, per ovviare alla povertà di risorse e budget: si sfrutta quello che si ha. Ma in parte anche per ribadire la rinnovata centralità del corpo nella nostra società. Le storie di adolescenti, quando vengono raccontate nel modo giusto, sono storie di corpi, di occhi, di baci, di contatti rubati. Di drammi enormi raccolti in un bicchiere, e di problemi infiniti, eterni, risolti con un’alzata di spalle.

I ragazzi e le ragazze cambiano, si trasformano, e mentre imparano ad avere a che fare con il mondo che li circonda, che sembra restringersi e dilatarsi attorno a loro, imparano pure a conoscere sé stessi attraverso i mutamenti del fisico e di ciò che sentono. Il corpo, in questo modo, non rimane un paradigma fisso e invalicabile. Si fa liquido, quasi fluido, diventa un punto di contatto tra estremi opposti e permette alla coscienza di trovare il contenitore migliore – o almeno, ecco, di apprezzarne i limiti e le potenzialità. Il corpo è un confine fisico. E non è mai statico o immobile.

Il 24 agosto, al cinema, arrivano due film: La bella estate di Laura Luchetti, distribuito da Lucky Red, e Rossosperanza di Annarita Zambrano, distribuito da Fandango. Sono due film diversi, che però condividono alcune cose. Innanzitutto raccontano storie di ragazzi, e quindi di corpi. E parlano di sessualità ed erotismo. Non nascondono la fisicità, ma la esplorano e la offrono – come difficilmente succede nel cinema italiano più recente – al pubblico.

C’è l’adolescenza. E c’è quel periodo immediatamente successivo, a cavallo dell’età adulta e prossimo alle responsabilità di ogni giorno, dove tutto appare ancora sospeso e fumoso: nel film di Luchetti, coincide con l’estate; in quello di Zambrano, invece, con un istituto privato. Nel primo caso c’è l’esplorazione, e nel secondo c’è la voglia di ribellarsi e di riappropriarsi di sé stessi e dei propri spazi.

Seguono riferimenti differenti, La bella estate e Rossosperanza: da una parte c’è il romanzo di Cesare Pavese, e dall’altra la cultura degli anni Novanta, con l’esplosione della televisione commerciale, delle mode e degli eccessi. Si muovono, poi, su due dimensioni parallele: passato remoto e passato prossimo, colori caldi e luminosi e colori più aciduli e sprezzanti. Luchetti cammina in punta di piedi, leggera. Zambrano invece ha la voglia di demolire quanto la circonda sfondando il muro dell’ipocrisia della società civile.

Sia La bella estate che Rossosperanza criticano, e criticano profondamente, una certa borghesia. Parlano di arte e di identità sessuale. Prendono i corpi dei loro protagonisti, e li fotografano esattamente nella loro verità. Non esagerano, non abbozzano; sono sinceri, totali e avvolgenti. Sono due esperienze intime, personalissime, che nella grandezza della sala guadagnano lo spessore della solennità.

In questi anni, è stata la serialità televisiva a riappropriarsi per prima dei corpi e del loro significato. L’hanno fatto Skam e Prisma, per esempio. Luchetti e Zambrano hanno scelto un percorso alternativo, in cui poter esprimere esattamente quello che avevano intenzione di esprimere. Luchetti, grazie a Yile Yara Vianello e Deva Cassel, ha messo in scena una storia di affinità e passione, di piccoli gesti e curiosità, di labbra che toccano labbra e di donne che imparano a conoscersi. Zambrano, al contrario, circondata da Margherita Morellini, Leonardo Giuliani, Ludovica Rubino e Luca Varone, ci ha parlato di noi, dell’Italia che è stata e che non c’è più, della nostra pigrizia e arroganza, e della forza dirompente che spesso, non sempre, hanno i corpi.

La  bellezza, in questo cinema e, più in particolare, in questi film, non è un valore assoluto. Un dogma che non va mai, nemmeno per un istante, ribaltato o contestato. È una sfumatura, una pennellata confusa e meravigliosa di toni e pizzichi colorati. Di se, di ma e anche di però. E i corpi, avvolti da questa bellezza, non si limitano a essere: ritrovano il loro posto e la loro libertà.

 

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