28 novembre 2023

LA POESIA DI FORUGH FARROKHZAD

 



LA POESIA   IRANIANA 

di Forugh Farrokhzad 

(trad. di Domenico Ingenito)

 

È uscito da poche settimane, a cura di Domenico Ingenito, il volume di versi Io parlo dai confini della notte (Bompiani) della poetessa e regista iraniana Forugh Farrokhzad (1934-1967). L’opera è la prima edizione critica al mondo, completa e senza censura, di una delle più grandi innovatrici della poesia iraniana. Proponiamo alcuni testi.


Testi ripresi da https://www.leparoleelecose.it/?p=48199


 

Angoscia (dalla raccolta Prigioniera, 1955)

 

Il Karun, fiume meridiano,

si snoda sulle spalle nude del paesaggio

come i riccioli scarmigliati di una ragazza.

Il sole cala, e i respiri torridi della notte

sfiorano il petto palpitante delle acque.

 

Lontana dal mio sguardo fisso, inebriata d’amore,

quella sponda meridionale casca

nell’abbraccio luminoso della luna.

La notte, con mille occhi radiosi e insanguinati

cala al capezzale degli amanti immacolati.

 

Il canneto riposa silenzioso

e dal suo fondo scuro

un uccello sconosciuto schiamazza senza sosta.

Si affretta il chiaro di luna per vedere

cosa accade all’uccellino preso nella morsa del terrore.

 

Per la brezza sensuale di mezzanotte

l’ombra delle palme nella sponda

trema sulle acque di quel delta.

Il verso sordo del brusio delle rane

si insinua nel silenzio misterioso della notte.

 

Nel rapimento scaturito dalla bellezza notturna

il sogno remoto della tua presenza si fa più vicino.

Laggiù l’odore tuo fluttua tra le acque,

i tuoi occhi brillano per poi rabbuiarsi.

 

Povero quel cuore

che con tutto l’ardore e la speranza

si spezzò per mano tua, prigione poi del mio amarti.

 

O ramo divelto dalla tempesta di questo amare,

te ne vai alla deriva del tuo delta,

te ne vai via da questa terra.

 

(Ahvaz, estate 1955)

 

 

Nuda nella fonte (dalla raccolta Il muro, 1956)

 

Mi denudai in un’aria dolce e serena

per bagnare la mia figura nell’acqua della fonte.

La notte silenziosa suggeriva al cuore sottovoce

di confidare alla fonte il dolore riposto in petto.

 

L’acqua era fresca e i flutti, brillando,

mi accarezzavano nel sussurro di passione.

Come mani morbide e cristalline

li sentivo trarre a sé il mio corpo, il mio spirito.

 

Da lontano una brezza mi scorreva addosso

versandomi sui capelli un grappolo di fiori.

L’alito di vento mi soffiava piano nelle narici

un odore di mentuccia, incantevole e pungente.

 

Socchiudendo gli occhi silenziosa e serena

strinsi il mio corpo all’erba morbida e umida.

Come una donna che riposa sul petto dell’amato

mi concessi tutta alle mani della fonte.

 

Le labbra dell’acqua mi tremavano sulle cosce

baciandomi con fervore, nella sete di un fremito febbrile.

E d’un tratto la mia figura e l’anima lasciva della fonte

scivolarono l’una dentro l’altra inebriate dall’orgasmo.

 

 

 

 

Dalla raccolta Una rinascita (1964):

 

Nel sorgere del sole

 

Guarda, il dolore nei miei occhi

scivola via goccia a goccia come l’acqua,

guarda come la mia ombra nera e ribelle

è dominata dal sole

guarda

si disfa la mia vita intera

una scintilla mi trascina al desiderio

e mi spinge all’estasi

mi trascina all’inganno

guarda

come tutto il mio cielo

è solcato da stelle cadenti.

 

**

Sei arrivato dai luoghi remotissimi, tu,

dalla terra di bagliori e profumi,

adesso mi distendi in una barca

fatta d’avorio, nuvole e cristalli:

portami via, mia speranza, carezza del cuore,

portami via, nella città dei versi e dei fervori.

 

Mi trascini lungo il sentiero costellato di astri,

mi hai distesa oltre la stella,

guardami,

io sono arsa dalla stella

da lato a lato, infiammata dalle stelle

come i pesci dal petto rosso che semplice hanno il cuore,

stringo a me le stelle negli stagni della notte.

 

Quanto lontana era prima d’ora la nostra terra,

adesso in questo azzurro, nelle dimore del cielo

mi sovviene di nuovo

la tua voce,

il fruscio delle ali innevate degli angeli

e guarda fino a dove sono arrivata

alla via lattea, oltre lo spazio e l’eterno.

 

Adesso che giungiamo sino al culmine

lava il mio corpo con il vino delle onde

avvolgimi nella seta del tuo bacio

desiderami nelle notti senza fine

e non lasciarmi,

non separarmi più da queste stelle.

