16 giugno 2022

LIBERARE LA VITA

 


SU “UNA VITA LIBERATA” DI ROBERTO CICCARELLI

Come pensare la liberazione in un’epoca in cui tutto appare irredimibile? Quando tutti, compresi coloro che sentono lo stato delle cose come un peso insostenibile, hanno preso per buona la vulgata del “there is no alternative” (al capitalismo)? Quando tutti, insomma, sono presi nel gorgo della disperazione, ovvero soggetti all’egemonia culturale di quel sistema di cui vorrebbero disfarsi? In questi tempi disperati la liberazione non è letteralmente concepibile, se non come un’apocalisse. L’estinzione globale, l’antropocene, la catastrofe climatica, la pandemia, la guerra: tutto cospira verso l’apocalisse. Non c’è alternativa alla fine del mondo. Che poi sarebbe la fine della vita: per arrivare dunque al paradosso per cui la vita, per liberarsi, deve liberarsi di se stessa, deve autosopprimersi. Ecco, Roberto Ciccarelli, nel suo libro “Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista”, pubblicato da DeriveApprodi, prova a pensare la liberazione come liberazione della vita e non dalla vita. Come vita che, se concepita nella sua potenza, è già essa stessa liberazione.

Per farlo, Ciccarelli ha bisogno di convocare risorse molteplici: è un libro, deleuzianamente, composto da mille e mille piani, moltissimi temi e campi del sapere diversi (a partire, va da sé, da quelli propriamente filosofici che contraddistinguono le opere di Ciccarelli, radicato nel pensiero dell’immanenza che va da Spinoza a Deleuze e nel materialismo storico). Questi mille piani convergono, appunto, nell’analisi critica di un immaginario fondato sul “già divenuto” (il capitalismo è la dimensione ultima, insuperabile, della storia) e nella prefigurazione di un avvenire che è divenire. Come ha scritto Ubaldo Fadini, si può parlare qui di “critica dell’ideologia”, dove l’ideologia è quella del capitalismo globale che giustifica la propria esistenza immortale e imperitura, quel suo essere, per rammentare Debord, “sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna”, una passività indotta proprio anche con la fantasie e i fantasmi dell’apocalisse.

L’apocalisse è uno dei temi teologici fondanti della cultura cristiana, dove però essa preparava il Regno di Dio. L’apocalisse teologicamente intesa è redenzione. L’apocalisse capitalista, invece, è un apocalisse senza redenzione. Davanti a noi c’è solo la fine del mondo, nessuna rinascita. C’è solo disperazione, dove è egemone l’immaginario del capitalismo globale. Una disperazione che viene letta da Ciccarelli spinozianamente, come una mancata connessione tra una conoscenza delle cause e un agire politico creativo ed efficace. La “catastrofe” pandemica è un esempio evidente: è stata vissuta come un evento insensato, un’invasione di ultracorpi from outer space, una “calata degli Hyksos”, extraumana e non imputabile a nessuno, dove invece è un effetto dell’agribusiness globale, con le sue monocolture animali e le sue deforestazioni. Ma questo aspetto immanente al sistema è stato rimosso, nella narrazione mediatica e nelle coscienze, impotenti a dispiegare un’altra piega degli eventi. Ancora una volta, resta solo la fine del mondo, senza un altro mondo possibile.

Eppure, De Martino aveva chiarito molti anni fa come la “fine del mondo” sia cosa ben diversa dalla “fine di un mondo”. Immaginiamo la fine del mondo quando invece dovremmo essere capaci di concepire la fine di questo mondo e, nel medesimo movimento, immaginarne un altro. Immaginare un possibile. (Un po’ di possibile, scriveva Deleuze, o soffoco!). Il terrore reale che si presenta, universalizzato, nelle fantasie apocalittiche è quello della fine del capitalismo, un capitalismo che produce ricchezza per i dominanti e rinserra gli oppressi in impotenti fantasie identitarie, razziste, nazionaliste, immaginate come opposizioni al sistema e in realtà ad esso conformi e complementari. Il terrore reale che si traveste da fine del mondo è quello per la fine di un mondo che promette incessantemente felicità e produce, invece, infelicità diffusa. E’ il terrore per la fine del “capitalista umano”.

Il capitalista umano è il precipitato della trasformazione della forza lavoro – intesa come “facoltà delle facoltà, la più singolare e comune”, produttrice dei valori d’uso, intesa come potenza di vita – in capitale, nel contesto della società degli individui frutto della trasformazione antropologica neoliberale (per cui Ciccarelli recupera il concetto gramsciano di “rivoluzione passiva”); e all’analisi della natura politica dell’individualismo conservatore thatcheriano, che coniuga liberismo e conservatorismo, è dedicato uno dei primi capitoli del libro. “A differenza del liberismo inteso come un potere economico che domina gli individui dall’alto, il neoliberalismo forma i soggetti invitandoli a diventare partner del proprio governo e partecipanti di una razionalità fondata sulle loro azioni imprenditoriali e competitive.”

La società neoliberale è dunque, al medesimo tempo, società della prestazione – un modello di società che si è spacciato per liberazione laddove ha prodotto nuovo asservimento: la figura del nuovo servo è quella dell’imprenditore di sé stesso, votato all’autosfruttamento per rispondere alla incessante richiestività della società, che ti chiede sempre di più, che ti chiede di essere all’altezza di standard sempre più elevati, facendoti inevitabilmente scontrare con il fallimento, che è l’incubo prevalente di chi in questa società è nato e cresciuto. (A proposito del fallimento, Ciccarelli cita quella scheggia di luce di Beckett che recita: “Ho sempre provato. Ho sempre fallito. Non importa. Proverò ancora. Fallirò ancora. Fallirò meglio”. Che va inteso nel senso che “il fallimento non esaurisce il possibile. Al contrario la potenza permane perché il possibile non si attua mai del tutto”.)

La questione è: come si esce dall’impotenza? “Non si può divenire attivi da soli”, risponde Ciccarelli, ancora una volta tornando a Spinoza. “L’impotenza si rovescia in potenza attiva quando l’incontro con gli altri rende possibile concepire moltissime idee, estendere in maniera impensata l’agire e trasformare la natura di ciascuno in un divenire altrimenti di tutti”. Si tratta di praticare la forza che tiene aperto l’orizzonte e impedisce che la vita sia rinchiusa nei rapporti di potere che la rendono servile. Un lavoro simile non può essere individuale. E’ l’esito di una attività cooperativa. Non si dà liberazione senza gli altri. Se sono in molti a rifiutare il dominio, allora esiste una possibilità che la liberazione duri. Se l’insubordinazione si limita ad azioni esemplari o reattive è già sconfitto”.

Si tratta allora di assumere la condizione che l’autore definisce “postuma”, viverla non nel senso di un nichilismo che non ha altra funzione se non quella di conservare “un mondo pietrificato e congelato davanti al terrore dell’impotenza”, ma nel senso di una sperimentazione della vita; non una fine della storia, ma una liberazione della storia dai suoi postumi sperimentando una potenza ulteriore della vita, oltre quella, passiva, che porta a desiderare la fine di tutto. E’ quanto René Char scrisse in un verso folgorante: “la nostra eredità non è preceduta da nessun testamento”. In questo verso Ciccarelli legge “l’intuizione di un’altra politica, quella della liberazione dove i testamenti fatti dai padri non tramandano alcunché ai figli. Una rivoluzione in cui si tratta di “lasciarsi nel tempo dove una rottura avviene in maniera imprevista”. “Viviamo fuori dal tempo tramandato ed ereditiamo quello che i padri e le madri non hanno previsto. Nessun patrimonio è dato per sempre”.

E’, viene da pensare, quel che si agita nelle piazze piene di giovani che reclamano un’altra idea di scuola e di mondo, che contestano l’alternanza scuola lavoro contestando, insieme, ciò che il lavoro è in questa società neoliberale, che lottano per la giustizia climatica. Sono i giovani che desiderano uscire dalle prigioni di sofferenza che i loro corpi possono diventare, e sempre di più sono diventati con l’emergenza pandemica che li ha fatti scontrare ancora di più con l’impasse della vita, col senso di no-future; e per uscirne, provano a reinventarsi un mondo da soli.

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Non si renderebbe piena giustizia al libro, però, se non si riportassero direttamente alcuni passaggi, alcune di quelle che Lea Melandri ha definito “frammenti di lucida intuizione”: Su cui meditare, e discutere. E a partire da cui, possibilmente, agire.

Oggi è più facile riflettere su come moriremo che rispondere alla domanda su cosa può la vita che viviamo. In un orizzonte claustrofobico non sembra esserci resistenza, né creazione.”

Un mondo può finire perché gli oppressi sono riusciti a tagliare i rapporti che li rendono subalterni a un potere specifico, ma non è detto che siano liberi dalle altre oppressioni. Può finire la dipendenza da un mondo coloniale, ma si può continuare ad essere sottomessi a quello capitalistico, al potere patriarcale o alla violenza sessista. L’opera della liberazione è interminabile e richiede una continua politicizzazione dell’esistenza.”

Il problema non è più la forza dell’oppressione, ma la mancanza di strumenti per liberarsi. Un mondo non riesce a finire, e quello nuovo non nasce, perché mancano i linguaggi, i concetti e le prassi che danno una forma al movimento dall’uno all’altro La mentalità apocalittica immobilizza l’esistenza e diffonde la convinzione che esso sia il prodotto di una imposizione dall’esterno. In realtà è l’opposto: la difficoltà di superare la crisi è causata dall’ignoranza delle possibilità storiche a disposizione.”

“Apocalittica è la scoperta che la liberazione non nasce dai mezzi che servono a opprimere, ma da quelli che i subalterni non riescono a creare. Pur sentendo la necessità di cambiare, restano immobili in attesa della fine del loro mondo. “

Apocalittica è la condizione che annienta la possibilità di configurare un uso alternativo della vita al punto da rendere impossibile praticare un’altra vita a partire da questa vita. Apocalittica è la vita che non serve a riprodursi quando si è al servizio del lavoro salariato o precario. Apocalittica è la comprensione di se stessi come vite di scarto e senza impiego, sfruttati senza liberazione, oppressi senza riscatto. Apocalittica è la violenza delle morti quotidiane in cui sopravviviamo.”

La potenza è una relazione tra 

un’attività e una passività che può portare all’isolamento, all’alienazione e alla separatezza oppure al potenziamento, alla gioia e all’estensione non ancora sperimentata dell’esistenza. L’impotenza è un’articolazione di questa relazione e della causa della rinuncia alla sperimentazione di una convenienza con le potenze degli altri, condizione per attualizzare una potenza in maniera virtuosa.”

Pezzo ripreso da  https://www.minimaetmoralia.it/wp/politica/su-una-vita-liberata-di-roberto-ciccarelli/

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