04 febbraio 2014

IL VOCABOLARIO DELL'AUTONOMIA DI C. CASTORIADIS



Andrea Inglese ha curato per il n° 34 di "alfabeta2", con l'aiuto di Massimo Rizzante, un dossier dal titolo Rileggere Castoriadis. I materiali proposti non possono cogliere che molto parzialmente i contorni della figura di Cornelius Castoriadis (1922-1997), poliedrica e multidisciplinare, giunta alla filosofia e alla psicanalisi dopo un ventennio di assidua militanza nel collettivo politico Socialismo o barbarie (1948-1967) e un’esperienza professionale come economista.
 Sul sito www.alfabeta2.it è possibile leggere una scheda bibliografica aggiornata sia sul versante francese che italiano e un suo scritto, inedito in Italia, del 1981 (attualissimo oggi sopratutto).


Andrea Inglese

Castoriadis e il vocabolario dell’autonomia

All’inizio degli anni Ottanta, in un libro dedicato in gran parte allo studio dell’Unione Sovietica, Cornelius Castoriadis rifletteva sugli effetti perversi che quel peculiare regime di dominio e di sfruttamento della popolazione aveva prodotto anche sulla lingua, e non solo su quella russa, ma anche su tutte quelle ad essa contemporanee nell’Occidente cosiddetto democratico. L’Impero Sovietico e le altre dittature comuniste erano riuscite a mettere fuori uso tutta una serie di parole e di significati che erano stati fondamentali nella storia del movimento operaio e che avrebbero potuto esserlo per il futuro delle lotte sociali. Dopo l’apparente trionfo, tra il 1989 e il 1991, delle società del libero mercato e delle libere elezioni, un fenomeno simile si è prodotto anche in Europa e nel Nord America per quanto riguarda la parola “democrazia” e tutti i significati ad essa associati. Oggi questa parola ha finito per indicare una pura mistificazione, il paravento che nasconde la struttura oligarchica delle società capitalistiche del Nord del mondo e questo ben oltre le cerchie di coloro che si rifanno al vocabolario marxista e alla distinzione tra democrazia “formale” e “sostanziale”. Ma la rovina della parola ha oltrepassato, anche in questo caso, le frontiere delle lingue occidentali, grazie all’uso propagandistico che ne hanno fatto i governi statunitensi, legittimando una pratica dell’esportazione armata dei valori universali che la democrazia incarnerebbe in paesi che ne sono privi. Ce n’è abbastanza per suscitare, da un lato, profonda disillusione e disprezzo e, dall’altro, per annunciare il declino irreversibile dell’Occidente e seppellire con esso gli ideali di emancipazione, considerati ormai con diffidenza o rassegnato cinismo.
Non è questa una congiuntura dalla quale si esca con le semplici prediche sulla responsabilità del voto, sull’argine dell’istituzione parlamentare alle derive autoritarie, sulla funzione educativa (durante i bei tempi che furono) dei partiti di massa. Né basterà riporre tutta la propria fiducia nella salvifica dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, che fatalmente trasformerà la galassia dei lavoratori cognitivi in nuova classe rivoluzionaria. Non si può pensare, ci ricorda Castoriadis, che il linguaggio sia nato oggi, in perfetta sintonia con la nostra mattiniera buona volontà. La difficoltà è infatti duplice: non solo sono inquinate le significazioni ereditate della tradizione socialista, ma sono inquinate le significazioni legate alle lotte democratiche per l’emancipazione individuale e collettiva, e assieme ad esse le istituzioni che le esprimevano socialmente: sindacati, partiti, assemblee, votazioni, dibattiti, ecc. Di fronte a questo disorientamento, che aveva colto già all’altezza degli anni Ottanta del secolo scorso, Castoriadis ha scelto d’interrogarsi sull’eredità e il senso del progetto d’autonomia che, da un punto di vista storico-antropologico, ha caratterizzato l’eccezione occidentale. Si è quindi dedicato ad esplorare con particolare tenacia la vicenda di quella democrazia greca che, pur germinale, e quindi imperfetta e incompleta, ha istituito simultaneamente l’interrogazione filosofica illimitata e la riflessività critica della società sulle proprie norme e valori.
