06 giugno 2022

PEDAGOGIA. Conversando con Andrea Canevaro

 



Scuola, meritocrazia e imprevisti


Emilia De Rienzo
06 Giugno 2022

Imparare ad aspettare. Riscoprire il valore delle parole. Sentirsi analfabeti per incontrare e imparare dagli altri, ma anche dagli imprevisti. Reindirizzare la nostra indignazione dalla protesta a qualcosa di costruttivo, attraverso momenti e luoghi che permettano a tutti di avere un riconoscimento di dignità. Smontare continuamente il concetto di integrazione… Azioni per trovare la speranza. Una conversazione di qualche anno fa, ancora molto attuale, con Andrea Canevaro. Una produzione di un laboratorio promosso da Catia Castellani, allieva di Bruno Munari, da anni impegnata nel campo del “disagio sociale” con laboratori di non-didattica dell’arte contemporanea e di arte-attiva per bambini e bambine e insegnanti

“Quando un bambino va a scuola, è come se fosse portato nel bosco, lontano da casa. Ci sono bambini che si riempiono le tasche di sassolini bianchi e li buttano per terra, in modo da saper ritrovare la strada di casa anche di notte, alla luce della luna. Ma ci sono bambini che non riescono a far provvista di sassolini, e lasciano delle briciole di pane secco come traccia per tornare a casa. È una traccia molto fragile e bastano le
formiche a cancellarla: i bambini si perdono nel bosco e non sanno più ritornare a casa. La scuola è come un bosco in cui alcuni sanno ritrovare la propria strada, sanno leggerla e sanno orientarsi (…). Altri bambini passano la giornata nel bosco e anche loro imparano tante cose:
conoscono alberi e piante, animali e insetti, ma alla fine della giornata conoscono anche la paura di non sapersi orientare, di non sapere la strada di casa. Hanno imparato tanto, forse, e lo dimenticano perché non riescono a collegarlo alla traccia e alla memoria della strada di casa: il bosco diventa il posto pauroso in cui si perdono, senza riconoscere le proprie tracce, sempre estranei e sempre respinti…”

(“I bambini che si perdono nel bosco“, Andrea Canevaro)


In un tuo libro della fine degli anni Settanta, hai parlato in modo molto efficace di “bambini che si perdono nel bosco”. La metafora bosco/scuola sembra ancora molto attuale per descrivere la situazione della scuola e di tutti quei bambini che si perdono oggi. È cambiato qualcosa secondo te? 

La scuola sembra ancora un bosco in cui ci si può perdere. Ma in modi diversi da quelli di quando scrissi quel piccolo libro. Il bosco/scuola è attraversabile senza rischi di smarrirsi se si è dei predestinati. E non nel senso di appartenenza famigliare, o almeno così mi sembra. L’appartenenza famigliare non protegge da incursioni che possono scombinare chi cresce. Non posso non indicare le televisioni come responsabili di incursioni disgreganti. Chi cresce è esposto a molte seduzioni che scombinano la vita. Ma non chiedo di organizzare vite di clausura. Mi domando come abbiamo fatto a corrompere a tal punto il linguaggio da utilizzare il termine “merito” e il suo derivato “meritocrazia”. A volte sembra che con meritocrazia si desideri regolare dei conti, in particolare con l’idea  di una scuola aperta e accogliente per tutte e tutti. Mi piace citare Luigi Ciotti, che nel libro La speranza non è in vendita, tra l’altro, scrive: “Dobbiamo augurarci tutti – e noi  adulti per primi – di essere analfabeti. Quell’analfabetismo che non ci fa mai sentire arrivati, chiusi in illusorie certezze, ma disponibili allo stupore da cui nasce prepotente il bisogno di capire”. E aggiungere Rudyard Kipling: “Tutti quelli che ci assomigliano sono Noi, e tutti gli altri sono Loro”. Il merito sembra riconosciuto unicamente se assomiglia al mio, al nostro. Per chi ha questo merito, indipendentemente dalla famiglia da cui proviene, il bosco vuol dire un sentiero tranquillo. Preferisco un merito da scoprire, sentendosi sanamente analfabeti, come aveva fatto Paulo Freire sentendosi analfabeta di fronte a contadini che si ritenevano analfabeti ma conoscevano molte cose che Freire ignorava. Riscopriamo il valore delle parole. Sentiamoci analfabeti. Troveremo la speranza.

