02 luglio 2021

DANTE SECOND0 MARCO SANTAGATA

 


L' ULTIMA MAGIA. DANTE, 1321

di Marco Santagata

 

[E’ uscito da poco per Guanda L’ultima magia. Dante, 1321, il romanzo postumo di Marco Santagata su Dante. Ne riproduciamo un estratto (il cap. 3 della parte IV), ringraziano l’editore e la prof.ssa Maria Cristina Cabani].

 

A volte capitava di scorgere una dama attraversare una stanza da una porta all’altra a passi piccoli e veloci, come se scivolasse sul pavimento. Nei giorni di maltempo si faceva luce con una lampada a olio. Quel fantasma era Alagia, la moglie di Moroello.

Di bassa statura, minuta, non bella ma aggraziata, benché al marchese avesse già dato cinque figli, tre maschi e due femmine, era ancora una donna piacente. Vestiva con semplicità, senza ornamenti e gioielli; non si toglieva mai le bende maritali. Sulla parte del volto lasciata scoperta dalle bende e dal soggolo spiccavano gli occhi: grandi, verdi, dolci e umidi. La bocca era sempre socchiusa in un leggero sorriso. Parlava di rado, quasi sussurrando, con voce pacata, soave. Partecipava molto raramente ai banchetti così graditi al suo sposo. Tuttavia curava che a quella tavola non mancasse niente. Anche con la servitù aveva modi cortesi; con le ragazzine più giovani quasi materni. Di lei tutti parlavano bene, indipendentemente dal fatto che fosse la moglie del padrone: veniva additata come il ritratto della remissività e della fedeltà coniugale. Certo, se non fosse stata la marchesa, con ogni probabilità sarebbe passata inosservata. Eppure era un gran dama, una Fieschi, nipote di un papa.

 

Lui e Alagia non si erano mai parlati. Incrociandosi, si scambiavano il buongiorno e la buonasera e nient’altro. Lei sorrideva con grazia e poi scivolava via. Non era scontrosa, si era fatto l’idea che fosse una donna timida.

In quel castellaccio deserto i giorni passavano sempre uguali, uno dopo l’altro. Soffriva di solitudine. Lo aveva preso una acuta nostalgia di Gemma e dei figli. Cercava di applicarsi al poema. Nel vano di alcune finestre erano scavati, uno a destra l’altro a sinistra, due sedili di pietra. Per montarvi saliva tre gradini, poi appoggiava una tavola di legno sulle ginocchia e ci collocava sopra il foglio e il calamaio. Benché scegliesse la più grande, anche quella finestra era piccola e stretta. Non solo, la luce, già scarsa, filtrava a stento attraverso lastre di alabastro. Lui sfruttava quel poco di luminosità che l’alabastro lasciava trapelare. Di aprire le imposte neanche parlarne, faceva troppo freddo. Anche così avrebbe potuto scrivere, il silenzio favoriva la concentrazione, e invece passava gran parte del tempo con gli occhi fissi sulle venature dell’alabastro, perso nelle sue fantasie. Quando si riscuoteva, il pensiero andava a Firenze. Da lì non arrivava alcun segnale e lui era sempre più preoccupato: presentiva che non gli avrebbero concesso il perdono. All’idea, gli si bloccava lo stomaco.

 

Quel giorno d’ottobre il tempo era inclemente, il cielo carico di nuvole nere. Aveva posato la tavoletta con i fogli e l’inchiostro sul sedile di fronte al suo: benchéfosse ormai mezzogiorno, dalla finestra filtrava una luce troppo fioca per scrivere. La stanza era immersa in una semioscurità quasi serale. Stava per scendere i tre gradini che lo separavano dal pavimento quando, a sorpresa, davanti a lui si era materializzata la marchesa Alagia. Doveva essere perso nei suoi pensieri, perché non l’aveva sentita entrare. Era scivolata fino al vano della finestra silenziosamente, come al solito. Con una mano reggeva un vassoio, con l’altra un recipiente di coccio.

«Queste le ho fritte io, maestro» aveva detto porgendogli un vassoio ricoperto di frittelle di castagne. «Spero tanto che vi piacciano.»

 

Lui non se l’era fatto ripetere: subito aveva messo in bocca una frittella ancora bollente. Alagia, forse divertita dalla sua voracità, lo aveva osservato per qualche istante in silenzio, poi aveva suggerito: «Spalmateci sopra questa ricotta freschissima».

Con la bocca piena lui farfugliava parole di ringraziamento e grandi elogi della bontà delle frittelle.

Lei lo guardava con il suo abituale sorriso mite. «Sono felice che vi piacciano.»

«Marchesa, vi confesso che il mio grande peccato e` quello della gola.»

«Più che un peccato, può essere una consolazione» aveva sussurrato lei flebilmente. Poi, alzando appena un poco il volume della voce, aveva soggiunto: «Mi era sembrato che oggi foste un po’ triste».

 

L’osservazione era troppo confidenziale, di quelle che una gran dama non dovrebbe lasciarsi sfuggire. E invece era suonata del tutto naturale. E nemmeno lui aveva avuto ritegno nel risponderle sinceramente: «Sì, pensavo alla mia casa. Ho paura che non la rivedrò mai più».

«La rivedrete, la rivedrete» si era affrettata a rassicurarlo emettendo un profondo sospiro. «Moroello lo vuole, e Moroello ottiene sempre ciò che vuole.»

Nel pronunciare il nome del marito negli occhi le era lampeggiato un impercettibile bagliore. Per lui Alagia nutriva una devozione totale, ne parlava come fosse un Giove onnipotente.

«Vi capisco» aveva mormorato, «anch’io provo nostalgia della mia Genova.»

Da allora Alagia non aveva quasi fatto passare giorno senza raggiungerlo alla sua finestra portando ogni volta dolciumi cucinati da lei. Il suo preferito era la spongata, una torta ripiena di marmellate, fichi secchi, canditi, mandorle e pinoli. Una volta gli aveva offerto una specie di pane, anch’esso ripieno di canditi, uva passa e zibibbo.

«Noi lo chiamiamo pandolce» aveva detto compiaciuta dei suoi borborigmi deliziati. «Lo manda da Genova mia cognata Manfredina.»

 

Con il passare dei giorni fra lui e Alagia era nata una timida confidenza. Adesso lei non restava più in piedi ad aspettare che lui avesse gustato i suoi dolciumi per poi scivolare via con un inchino imbarazzato, adesso si accomodava sul sedile di fronte al suo e assaggiava lei pure la spongata o il dolce di turno. Soprattutto, si parlavano. Per la verità, era lui a parlare.

Alagia, che aveva trascorso la giovinezza a Genova e poi, dopo il matrimonio, non era più uscita dalla Lunigiana, gli chiedeva con insistenza di descriverle le città nelle quali era vissuto. Gli occhi sbarrati e un’espressione estatica sul viso, lo ascoltava parlare di Firenze, di quanto fosse imponente il battistero di San Giovanni, della nobiltà dei palazzi dei Mozzi, dei Frescobaldi.

«Moroello mi ha promesso che un giorno o l’altro mi porta a Firenze con se ́» lo aveva interrotto, ma lo aveva detto con un tono quasi rassegnato.

E poi Bologna, la Garisenda che si innalza fino alle nuvole… E Roma, la città degli imperatori, dei papi… Per Alagia Roma era una di quelle città fantastiche di cui parlano le fiabe per i bambini.

 

Più di ogni altra cosa a suscitare la sua curiosità erano quei fogli che lui riponeva quando lei si avvicinava alla finestra. Si era accorto che Alagia vi gettava spesso rapide occhiate, ma solo per un attimo, e subito distoglieva lo sguardo quasi vergognandosi. Qualche volta aveva pure capito che stava per chiedergli qualcosa al riguardo. Ma solo dopo parecchi giorni, quando tra loro si era consolidata una sorta di complicità , lei aveva trovato il coraggio di domandargli: «Perdonate l’indiscrezione, maestro, mi piacerebbe molto sapere cosa scrivete su queste carte».

