27 novembre 2014

CHE COS' E' UN POPOLO?


E’ uscito qualche mese fa, per DeriveApprodi, Che cos’è un popolo?, un volume che raccoglie saggi di Badiou, Bourdieu, Butler, Didi-Huberman, Khiari, Rancière. «Cos’è un popolo di fronte alla crisi delle democrazie rappresentative e all’emergere di forme vecchie e nuove di populismo?», si legge nel risvolto di copertina. «Cos’è un popolo oltre a un termine che rimanda a una stagione che pare ormai trascorsa di lotte per l’emancipazione? Cos’è un popolo senza una nazione e senza uno Stato? Di cosa è fatto un popolo?». Presentiamo i primi due paragrafi del saggio di Georges Didi-Huberman pubblicati da http://www.leparoleelecose.it/
 
Rendere sensibile

di Georges Didi-Huberman

Rendere sensibile
Popoli rappresentabili, popoli immaginari?
La rappresentazione del popolo si scontra con una du­plice difficoltà, se non persino con una duplice aporia, che deriva dall’impossibilità di sussumere ciascuno dei due termini, rappresentazione e popolo, in un unico concetto. Hannah Arendt diceva che non si arriverà mai a pensare la dimensione politica finché ci si osti­nerà a parlare dell’uomo, poiché la politica si occupa precisamente di qualcos’altro, cioè gli uomini, la cui molteplicità si declina ogni volta in modo diverso, sia essa conflitto o comunità1. Allo stesso modo si dovrà dire, e ribadirlo, che non si arriverà mai a pensare la di­mensione estetica – o il mondo del «sensibile» al qua­le costantemente noi reagiamo – finché continueremo a parlare di rappresentazione o di immagine: poiché ci sono solo delle immagini, immagini la cui stessa molte­plicità, che sia conflitto o complicità, resiste a qualun­que tentativo di sintesi.
Per questo si può dire che il popolo, «il popolo» co­me unità, identità, totalità o generalità, semplicemen­te non esiste. Ammesso che da qualche parte vi sia an­cora una popolazione integralmente autoctona – come si vede nelle immagini del documentario First Contact (probabilmente una delle ultime testimonianze) in cui sono ripresi i primi contatti, nel 1930, tra un gruppo di avventurieri e una popolazione della Nuova Guinea ta­gliata fuori dal resto del mondo dall’alba dei tempi2 –, non esiste «il popolo»; perché, persino in un tale caso di isolamento, «il popolo» presuppone un minimo di complessità, di contaminazione, quale è rappresenta­ta dalla composizione eterogenea di quei popoli molte­plici e differenti che sono i vivi e i loro morti, i corpi e i loro spiriti, quelli del clan e gli altri, i maschi e le fem­mine, gli umani e i loro dèi o i loro animali… Non c’è un popolo: ci sono solo dei popoli coesistenti, non solo tra una popolazione e l’altra, ma anche all’interno – l’interno sociale o mentale – di una stessa popolazione, per quanto omogenea la si voglia immaginare, cosa che, d’altronde, non si dà mai3. È, comunque, sempre possibile ipostatizzare «il popolo» come identità o ge­neralità: ma la prima è fattizia, votata all’esaltazione dei populismi di ogni risma4; mentre la seconda è in­trovabile, come un’aporia imprescindibile di tutte le «scienze politiche» o storiche.
Non stupisce che Pierre Rosanvallon abbia intitola­to la propria indagine storica sulla rappresentanza de­mocratica in Francia Il popolo introvabile5. Fin dall’ini­zio, questo libro accusa un «malessere», scritto chiara­mente: malessere di una democrazia – ovvero, letteralmente, il «potere del popolo» – divisa tra l’evi­denza del suo orizzonte di «bene politico» e l’incom­piutezza lampante, spesso scandalosa, della sua realtà di «delusione politica»6. È molto interessante, d’altra parte, che questo malessere o questa parte di «oscuri­tà» inerenti alla nostra storia democratica siano ri­mandati, come a un modello necessario ma quanto mai spinoso, alla questione della rappresentazione: «È intorno alla questione della rappresentazione, nelle sue due accezioni di mandato e di raffigurazione, che si annodano le difficoltà»7. Ma appare curioso – per non dire preoccupante – che Pierre Rosanvallon, che parla di democrazia, non evochi questa dialettica della rap­presentazione se non attraverso un riferimento diretto a Carl Schmitt per il quale, infatti, la rappresentazione politica come Repräsentation o «raffigurazione simbo­lica», e la rappresentanza politica come Stellvertretung  o «mandato» dovevano essere ben distinte8.