Sono queste, per lui, due creazioni umane indissociabili e decisive, in quanto riconoscono ciò che tutte le culture religiose devono occultare: il fondamento umano, esclusivamente umano, e quindi mutevole e fragile, delle leggi e più in generale delle significazioni sociali. Questo volgersi indietro, però, ha in Castoriadis una funzione strategica e prospettica: si tratta qui di dissociare ciò che, indebitamente, la modernità ha presentato come unitario: il progetto prometeico di controllo razionale e di espansione illimitata, e il progetto di emancipazione individuale e collettiva. In Marx ancora, questi due aspetti sono connessi: sviluppo delle forze produttive ed emancipazione sociale condividono uno stesso destino. Uno dei contributi più importanti di Castoriadis è stato quello di isolare concettualmente due esperienze umane che il processo storico ha presentato come contemporanee ed illusoriamente indissociabili. Non solo, ma egli ha posto il progetto d’autonomia sotto il segno contrario a quello dell’affermazione illimitata del sé, sia essa da intendersi nelle fogge liberatrici della macchina desiderante o in quelle autoritarie della macchina di sopraffazione. L’autonomia è, essenzialmente, autolimitazione, posizione consapevole del limite, dal momento che nessun limite assoluto verrà né dalle leggi sovrannaturali né dalle troppo poco ferree leggi della storia.
Gli odierni tentativi, dopo anni di turbinio semiotico post-strutturalista, di riconquistare una postura più definita e responsabile, infittendo gli appelli alla realtà (dopo tanti back to Marx, un solenne back to reality), paiono nell’ottica di Castoriadis una diversa forma di sviamento. (Il ritorno alla realtà, per altro, sembra sposarsi particolarmente bene con le raccomandazioni al sano realismo delle attuali politiche d’austerità europee e nazionali.) Non c’è là fuori, oltre le istituzioni immaginarie della società, nulla di sufficientemente solido per condurre per mano l’umanità fuori dai suoi disastri. La realtà, se parla, parla non come un parapetto in grado di condurre la specie umana lungo una suggestiva ma protetta passeggiata. La realtà parla per muri contro cui si sbatte o dirupi nei quali si precipita. Ciò significa ridare centralità al concetto di creazione, intesa come creazione di significati e forme di vita. La creazione, a differenza della creatività, non è quel tipo di competenza che un individuo vende sul mercato del lavoro cognitivo odierno, bensì una possibilità inscritta nell’azione e nelle riflessione collettiva, mai completamente prevedibile e determinabile da un qualsiasi piano o teoria. E perché creazione collettiva ci sia è indispensabile uscire dalle forme della rappresentanza politica, per orientarsi verso forme di democrazia diretta e di autogoverno. Come scrive Castoriadis, l’autonomia significa “dare a tutti gli individui la massima possibilità effettiva di partecipazione a qualsiasi potere esplicito e la sfera più estesa possibile di vita individuale autonoma”(1). Solo in queste condizioni è sensato parlare di responsabilità: esigere responsabilità da elettori sprovvisti di qualsiasi presa sulle decisioni cruciali che riguardano i loro destini è una semplice beffa. In nessun modo, l’intellettuale o il filosofo possono per virtù propria indirizzare l’azione umana, dal momento che la prassi precede e sopravanza sempre la teoria. Ma il filosofo, che creda ancora alla possibilità di riattualizzare e rilanciare il progetto d’autonomia, può contribuire a ridefinire un vocabolario, una lingua, entro la quale tutta una serie di parole siano nuovamente o diversamente pronunciabili, e con esse una rete di significati in grado di essere investiti dagli affetti e dalla volontà delle persone, oltreché dal loro pensiero.

1] Cornelius Castoriadis, Le monde morcelé. Les carrefours du labyrinthe III, Seuil, Paris, 1990, p. 138.

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