16 novembre 2024

E. JUNGER CON LA SUA BRILLANTE PROSA RIUSCI' A FAR DIMENTICARE GLI ORRORI DELLA GUERRA

 


La Grande Guerra fu un grande massacro. 10 milioni di morti. Un orrore prolungato per quattro anni. Danni materiali e morali sparsi ovunque sui campi di battaglia e nelle retrovie. Di fronte a tutto questo, alcuni scrittori avvertirono il bisogno di prendere le distanze come se avessero voluto ristabilire un equilibrio. Ricorsero in tal modo alla metafora della montagna. Anche tra la gente comune avvenne qualcosa di simile. Un culto della montagna come luogo puro, lontano dalle brutture del mondo, si andò sviluppando nel dopoguerra e ci furono dei pellegrinaggi ristoratori in cerca di una superiore armonia e ci fu perfino una produzione cinematografica con i film di Luis Trenker. Già Henri Barbusse nel 1916, nel romanzo Il fuoco, aveva previsto uno scenario introduttivo che si svolgeva in un sanatorio di montagna, accanto al Monte Bianco. Thomas Mann nel 1924 pubblicò La montagna magica, una narrazione tutta imperniata sul lungo soggiorno del protagonista, Hans Castorp, in un sanatorio di lusso a Davos, in Svizzera, su un altopiano incantato, aperto verso il cielo e lontano dalla pianura, dalla vita e dal grigiore delle occupazioni quotidiane. Nel 1939, quando la nuova guerra non era ancora iniziata, Ernst Jünger - che aveva alle spalle l'esperienza del precedente, grande conflitto - riprese il tema dello sguardo dall'alto sulla valle dove si svolgeva la normale esistenza degli esseri umani. 

 

Jünger scrive in una prosa dura e lucida che spesso lascia nel lettore un'impressione dell'imperturbabile considerazione che l'autore ha per sè stesso, un'impressione di dandismo, di sovrana freddezza, e alla fine di banalità. Ma anche le pagine meno promettenti s'illuminano all'improvviso per un lampo di genialità aforistica, e le descrizioni più strazianti sono sempre attenuate da un desiderio di valori umani in un mondo disumanizzato.

 

Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrevocabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi. Le immagini risorgono, più ancora allettanti nell’alone del ricordo, e vi ripensiamo come al corpo di una donna amata, che morta riposa nella profonda terra e che simile a un miraggio riappare, circonfusa di spirituale splendore, suscitando in noi un brivido di sgomento. Sempre di nuovo ritroviamo negli affannosi sogni il passato, in ogni suo aspetto, e come ciechi brancoliamo verso di esso. La coppa della vita e dell’amore ci sembra non essere stata colma fino all’orlo, per noi, e nessun rimpianto vale a ridonarci tutto ciò che non abbiamo avuto. Oh, fosse questa tristezza d’insegnamento per ogni nuovo attimo di felicità.

A valle e all'orizzonte la Marina appariva disseminata attorno di piccole città con mura e torri ancora dell'epoca romana e castelli merovingi sovrastanti e cattedrali ingrigite dal tempo. Tra l'una e l'altra città giacevano grosse borgate, e quivi, attorno ai comignoli, sciami di colombe svolazzavano; e vi erano i mulini, verdastri per il musco, verso i quali si vedevano gli asini trotterellare in autunno, con i loro sacchi ricolmi; e castelli annidati su alte rocce, e conventi dalle oscure mura e dagli stagni pescosi, nei quali la luce si rifletteva scintillando come in uno specchio. 
Se da quelle alte balze rocciose noi contemplavamo le città erette dall'uomo per suo albergo e conforto, per viverci e per adorarvi gli dei, gli evi si confondevano l'un l'altro ai nostri sguardi, e quasi uscendo dai sepolcri aperti, i morti invisibilmente si radunavano intorno a noi. Essi, i morti, sono sempre a noi vicini, quando il nostro sguardo si posa pieno d'amore su paesi edificati in antiche età; e come la opera loro prosegue a vivere in quelle pietre e nel solco dei campi, così il loro spirito [aleggia] fedelmente protettore sui paesi e sulla terra.
Alle nostre spalle, verso settentrione, si stendeva la Campagna sino a trovare il suo confine sulle Scogliere di Marmo, che la separavano dalla Marina, simili ad un bastione. Questa cita di prateria si protendeva in primavera come un soffice tappeto fiorito, nel quale i greggi di manzi andavano lentamente pascolando, quasi nuotassero in una variopinta spuma. Nel meriggio i greggi riposavano alla fresca ombra degli ontani e dei pioppi, che formavano isole frondose nell'ampia pianura, donde di frequente saliva il denso fumo dei fuochi accesi dai pastori. Si scorgevano inoltre, sparse lontane, le grandi fattorie con stalle e fienili, alti da terra, che adducevano l'acqua delle sorgenti agli abbeveratoi.
L'estate quivi era assai calda e umida, mentre l'autunno, quando i serpenti vanno in amore, questa striscia di terra era come una steppa desertica, solitaria e bruciata. Al suo margine opposto, essa confinava con una palude, e in quella regione non vi era più traccia di abitazione umana. Quivi solo capanne fatte di un intreccio grossolano di giunchi, come se ne costruiscono per la caccia delle anatre, vi erano rade sulle rive degli oscuri paduli, e tra i rami degli ontani sedili nascosti erano foggiati, simili a nidi di cornacchie. Questa zona era già dominio del Forestaro, e di qui il terreno cominciava ad elevarsi e aveva inizio la foresta. Dai margini di questa, a guisa di larghe falci, dal popolo denominate le Corna, strisce boscose si protendevano nella zona dei pascoli. 
Tale era la regione, che dalle Scogliere di Marmo il nostro sguardo poteva abbracciare; e vedevamo da queste guglie la vita, che radicata nella terra antica e ben educata e disciplinata, al modo come il vignaiolo fa con la vigna, sbocciava e dava frutto; e anche vedevamo i limiti e i confini di quella forma di vita, cioè le montagne, tra le cui cime la libertà aveva dimora, ma presso popolazioni barbariche e incolte; e a settentrione infine le terre paludose e oscure, donde la sanguinosa tirannide minacciava.
Assai di frequente, quando sedevamo insieme in cima alle guglie rocciose, noi consideravamo quante cose siano necessarie, perché il grano venga infine raccolto e se ne faccia il pane e perché lo Spirito possa con sicurezza aprire le ali al volo. 

Ernst Jünger, Sulle scogliere di marmo, traduzione di Alessandro Pellegrini, Mondadori, Milano, 1942


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