La Grande Guerra fu un grande massacro. 10
milioni di morti. Un orrore prolungato per quattro anni. Danni materiali e
morali sparsi ovunque sui campi di battaglia e nelle retrovie. Di fronte a
tutto questo, alcuni scrittori avvertirono il bisogno di prendere le distanze
come se avessero voluto ristabilire un equilibrio. Ricorsero in tal modo alla
metafora della montagna. Anche tra la gente comune avvenne qualcosa di simile.
Un culto della montagna come luogo puro, lontano dalle brutture del mondo, si
andò sviluppando nel dopoguerra e ci furono dei pellegrinaggi ristoratori in
cerca di una superiore armonia e ci fu perfino una produzione cinematografica
con i film di Luis Trenker. Già Henri Barbusse nel 1916, nel romanzo Il
fuoco, aveva previsto uno scenario introduttivo che si svolgeva in un
sanatorio di montagna, accanto al Monte Bianco. Thomas Mann nel 1924
pubblicò La montagna magica, una narrazione tutta imperniata sul
lungo soggiorno del protagonista, