23 novembre 2023

LA "VECCHIA QUERCIA" di KEN LOACH

 



Sappiamo far crescere le querce?

Carlo Ridolfi
22 Novembre 2023

“La vecchia quercia” è un pub inglese di un sobborgo di Durham, cittadina segnata dall’arrivo di profughi, dalla solitudine e dalla noia degli anziani e dei giovani, dalla storia di quel lungo sciopero del 1984 vinto da Margaret Thatcher, ma anche da tentativi di solidarietà, da molta musica e dal cibo la cui condivisione è terreno di incontro. Il mondo, anche quello di un microcosmo urbano, è imperfetto. E tuttavia da questa imperfezione – che va compresa, accettata e spiegata – possono scaturire forza, solidarietà e resistenza, sembra dire The Old Oak, il film di Ken Loach. “Perché abbiamo bisogno, come l’aria l’acqua e la terra che fanno crescere le querce – scrive Carlo Ridolfi -, di tenaci compagni e compagne con cui percorrere dei tratti di strada…”

Roma, 15 novembre 2023. Ken Loach nello spazio sociale SPIN TIME LABS: «Quello che succede qui è spettacolare: dare una casa a chi non ha un tetto, dare speranza a chi non ne ha. Di tutte le cose fantastiche che state facendo, la cosa più importante è dare ai bambini un’infanzia di cui possano essere orgogliosi… Anche se non faceste nient’altro questo sarebbe già una grande risultato. Se c’è una dimostrazione della speranza siete voi. La speranza è una questione politica: non è incrociare le dita ed esprimere un desiderio. Deve essere basata sul pensiero reale che siamo sufficientemente forti da realizzare un cambiamento…»

THE OLD OAK (UK, Francia, Belgio, 2023). regìa: Ken Loach.
Sceneggiatura: Paul Laverty;
fotografia: Robbie Ryan;
montaggio: Jonathan Morris;
scenografia: Fergus Clegg;
costumi: Jo Slater;
musica: George Fenton;
con: Dave Turner (T.J. Ballantyne), Ebla Mari (Yara), Debbie Honeywood (Tania), Chris Gotts (Jaffa Cake);
produzione: Rebecca O’Brien per Sixteen Films, Studio Canal UK, Why Not Productions, Les Films du Fleuve;
distribuzione: Lucky Red;
durata: 113’.

“La vecchia quercia” è un pub di un sobborgo di Durham, nord est dell’Inghilterra. Gestito da T.J. Ballantyne (Dave Turner), uomo solitario e di poche parole. È l’unico spazio rimasto pubblico, dopo la chiusura delle sale della parrocchia e di ogni altro luogo di riunione.

“The old oak” è il ventisettesimo lungometraggio di Ken Loach e il quattordicesimo scritto insieme a Paul Laverty, grande sceneggiatore che aveva iniziato a lavorare con Loach dal 1996 de La canzone di Carla.

Ken Loach ha 87 anni. Laverty ventuno di meno. È forse la prima volta, nel corso della loro ormai lunga collaborazione, che uniscono a un racconto (come sempre) esemplare per puntualità di ricostruzione storica e attenzione all’attualità una riflessione di grande profondità sul senso della ripresa e della riproduzione delle immagini. Fisse e in movimento. Il film si apre con una serie di fermo immagine/fotografie in bianco e nero e si conclude con il viraggio dal colore al bianco e nero della sequenza finale.

Nel corso della storia, moltissimi altri momenti vedranno la fotografia come protagonista: a partire dalla co-protagonista stessa, la giovane Yara (Ebla Mari), giunta a Durham con la propria famiglia dopo la fuga dalla Siria del dittatore Bashar al-Assad.