Si sa che Carl Schmitt non poteva, nella sua nostal­gia del potere monarchico, far altro che servirsi della raffigurazione simbolica contro il mandato democrati­co. Nella Verfassungslehre del 1928 – una delle sue ope­re fondamentali –, Carl Schmitt non ha omesso di pre­cisare che la rappresentazione «non è possibile con qualsiasi specie di essere, ma presuppone una specie particolare speciale (eine besondere Art Sein). Qualcosa di morto, qualcosa di scadente o privo di valore, qual­cosa di basso (etwas Totes, etwas Minderwertiges oder Wertloses, etwas Niedriges) non può essere rappresenta­to. Ad esso manca la specie sviluppata di essere (gestei­gerte Art Sein) che è capace di una progressione nell’es­sere pubblico di un’esistenza (Existenz). Parole come grandezza, altezza, maestà, gloria, dignità e onore cer­cano di cogliere questa particolarità (Besonderheit) del-l’essere accresciuto e capace di rappresentazione»9.
Non si capisce, quindi, come, in tale ottica, «il popo­lo» o «i popoli» sarebbero in qualche modo rappresenta­bili. Carl Schmitt, si sa, ha voluto unificare il concetto di popolo a partire dalla sua stessa negatività e impotenza: il popolo, per lui, non è. Non è né questo (una magistra­tura o un’amministrazione, per esempio), né quest’al­tro (un attore politico in senso proprio); tutto ciò che sa fare, secondo lui, è acclamare la rappresentazione del po­tere che gli viene presentata come Führertum, come «guida» suprema10. Pierre Rosanvallon si mantiene evidentemente agli antipodi rispetto all’avversione ostentata da Carl Schmitt nei riguardi dell’«evidenza democratica»11. Ma si ritrova come prigioniero del mo­dello disgiuntivo, stabilito dall’autore della Teologia poli­tica, tra Stellvertretung e Repräsentation: probabilmente ne rovescia la gerarchia – dato che il mandato prevale ormai sul simbolo –, ma lo fa per scagliare ancora una volta la rappresentazione dei popoli contro loro stessi. Come se, raffigurati, i popoli necessariamente divenis­sero immaginari; come se, votati all’immagine, divenis­sero per forza illusori.
Tre «popoli immaginari» compaiono così davanti agli occhi di Pierre Rosanvallon: il popolo-opinione, che si ha quando l’opinione pubblica è definita come quella «maniera inorganica con cui si dà a conoscere ciò che un popolo vuole e ritiene»12 (secondo Hegel) o come la «forma moderna dell’acclamazione» (secon­do Carl Schmitt, ancora una volta); il popolo-nazione da cui è ossessionata la «celebrazione populista» che arriva a farne un operatore di esclusione, dal barbaro all’immigrato13; infine il popolo-emozione dove si espri­me, «in una modalità patetica, la ricerca di identità delle masse moderne. Povere di contenuto, queste co­munità di emozione non instaurano alcun solido le­game. Esse non fanno che realizzare un’unione pas­seggera e non comportano obblighi tra gli uomini. Esse, allo stesso modo, non implicano alcun futuro. Lungi dall’incarnare una promessa di cambiamento o una potenza di azione, come un tempo il popolo-evento della Rivoluzione, il popolo-emozione non si inscrive in una storia. È solo l’ombra fugace di una mancanza e di una difficoltà»14.
È probabile che Rosanvallon qui prenda anzitutto di mira gli «stadi», gli «schermi televisivi» e le «colonne dei giornali»15. Ma la sua stessa espressione, «popolo­emozione», impiegata pari pari in una diagnosi così se­vera, non è priva di conseguenze sui due concetti, quel­lo di popolo e quello di emozione, che lui collega tramite questo terzo che è, appunto, la rappresentazione. È evi­dente che la rappresentazione può veicolare le emozio­ni fattizie degli schermi televisivi e delle colonne dei giornali; ma può anche, senza dubbio, veicolare i gran­di «ducismi» che Carl Schmitt sottoscriveva nel 1933. Eppure la rappresentazione è, appunto, come il popolo: è qualcosa di molteplice, eterogeneo e complesso. La rappresentazione – lo sappiamo un po’ più precisa­mente dopo Nietzsche e Warburg – è portatrice di effet­ti strutturali antagonistici o paradossali, che potremmo chiamare «sincopi» al livello del loro funzionamento semiotico, o «strappi» sintomali a un livello più metap­sicologico o antropologico16. I popoli e le loro emozioni ci richiedono dunque molto di più di questa critica condi­scendente con valore di destituzione: una destituzione filosoficamente accettata – fondamentalmente platoni­ca – del mondo sensibile in generale, delle sue specifi­che mozioni e dunque delle sue possibili risorse.
Stropicciarsi gli occhi di fronte alle immagini dialettiche
Occorrerebbe, allora, riprendere con un po’ meno suf­ficienza – o disprezzo – ciò che Hegel chiamava, rife­rendosi al popolo, quella «maniera inorganica con cui si dà a conoscere ciò che un popolo vuole e ritiene» o ciò che Carl Schmitt concedeva alle masse nella forma dell’«acclamazione» (evidentemente Carl Schmitt par­lerà molto meno della protesta dei popoli, delle loro sofferenze, delle loro imprecazioni, delle loro «mani­festazioni» o dei loro appelli all’emancipazione). Se il popolo-emozione è un popolo immaginario, come Ro­sanvallon afferma, ciò non vuol dire, tuttavia, che sia «povero di contenuto», «senza alcun legame solido», votato all’«unione passeggera» e che «non ipotechi al­cun futuro [né alcuna] potenza d’azione». Non vuol di­re che «non si inscriva nella storia» – e la ragione più semplice di questo è che le emozioni stesse, come le im­magini, sono iscrizioni della storia, i suoi cristalli di leg­gibilità (Lesbarkeit), per riprendere qui un concetto co­mune a tutta una costellazione di pensatori che hanno riconsiderato, tra gli anni Venti e Trenta del XX secolo, in un contesto di lotta al fascismo, le fondamentali re­lazioni tra storicità e visibilità dei corpi (penso a Walter Benjamin, Aby Warburg, Carl Einstein, Ernst Bloch, Siegfried Kracauer o Theodor Adorno)17.
Perché le stesse emozioni – come le immagini, sul­la scia dell’idea magistrale di Benjamin –sono dialetti­che. Ciò significa, tanto per cominciare, che intratten­gono un rapporto alquanto particolare con le rappre­sentazioni: rapporto di inerenza e di disgiunzione allo stesso tempo, rapporto di espressione e di contrasto contemporaneamente. Nello stesso momento in cui Aby Warburg cominciava a osservare le dinamiche di «polarizzazione» e «depolarizzazione» delle «formule di pathos»18 nella lunga durata delle immagini, Sig­mund Freud insisteva, nella Traumdeutung, su un punto di importanza capitale, che aveva già ricono­sciuto nell’osservazione dei sintomi dell’isteria: il fatto che vi sia un inconscio implica che vi sia una dialettica complessa — qui espressione e lì conflitto, qui con­gruenza e lì discordanza – tra gli affetti e le rappresenta­zioni19. Se è vero che la storia delle società non procede, a sua volta, senza inconscio, allora occorre arrendersi all’evidenza formulata da Walter Benjamin nel suo I passages di Parigi: «Nell’immagine dialettica, ciò che è stato in una determinata epoca è sempre, al tempo stesso, «il sempre già stato». Esso, però, si manifesta di volta in volta come tale solo agli occhi di un’epoca as­solutamente determinata: quella in cui l’umanità, stropicciandosi gli occhi, riconosce come tale proprio quest’immagine di sogno (Traumbild). È in quest’atti­mo che lo storico assume il compito dell’interpretazio­ne del sogno (die Aufgabe der Traumdeutung20.
Quando l’umanità non si stropiccia gli occhi – quando le sue immagini, le sue emozioni e i suoi atti politici non si vedono divisi da niente –, allora le im­magini non sono dialettiche, le emozioni sono «pove­re di contenuto» e gli atti politici stessi «non investono alcun futuro». Ciò che rende i popoli «introvabili» è, dunque, da ricercarsi tanto nella crisi della loro raffi­gurazione quanto in quella del loro mandato. È ciò che Walter Benjamin aveva compreso con chiarezza nel suo saggio del 1935 L’opera d’arte nell’epoca della sua ri­producibilità tecnica: «L’attuale crisi delle democrazie borghesi – scriveva – implica una crisi delle condizioni determinanti per l’esposizione di coloro che governa­no»21. Là dove «il campione, la star e il dittatore escono vincitori»22 negli stadi o sugli schermi del cinema commerciale, occorrerà dunque dialettizzare il visibi­le: creare altre immagini, altri montaggi, guardarli in un modo diverso, introdurre al loro interno tanto la di­visione quanto il movimento, la coniugazione di emo­zione e pensiero. Stropicciarsi gli occhi, insomma: sfregare la rappresentazione con l’affetto, l’ideale con il rimosso, il sublimato con il sintomale.
Una rappresentazione dei popoli torna a essere possi­bile quando accettiamo di introdurre la divisione dialet­tica nella rappresentazione dei poteri. Non è sufficiente, come fa Pierre Rosanvallon, ripercorrere la storia del mandato politico partendo dalle premesse democrati­che di Tocqueville; né è sufficiente, come fa Giorgio Agamben, ripensare l’archeologia del «regno» e della «gloria» partendo dalle premesse teologiche dei Padri della Chiesa e dalle premesse antidemocratiche di Carl Schmitt. Per Walter Benjamin, al contrario, dialettizza­re consisteva nel far apparire in ogni frammento di sto­ria quell’«immagine» che «guizza via», che «balena, per non più comparire, proprio nell’attimo della sua co­noscibilità»23 ma che, nella sua stessa fragilità, investe la memoria e il desiderio dei popoli, ovvero la configu­razione di un futuro emancipato. Un modo per am­mettere che, in tale ambito, lo storico deve essere in grado di conciliare il proprio sguardo con le minime «fugacità» o fragilità le quali, in contropelo al «senso della storia» – al quale la nostra «attualità» vuole tanto credere –, sorgono come se provenissero da molto lon­tano e svaniscono subito, come segnali portatori di una storicità fino a quel momento impensata.
Questi segnali o «immagini dialettiche» sono fragi­li, certo. È la stessa fragilità delle emozioni collettive, eppure è la loro risorsa dialettica: «Giunta la sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Pa­rigi, indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei campanili»24. Non era forse un modo, molto probabilmente «affettivo», per far esplodere il «tempo omogeneo e vuoto» e sostituirlo, tramite questo segnale interposto, con un modello di «materialismo storico» caratterizzato dallo smontare e rimontare l’intera temporalità?25 È questa, comunque, la fragilità dei popoli stessi: la distruzione di qualche orologio in piazza e la morte dei circa ottocento insorti di luglio non impediranno la ripresa borghese e mo­narchica del movimento. Ma Walter Benjamin – che scriveva queste righe nel momento del maggior perico­lo per se stesso, ovvero nel 1940 – avrà voluto far sorge­re questa «immagine da sogno» in cui tutti gli orologi sono presi a fucilate per stropicciarsi gli occhi di fronte a essa e per riformulare, in questo stesso gesto del risve­glio, il compito dello storico, che ancora oggi ci tocca, in frasi che da tempo non mi stanco di ricopiare:
Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «proprio come è stato davvero». Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevista al soggetto storico nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esisten­za stessa della tradizione quanto i suoi destinatari. Per en­trambi il pericolo è uno solo: prestarsi ad essere strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al confor­mismo che è sul punto di soggiogarla26.