 

**

 

Guarda, come la cera della notte sui nostri sospiri

goccia a goccia diventa seme,

la coppa nera dei miei occhi

nella tua nenia calda

da lato a lato trabocca col vino del sonno,

affàcciati sulla culla dei miei versi

e guarda,

tu ti stagli

nel sorgere del sole.

 

 

Per le acque verdi dell’estate

 

Più sola di una foglia

e gravata da felicità abbandonate

mi affido serenamente

alle acque verdi dell’estate

verso il terreno della morte

verso la riva di dolori autunnali

abbandonando me stessa a un’ombra,

l’ombra screditata dell’amore

sotto l’ombra di fortuna fugace

all’ombra di ogni evanescenza.

 

Quando a notte nel tristissimo spazio del cielo

gravita una brezza stordita

quando a notte una nebbia insanguinata

scivola per i vicoli azzurri delle vene

quando a notte siamo soli

con il brivido dello spirito, solo allora

dentro i nostri polsi freme questo

morboso senso d’essere.

 

“Mistero che ti celi nell’attesa delle valli”

incisero per le vette dei monti

su costoni spaventosi

coloro che cadendo a notte

colmavano il silenzio delle cime

con amarissimi scongiuri.

 

“La pace delle mani vuote

non si trova nei pugni stretti,

sublime silenzio delle rovine.”

Questo cantava una donna nelle acque

per le acque verdi dell’estate

– si diceva vivesse tra rovine.

 

Noi ci macchiamo l’un l’altro

con il fiato

macchiati noi da pietà di sorte

temiamo la voce del vento,

impallidiamo quando le ombre del dubbio

penetrano i giardini dei nostri baci,

e in tutte le feste nel castello di luce

tremiamo nel terrore di rovina.

 

**

 

Adesso sei qui

ti spandi come aroma di acacia

nei vicoli del mattino.

Pesante, sul mio petto,

bruciante, tra le mani,

arso, sconvolto, abbandonato ai miei capelli

adesso sei qui.

 

Qualcosa di oscuro, denso, immenso

qualcosa di turbato, come voce lontana del giorno,

ruota e si diffonde

per le mie pupille stravolte.

Forse mi attingono da fonti

forse mi colgono da rami

forse mi chiudono come porta

sugli istanti imminenti, forse

io non riesco più a vedere.

 

**

 

Noi crescemmo da vano terreno

piovemmo su vano terreno

vedemmo il Nulla sui sentieri:

avanzava sovrano sul dorso

del suo giallo cavallo alato.

 

Poveri noi, baciati da pace e fortuna

addolorati e silenziosi

nella gioia d’amare, poveri,

per amore che è ingiuria

 

Versetti terrestri

 

Allora poi

raggelatosi il sole

la grazia abbandonò i campi.

 

L’erba riarse nelle valli verdeggianti,

si seccarono i pesci nei mari

e il suolo cessò di accogliere

i morti.

 

In tutte le finestre impallidite

come immaginazione equivoca

la notte si addensava straripando

e le strade cedevano le curve

alle braccia del buio.

 

Nessuno pensò più all’amore,

nessuno pensò più al possesso,

poi, nessuno più

pensò a nulla.

 

Nelle caverne di solitudine

il vacuo venne al mondo

il sangue si appestava d’oppio

le donne incinte

partorivano neonati senza testa.

Le culle, vergognose,

si rifugiavano nelle tombe.

 

Un giorno amarissimo, nerissimo,

venne a mancare al pane,

la forza gloriosa della vocazione.

I profeti, affamati, sventurati,

sfuggirono alla presenza divina

e gli agnelli smarriti del Messia

persero il richiamo dei pastori

nello stupore degli altopiani.

 

Pareva che negli occhi

gli specchi riflettessero

le immagini distorte di gesti e colori

e in cima al cappello dei pagliacci

sui volti sfacciati delle puttane

come un cerchio che sfavilla

bruciasse un’aura di luce sacra.

 

Le paludi etiliche

con i loro vapori

acremente tossici

risucchiavano le masse inerti d’intellettuali,

subdoli i ratti

nei vecchi ripostigli

masticavano i fogli dorati dei manoscritti.

 

Il sole era morto

il sole era morto

e il senso del domani, vacuo,

svaniva dalla mente dei fanciulli.

 

Domani, una parola disusata e oscura

che segnavano

sui quaderni

con grosse macchie nere.

 

La gente

il consesso estinto della gente

afflitta, scarna e smarrita

sotto il peso funesto delle salme

vagava di nostalgia in nostalgia

e si gonfiava nelle proprie mani

il desiderio doloroso di delitti.

 

Una scintilla poi d’un tratto

povera cosa

consumava dall’interno

questa folla esanime e quieta

gli uomini si scannavano

recidendosi le gole

per poi andare a coricarsi

con piccole bambine

nelle alcove del sangue.

 

Sprofondavano nel proprio panico,

il senso spaventoso di un peccare

paralizzava i loro spiriti

orbi e ottusi.