«Più che scrivere, penso» le aveva risposto. «Ho in mente un poema, un grande poema, ma sono solo agli inizi.»

 

Lei aveva assunto un’espressione interrogativa, e allora le aveva spiegato che si trattava di una visione, un viaggio da lui compiuto in sogno nell’aldilà, e che il viaggio cominciava all’inferno. Alla parola inferno il volto di Alagia per un attimo si era rabbuiato, ma poi, ripreso il suo abituale sorriso, timidamente aveva azzardato: «Mi fareste un grande regalo se mi concedeste di ascoltare ciò che avete scritto».

Lui non aveva esitato: «Con sommo piacere».

Si era sorpreso lui stesso della prontezza con la quale aveva accettato di esaudire la richiesta: quella piccola donna emanava un fascino a cui non sapeva resistere. In quel preciso momento aveva realizzato che il suo più grande desiderio era compiacerla, in tutto.

 

La lettura del poema era diventata un elemento fondamentale del rito che celebravano ogni pomeriggio. Alagia arrivava con in mano un vassoio di dolcetti, si sedevano uno di fronte all’altra, parlavano un po’ sgranocchiando qualche biscotto o una fetta di torta ripiena, dopo di che lui cominciava a recitare. Alagia ascoltava immobile e silenziosa, ma l’accavallarsi delle sensazioni prodotte in lei da quei racconti glielo si leggeva sul viso. Che paura la lince, il leone ruggente, ancor più paurosa la lupa magrissima e famelica! Che pena quei poveretti insanguinati da vespe e mosconi! Terribile il diavolo Caronte, che incrudeliva con un bastone sulle anime disperate! Ad Alagia, però , sfuggivano molte cose: chi era Virgilio? Chi erano quegli illustri personaggi che parlavano tra loro su un prato all’interno di un grande castello? Allora lui pazientemente le spiegava chi fossero, cosa avessero fatto, quali opere avessero scritto. Gli occhi di Alagia sprizzavano felicità.

Un giorno, quel giorno, lui le aveva annunciato: «Oggi, marchesa, vi leggo un racconto d’amore».

Lei aveva reagito come una bambina che sta per ricevere un premio.

Lui aveva attaccato il canto dei lussuriosi.

 

E proprio come una bambina Alagia seguiva la descrizione della bufera che travolge e sbatacchia di qua e di là le anime dei dannati con un’espressione intenta ma nello stesso tempo diffidente, come se quello spettacolo da cui era attratta potesse da un momento all’altro riservare una brutta sorpresa. Quando però lui aveva cominciato a elencare la lunga sequenza di nomi degli amanti morti per amore la tensione iniziale si era allentata, e dopo poco sul volto di Alagia era comparsa una leggera smorfia di delusione. Il suo sguardo, prima fisso su di lui, adesso vagava dalla finestra al vassoio vuoto appoggiato sul pavimento. Taceva, ma il suo atteggiamento lasciava intendere chiaramente che si aspettava una storia d’amore e non un susseguirsi di nomi di personaggi del tutto sconosciuti.

Poi lui aveva iniziato a recitare:

 

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende.

 

E Alagia si era fatta nuovamente attenta. Seguiva il racconto di Francesca da Rimini immobile come una statua. Lui recitava con fervore. Recitava proprio per lei, per loro, soli come Paolo e Francesca, e lei tratteneva il fiato e lo fissava con occhi luccicanti.

 

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,

prese costui de la bella persona.

 

Gli occhi di Alagia scintillavano, il verde delle iridi era diventato più intenso e più luminoso. Mentre lui leggeva, istintivamente si era sporta in avanti, fin quasi a toccarlo.

 

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

 

Nel silenzio lui percepiva che il respiro di Alagia si era fatto un poco affannoso. Il viso di lei era adesso vicinissimo al suo. I grandi occhi color smeraldo riempivano ormai il suo intero campo visivo.

 

Quando leggemmo il disiato riso

esser baciato da cotanto amante,

questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.

 

Avvinghiati, si rotolarono sul pavimento.


Testo ripreso da  http://www.leparoleelecose.it/?p=41987

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