Questa insistenza sulla «tradizione» – distinta da qua­lunque «conformismo» culturale – non deve sorpren­derci in un contesto seppur dominato dal pericolo im­mediato e dall’urgenza di risponderne politicamente. Benjamin condivideva con Freud e Warburg l’acuta co­scienza di un’efficacia antropologica dei sopravvissuti; condivideva con Bataille o Eisenstein la viva percezio­ne di una efficacia politica dei sopravvissuti, che fosse stropicciandosi gli occhi davanti alle carcasse animali, ai mattatoi della Villette o davanti agli scheletri in mo­vimento di una processione messicana, e che, più tar­di, cineasti quali Jean Rouch, Pier Paolo Pasolini o Glauber Rocha avrebbero mostrato con grande chia­rezza. Ma questa percezione storica – e ugualmente trans-storica, poiché accorda un posto decisivo alle lunghe durate e ai missing link, alle eterocronie e ai ri­torni del rimosso – non procede senza la divisione sulla quale si regge qualunque rappresentazione dei popoli. Laddove Carl Schmitt non ha altri interessi che per la tradizione del potere, Benjamin oppone energicamente la tradizione degli oppressi: «La tradizione degli oppres­si ci insegna che lo «stato d’eccezione» in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo»27.
È meglio comprensibile perché Walter Benjamin abbia, contemporaneamente, definito il compito dello storico – e con ogni probabilità anche dell’artista – at­traverso la volontà di farvi figurare i popoli, ovvero dare una degna rappresentazione agli «esseri anonimi» della storia: «È più difficile onorare la memoria dei sen­za nome (das Gedächtins der Namenlosen) che non quel­la degli uomini famosi [e celebrati, ivi compresi i poeti e i pensatori. Alla memoria dei senza-nome è dedicata la costruzione storica]»28. Questo compito è insieme fi­lologico – o «micrologico», termine caro a Benjamin – e filosofico: impone di esplorare gli archivi in cui i «con­formisti» della storia non mettono mai il naso (o gli oc­chi); e impone allo stesso tempo un’«armatura teori­ca» (theoretische Armatur) e un «principio costruttivo» (konstruktiv Prinzip) di cui la storia del positivismo è del tutto priva29.
Ora, questa «armatura teorica» presuppone di non asservire le immagini alle idee, né le idee ai fatti. Quando Benjamin, per esempio, parla di «tradizione degli oppressi» (Tradition der Unterdrückten), utilizza certamente un vocabolario marxista che rimanda di­rettamente alla lotta di classe; ma è anche consapevole che il termine Unterdrückung fa parte del vocabolario concettuale della psicanalisi freudiana. Tradotto con il termine «repressione», indica un tipo di processo psi­chico nel quale la rimozione (Verdrängung) appare sot­to una specie particolare: la repressione può essere conscia mentre la rimozione è sempre inconscia; la re­pressione si applica agli affetti, mentre la rimozione opera soltanto sulle rappresentazioni30. Sarebbe quin­di compito dello storico rendere i popoli «rappresenta­bili» facendo figurare esattamente ciò che si trova «re­presso» nelle loro rappresentazioni tradizionali o, per meglio dire, conformiste. Laddove ciò che è «repres­so» in simili rappresentazioni riguarda non soltanto il loro statuto di invisibilità sociale – ciò che Hannah Arendt, per esempio, ha voluto studiare nella Tradizio­ne nascosta, attraverso la figura del paria31 –, ma anche ciò che Hegel aveva chiamato la «maniera inorganica con cui si dà a conoscere ciò che un popolo vuole e ri­tiene» esprimendo fenomeni emotivi tramite gesti del corpo e interposti moti dell’anima.
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Note
  1. H. Arendt, Che cos’è la politica?, a cura di U. Ludz, Edizioni di Comuni­tà, Milano 2001.
  2. B. Connolly, R. Anderson, First Contact, 1982. Vedi F. Niney, L’Épreuve du réel à l’écran. Essai sur le principe de réalité documentaire, De Boeck Uni­versité, Bruxelles 2000, p. 283.
  3. Ho già provato a giustificare questo plurale nel mio Peuples exposés, peuples figurants. L’oeil de l’histoire, 4, Les Éditions de Minuit, Paris 2012.
  4. Si veda il numero speciale della rivista «Critique», LXVIII, 2012, nn. 776-777 («Populismes»).
  5. P. Rosanvallon, Le peuple introuvable. Histoire de la représentation démo­cratique en France, Gallimard, Paris 2002.
  6. Ivi, p. 11.
  7. Ivi, p. 13.
  8. Ibid. Con un rimando all’articolo di O. Beaud, Repräsentation et Stell­vertretung: sur une distinction de Carl Schmitt, «Droits. Revue française de théorie juridique», n. 6, 1987, pp. 11-20.
  9. C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, a cura di A. Caracciolo, Giuffré, Milano 1984, p. 277.
  10. Ibid. Nel mio libro Come le lucciole: una politica della sopravvivenza, trad. it. C. Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2010 (cap. VI «Immagi­ni»), ho analizzato l’uso che di questi testi ne ha fatto Giorgio Agamben nel suo Il Regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo: Homo sacer, II, 2, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
  11. C. Schmitt, Parlamentarismo e democrazia e altri scritti di storia e dottri­na dello Stato, trad. it. a cura di C. Marco, Marco Editore, Cosenza 1998.
  12. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. F. Messineo Laterza, Roma-Bari 1979, p. 453.
  13. P. Rosanvallon, Le peuple introuvable, cit., p. 445-446.
  14. Ivi, pp. 447-448.
  15. Ivi, p. 447.
  16. Per le «sincopi» vedi L. Marin, Ruptures, interruptions, syncopes dans la représentation de peinture (1992), in D. Arasse, A. Cantillon, G. Careri, D. Cohn, P.-A. Fabre, F. Marin (a cura di), De la représentation, Le Seuil-Gal­limard, Paris 1994, pp. 364-376. Per gli «strappi» vedi G. Didi-Huber­man, Devant l’image. Question posée aux fins d’une histoire de l’art, Les Édi­tions de Minuit, Paris 1990, pp. 169-269 («L’image comme déchirure»).
  17. Vedi G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, trad. it. S. Chiodi, Bollati Boringhieri, Torino 2000. E il più recente nu­mero della rivista online «Trivium», n. 10, 2012 («Lisibilité/Lesbarkeit»), a cura di M. Pic e E. Alloa.
  18. Vedi G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memo­ria dei fantasmi e la storia dell’arte, trad. it. A. Serra, Bollati Boringhieri, To­rino 2006.
  19. S. Freud, L’interpretazione dei sogni, trad. it. F. Pogliani, Rizzoli, Mila­no 1986.
  20. W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I «Passages» di Parigi, a cu­ra di G. Agamben, Torino, Einaudi, 1986, p. 1095.
  21. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, trad. it. E. Filippini, Einaudi, Torino 1966, p. 53.
  22. Ivi, p. 54.
  23. W. Benjamin, Sul concetto di storia, trad. it. G. Bonola, M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, pp. 25-27.
  24. Ivi, p. 49.
  25. Ivi, p. 27.
  26. Ibid .
  27. Ivi, p. 33.
  28. Materiali preparatori delle tesi, ivi, p. 77.
  29. Ivi, p. 51.
  30. S. Freud, Metapsicologia, trad. it. R. Colorni, Bollati Boringhieri, Tori­no 2006.
  31. H. Arendt, Il futuro alle spalle, trad. it. V. Bazzicalupo, S. Muscas, il Mulino, Bologna 2006.
[Immagine: Spencer Tunick, Ring (gm)]

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