 

Durante il rito dell’esecuzione

quando la forca spingeva

fuori dalle orbite

gli occhi straziati di un condannato,

loro, con nervi aridi e logori,

meditavano, compassati,

trafitti da un pensiero di lussuria.

 

Lungo i margini delle piazze poi

vedevi questi piccoli criminali

in piedi, fermi,

a fissare

lo scrosciare d’acqua dalle fonti.

 

**

 

Ma forse, dopotutto,

nelle profondità del gelo

oltre tutti quegli occhi schiacciati

restava qualcosa di confuso e vivo per metà

che nel suo sforzo spento desiderava credere

alla purezza del canto delle acque.

Eppure, come fare con quel vuoto senza fine?

 

Il sole si era estinto e nessuno sapeva

che quella triste colomba

fuggita da ogni cuore

recava il nome della fede.

 

**

 

Ascolta, o voce imprigionata,

potrà mai lo splendore

della tua disperazione

aprire un varco verso la luce

nel mezzo di questa notte infausta?

Ah, voce imprigionata,

o ultima voce delle voci.

 

Poesie postume:

 

Nulla resta se non il suono (dalla raccolta Crediamo pure all’inizio della stagione fredda)

 

Perché fermarmi, perché?

Gli uccelli sono andati alla ricerca di un lato azzurro

orizzonte verticale

orizzonte verticale, movimento che scaturisce

e nei margini del vedere

ruotano pianeti luminosi,

nella sua elevazione la terra si ripete

e i vuoti d’aria

si trasformano in connessioni sotterranee

e il giorno è un’immensità

che non entra nel ristretto immaginare dei tarli dei giornali.

 

Perché fermarmi?

Attraverso i capillari della vita

la qualità del terreno di coltura

per l’utero della luna ucciderà le cellule infette

e nello spazio chimico che segue l’alba

c’è solo il suono,

suono poi dissolto nelle molecole del tempo

perché fermarmi?

Cosa sarà mai l’acquitrino,

cosa sarà mai se non il luogo dove insetti infetti depongono le uova?

 

Le salme tumefatte

schedano i pensieri della cella frigorifera.

L’uomo infame nasconde nel buio

la sua vigliaccheria

e lo scarafaggio, ah,

se lo scarafaggio comincia a parlare

perché fermarmi?

Non ha valore l’aiuto dei caratteri mobili,

l’ausilio dei caratteri di piombo

non ci salverà dal pensiero meschino,

mi ammalo nel respiro dell’aria viziata,

un uccello morto mi consigliò di ricordarmi del volo.

 

Il fine ultimo di tutte le forze è quello di unirsi,

unirsi al principio luminoso del sole

e sfociare nell’intelletto della luce.

È naturale

che marciscano i mulini a vento.

Perché fermarmi?

Io spingo sotto il seno

le spighe verdi del grano

per allattarle,

è il suono, il suono, il suono

il suono del desiderio limpido che l’acqua ha di scorrere

il suono del riversarsi luminoso della stella

sulle pareti femminee del suolo

il suono del seme che si rapprende in senso

il dilatarsi della mente condivisa dell’amore

il suono, il suono, il suono solo il suono resta.

 

Nella terra della gente bassa

i criteri della misura

viaggiano sempre sul meridiano zero,

perché fermarmi?

Io mi conformo ai quattro elementi

e la stesura delle norme del mio cuore

non pertiene al governo locale dei ciechi.

 

Cosa farmene del lungo gemito selvatico

dell’organo sessuale degli animali?

Cosa farmene del movimento infimo di un verme nelle cavità della carne?

Un legame di sangue con i fiori mi obbliga a vivere,

sapete voi del legame di sangue con i fiori?

 

[Novembre / dicembre 1966]

 

Erezione suicida (testo scritto a quattro mani con Yadollah Roya’i poche settimane prima della morte di Farrokhzad)

 

Erezione suicida

vena trasversale, vena occlusa

pressione di massa intorpidita

incarnazione del respiro, convulsione della seta

scollarsi dalla cornice, sversamento del sospiro

liberazione che discende.

Un saluto

saluti dall’elevazione

e invitami

al livello dell’umidità

invitami alle contorsioni

alla febbre della carne

invitami al buio della falena nera

alla voluttà del fiore carnivoro

alla costola, al periodo, invitami

al termine del canale d’acqua,

invitami

al fossato del tuo essere femmina

dentro al nucleo triangolare

invitami

al dischiudersi e contrarsi

in questo spazio uncinato, spietato

vuoto di mormorio

pieno di crolli

 

invitami

all’eiaculare

il folle eiaculare

 

la discesa della forza muscolare

passaggio nello zolfo

respirare nell’androne

soffocare

circuirsi

 

sobbalzare nella letargia

sobbalzare nel sonno

oblio delle palpebre

generalità di palude…

 

Aaah…

è il suono del fumo?

È una luna solitaria.

 

[Inverno 1967]

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