Yara è appassionata di fotografia e l’incontro con T.J. avviene proprio a causa dell’accidentale ma provocato danneggiamento della sua preziosa macchina fotografica. Così come nella stanza su retro del pub, luogo che assumerà un ruolo decisivo nel corso del racconto, sono conservate fotografie che ricordano il passato di Durham come importante centro minerario: le feste dei minatori e delle loro famiglie; il disastro del 1940 alla miniera di Sacriston, che causò cinque vittime; il lungo sciopero del 1984, culmine dello storico scontro tra sindacato e governo di Margaret Thatcher, vinto da quest’ultima e segno incancellabile (insieme alla coeva affermazione delle politiche del presidente Ronald Reagan negli Stati Uniti) del trionfo cruento e letale della violenza neoliberista.

Loach e Laverty riescono a toccar da par loro, quindi, molti temi.

L’arrivo di profughi in una cittadina già molto provata sul piano economico e sociale e la conseguente dialettica tra persone del luogo che vorrebbero aiutarli e altri intransigenti, poveri appena meno di loro, che ne chiederebbero l’espulsione (si potrebbero chiudere gli occhi e certi dialoghi risuonerebbero praticamente uguali in qualche bar del Veneto o della Lombardia).

La solitudine e la noia improduttiva sia degli anziani che dei giovani, alle quali si risponde con la maldicenza e l’alcolismo da un lato, con il bullismo violento e la sua conclamazione a mezzo social dall’altro.

L’assenza di speranza (“La speranza è oscena”, viene detto) e, al contempo, la necessità vitale di conservarne almeno un barlume (“Se smetto di sperare il mio cuore smette di battere”, dirà Yara).

I tentativi di solidarietà, che passano attraverso il volontariato, dopo la scarnificazione sempre più feroce dello Stato sociale.

La diversità di lingua, di cultura, di religione, che può esser considerata sia un ostacolo alla convivenza che una risorsa per arricchirsi reciprocamente (i prodromi di educazione linguistica ai quali viene invitato T.J. quando impara il suono e il senso di quella bellissima parola araba che è shukràn/grazie).

Il cibo e la sua condivisione come terreno di incontro e di comprensione. (tuttavia senza illudersi che questo basti a superare motivi e ragioni di distanza, come troppa “pedagogia del couscous” di questi anni ci ha abituato a credere).

La musica popolare e quella colta, che segnano due momenti importantissimi del film. Quando nella stanza riaperta al pubblico per pasti di comunità vengono proiettate le fotografie con un commento musicale dal vivo eseguito da un musicista arabo. E quando, con una escursione apparentemente inedita nel cinema di Loach nei territori della spiritualità, ma in piena coerenza su ciò che si sta raccontando e su come lo si racconta, la stessa Yara assiste da lontano alle prove del coro della cattedrale di Durham.

A tutto ciò, e non sarebbe poco, va aggiunta la grande capacità di regìa e sceneggiatura sia di rifuggire dalle facili tentazioni retoriche e didascaliche (Loach non indugia mai sul compiacimento delle facili emozioni, chiudendo con dissolvenze al nero molti momenti che se prolungati avrebbero sconfinato nel dolciastro), sia di lavorare su corpi e volti di donne e di uomini credibilissimi e del tutto realistici (uno dei grandi meriti della intera cinematografia di Loach, a mio parere, è sempre stato quello di scelte di casting lontanissime dal facile ricorso a divi e dive spesso plastificati, con un lavoro sui volti e sugli sguardi che andrebbe studiato a fondo).

Come la “k” dell’insegna del locale che non resta mai al suo posto, il film di Ken Loach non racconta né di facili happy ends né di giudizi manichei a causa dei quali i buoni stanno tutti da una parte e i cattivi tutti dall’altra. I suoi personaggi, sia quelli principali che quelli secondari, sono descritti con una profondità di indagine psicologica e sociologica davvero esemplare.

Il mondo, anche quello di un microcosmo urbano, è imperfetto. E tuttavia da questa imperfezione – che va accettata, compresa, conosciuta e spiegata – possono scaturire forza, solidarietà e resistenza. Perché abbiamo bisogno, come l’aria l’acqua e la terra che fanno crescere le querce, di tenaci compagni e compagne con cui percorrere dei tratti di strada.

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