Per una certa occasione, ho scritto, e mi autocito con presunzione:

Merito è una parola molto utilizzata, soprattutto nel suo derivato meritocrazia. Uno degli obiettivi, e uno dei vanti, di un certo modo di proporre un progetto politico fa riferimento alla necessità di restaurare i principi meritocratici. Che, nella corruzione delle parole, sono intesi come meriti da confermare. Chi nasce fortunato, e chi nasce sfortunato. Secondo questo presupposto, i principi meritocratici possono essere interpretati come l’individuazione il più possibile precoce dei fortunati, i meritevoli, che devono ricevere tutte le attenzioni. Mentre gli altri, gli sfortunati immeritevoli, devono essere messi in condizione di non far perdere tempo, energie e soldi. Per questo, coerentemente, è non solo inutile ma dannoso come ogni sperpero: organizzare tempo pieno scolastico, insegnanti specializzati per l’integrazione, compresenze, e altri accorgimenti didattici. E nelle università è dannoso perdere tempo, energie e soldi per la ricerca didattica che tenga conto dei bisogni speciali di alcuni, gli sfortunati. In questa impostazione, risultano spese improduttive quelle che riguardano quel settore che viene sovente indicato come “il sociale”, e che si occupa di soggetti problematici (sfortunati e immeritevoli).

Le spese considerate improduttive sono sempre le prime candidate a essere tagliate. È evidente che questa concezione di principi meritocratici ha un risvolto economico di grande importanza. L’individualismo di questi principi é rinforzata, e si rinforza, con una dimensione individualistica dell’economia. Ma una dimensione individualistica dell’economia può avere prospettive di futuro unicamente rinforzando le difese – e quindi spendendo ma in difese… – nei confronti degli altri.

Il merito, e il demerito, come destino, favorevole o avverso, ma sempre individuale. E il merito come carta di credito ricevuta dalla fortuna e che permette di sfuggire al faticoso calcolo della realtà, al pesante sacrificio che rende possibile ciò che si desidera. Mette fuori gioco la fatica del lavoro per un progetto. Mette fatica e strategia al servizio della caccia alla fortuna. Illude che si possa vivere avendo immediatamente ciò che si desidera e che non si è ancora conquistato. E quindi deforma la percezione della realtà: viene ingigantito mostruosamente il presente, cancellando o quasi passato e futuro. È uno dei motivi della diffusione di quel tipo di malessere che chiamiamo “disturbo della bipolarità”, che alterna momenti di euforia e momenti di acuto senso dell’inutilità e del fallimento, e che può portare a consumi rischiosi. 

Trovo molto vero il legame tra meritocrazia e tempo. Quante volte ho sentito pronunciare dagli insegnanti queste frasi: “non perdiamo tempo”, “tu mi fai perdere tempo”. Tutto ciò che “rallenta” viene visto come la perdita di un “qualcosa” non ben definito, ma indiscutibile. Chi è portatore di handicap ci regala come valore fondamentale la riscoperta della lentezza come indispensabile prerogativa per l’ascolto e la costruzione di rapporti profondi. Se la meritocrazia esclude, quindi, i più deboli, non trovi che questo non faccia bene neanche a chi è considerato “normale”? La meritocrazia porta i bambini a negare quella parte di loro che è fragile, porta a nasconderla con delle conseguenze inevitabili. Ricordo proprio dei miei allievi che mi avevano detto quanto un loro compagno con disabilità li aveva aiutati a capire meglio se stessi, anche il loro lato debole e a non sentire più la vergogna di parlarne. La meritocrazia, quindi, non costringe tutti a vivere una vita negando, in un certo senso, una parte di sé? Potersi sentire fragili non aiuterebbe maggiormente i ragazzi ad affrontare i loro problemi e i loro limiti partendo da quello che sono, piuttosto che da un modello che non appartiene loro? Ti faccio queste domande anche per una mia convinzione: una scuola, a misura dei disabili, è una scuola anche a misura di tutti gli altri bambini e bambine, ragazzi e ragazze. Non è questo un messaggio che bisogna portare avanti con tutti gli insegnanti e genitori?

I meriti possono essere promossi attraverso la valorizzazione di chi presenta originalità non previste. Bisogna imparare dagli imprevisti. L’educazione, la formazione, possono realizzarsi se e perché l’altro (allievo) è attivo. Il voler togliersi di torno gli imprevisti vuol dire far ricorso a strumenti che possono sembrare rigorosi come la selezione, la bocciatura, la severità…, e scientifici come i farmaci, i trattamenti differenziati, gli specialismi…. Ma togliersi di torno gli imprevisti vuol dire rinunciare alle innovazioni. Gli economisti ci dicono che questa rinuncia significa declino. Le innovazioni derivano dall’accettazione delle sfide che chi non era previsto ci pone. Le innovazioni didattiche derivano in massima parte dall’incontro con chi non era previsto e può insegnare qualcosa all’insegnante. Ma anche le innovazioni industriali nascono dall’incontro con gli imprevisti. Fanno fare uno scarto rispetto agli standard e alle routines e producono novità che permettono nuovi successi. La medicina è un altro campo in cui le innovazioni positive si producono grazie anche al fatto che i medici non rifiutano di soccorrere chi ha problemi diversi da quelli che erano stati previsti e per cui erano già preparati. Devono porsi nuovi problemi che esigono nuove terapie e non la replica di quelle abituali.

In un convegno tu suggerivi di “fare economia di indignazione”, di indirizzare la nostra indignazione verso priorità, ridefinendo paletti essenziali. A quali priorità e a quali paletti pensavi?

Le nostre giornate sono bombardate da fatti che ci fanno indignare. Il rischio è di banalizzare le indignazioni, indignandoci più volte al giorno in maniera reattiva e frantumata. Potrà sembrare che divaghi, che la prenda molto alla larga parlando di Cervo Mite, un indiano del sud del Dakota nato nel 1903 e morto nel 1974. Diceva:

Tutti noi dobbiamo imparare a vederci come parte di questa Terra, non come un nemico che viene dall’esterno e cerca di imporre la sua volontà. Noi, che conosciamo il Segreto della Pipa, sappiamo anche che, in quanto parte vivente di questa Terra, non possiamo farle violenza senza ferire anche noi stessi.

Cervo Mite può dirci qualcosa di utile per la nostra riflessione. Vederci come parte di questa terra significa ragionare sull’appartenenza. Il Segreto della Pipa, per le nazioni indiane, era l’evocazione di un simbolo ma anche di una possibilità concreta, quella di incontrare l’altro e avere un mediatore, la pipa. La pipa è un simbolo che collega al respiro del mondo, quindi ha una possibilità di non agire unicamente con la propria solitudine, ma aspettare che il respiro del mondo suggerisca. Si potrebbe anche dire “prendere tempo”: invece di scandire immediatamente  le nostre idee, avere un oggetto mediatore che ci impegni e ci permetta di aspettare. Non solo aspettare che una decisione già realizzata nel nostro animo, nella nostra testa, cambi, non esista più, sparisca, ma anche, eventualmente, aspettare per trovare il modo per realizzare quella decisione senza ferire.

In un altro punto Cervo Mite diceva:

Il fumo della nostra sacra Pipa è il respiro del Grande Spirito. Quando noi sediamo insieme e fumiamo la Pipa formiamo un cerchio, che è senza fine e circonda tutto ciò che esiste sulla Terra.

Queste sono evocazioni un po’ romantiche, si potrebbe dire, ma suggeriscono anche degli atteggiamenti pratici che vanno rapportati a qualcosa di invasivo; sono i modelli che per far breve diciamo “televisivi”. Il calumet della pace, la pipa della pace, significano proprio la possibilità di cercare una modulazione di comportamenti e cercare di trasformare una decisione fatta di diversità varie in qualcosa di costruttivo, che permetta a tutti di avere un riconoscimento di dignità. Per farlo bisogna avere occasioni e luoghi. Appuntamenti. Dobbiamo costruirli senza pregiudizi. Anche un centro commerciale può offrire occasioni di appuntamento per mettere insieme persone, ciascuna con la sua originalità o diversità, e cercare insieme di costruire un progetto che permetta di mettere ciascuno le proprie capacità in modo da rispondere ai bisogni di cui ciascuno è portatore. È in parte il kennediano domandarsi cosa possiamo fare per la nostra collettività e soprattutto che cosa le istituzioni possono fare per noi. Sono convinto che la nostra “pipa” sia il dialogo circa i nostri bisogni, le nostre debolezze, le nostre solitudini. Sto vivendo una bella esperienza. Ogni quindici giorni, in una grande area commerciale – l’IperCoop del LungoSavio, a Cesena – per  due ore di un pomeriggio, chi fa la spesa può fermarsi a scambiare due parole su questi  temi per capire come si possano creare reti sociali solidali. La “pipa”/dialogo, superati i tempi inevitabili delle lamentazioni, funziona.

Negli anni Settanta c’è stato un gran movimento che ha fatto sì che molti insegnanti abbiano iniziato a inserire i bambini disabili fino ad allora relegati nelle scuole speciali. Una grande rivoluzione che oggi rischia di avere delle battute d’arresto. Se è vero che hanno contribuito a questo risultato tanti studiosi e psicologi, oggi non c’è un eccesso di “specialismi”? La diagnosi, per esempio, è sicuramente uno strumento importante, ma alla conoscenza del bambino non dovrebbero anche contribuire saperi certamente non “scientifici”, ma ugualmente importanti, frutto dell’esperienza diretta di chi vive la situazione, della stessa persona che viene diagnosticata e dei suoi famigliari, o coetanei, o amici o insegnanti? Non dovrebbe esserci più attenzione e ascolto dei vari punti di vista senza atteggiamenti gerarchici? Ridurre alla diagnosi la diversità del bambino non condiziona anche chi è in relazione con lui?

Sembrerà che la mia risposta sia stravagante e paradossale. Mi piacerebbe immaginare la scomparsa delle diagnosi. È certamente paradossale che la diagnosi, che, anche per la sua etimologia, dovrebbe essere uno strumento per la conoscenza, diventi invece sovente un ostacolo alla conoscenza, che sembra un fatto per gli specialisti. Può così succedere che un insegnante che da un paio di mesi incontra tutti i giorni, e per diverse ore ogni giorno, un bambino o una bambina, ritenga di non sapere niente perché non è ancora arrivata la diagnosi. Spero sia chiaro che la mia risposta è soprattutto dettata dall’uso improprio della diagnosi, diventata, nel nostro paese, un credito esigibile in “sostegni”: se c’è una diagnosi, può esserci un “sostegno”. Ritengo che la domanda contenga ciò che registro sovente nelle scuole: la diversità di chi cresce è condizionata dalla diagnosi, che “chiude” alla conoscenza diretta da parte di chi vive in relazioni quotidiane con quel/la bambino/a. Ciascuno subordina ciò che vive alla “verità” della diagnosi, anche lamentando la sua assenza, i ritardi che possono esserci. Ancora: l’uso improprio della diagnosi è collegata alla “consegna” di chi cresce con la sua diversità (che non ritengo né esclusiva né escludente) al “suo” sostegno, in un rapporto a due che appare la risposta universale. Credo, in buona compagnia, che sia necessario circoscrivere l’utilizzo e l’utilità del rapporto a due e sviluppare una didattica inclusiva che coinvolga tutto il gruppo-classe.

C’è stata in questi ultimi anni un’attenzione superficiale ma straordinariamente ampia ai “Disturbi Specifici di Apprendimento”, alle “Sindromi di iperattività”, a cosa è dovuto questo aumento di diagnosi? Non pensi che ci sia un eccesso di “specialismi”? Non c’è un eccessivo ricorrere a farmaci? 

I farmaci sono utili se non diventano la risposta unica e permanente. Se non dormo e un farmaco mi permette di riposare e riprendere forze, ben venga il farmaco. Ma se diventa il modo permanente e unico per me di dormire e riposare, non è una buona cosa. Dico queste cose semplici, dettate anche e soprattutto dalla mia presunzione di buon senso e dall’esperienza, che non è un merito ma è dovuta all’età. L’impiego di farmaci esige un intenso rapporto con chi ne assicura lo stesso impiego. Non è così, sovente, perché sembra che la prescrizione sostituisca ogni rapporto complementare. Accade purtroppo per situazioni psichiatriche. Mancando le risorse umane, vengono impropriamente sostituite con la prescrizione. Un danno non da poco. Possibile proprio per lo specialismo che induce a credere che vi sia chi – lo specialista – conosce tutto, può tutto, ed è irraggiungibile da chi non è specialista. Si può dire che è “fuori controllo”…

Quanto ai “Disturbi Specifici di Apprendimento”, alle “Sindromi di iperattività”, devo dire che sotto queste indicazioni vi sono situazioni molto varie, che ci fanno capire che anche le cause possono essere varie. Cercando di esprimermi con semplicità, il più delle volte è utile cercare di mettere un po’ d’ordine in vite scombinate, in cui manca un ritmo regolare di sonno e veglia. Sovente, chi sta crescendo con questo tipo di problemi, non dorme bene, e neanche mangia bene. Forse le famiglie possono essere attente a queste cose. Ad esempio: passare dal giorno attivo alla notte di riposo non bruscamente ma attenuando suoni e luci; mangiare insieme, con calma. Non sono cosa da specialismi e da specialisti. Sono praticabili da tutti, se ciascuno assume una parte di responsabilità, collaborando con chi è specialista, e non delegando. 

Non sono in questo modo anche deresponsabilizzati i genitori e gli insegnanti che tendono a delegare, invece che ad affrontare i problemi in prima persona, magari, se necessario, con l’aiuto degli specialisti?

Proprio così. Abbiamo costruito una “integrazione” che finisce per utilizzare in modo ambiguo e contraddittorio la delega. Smontare questo modo senza smontare l’integrazione, anzi… Questa è la sfida che dobbiamo coraggiosamente accogliere.

Pezzo ripreso da  https://comune-info.net/scuola-meritocrazia-e-imprevisti/

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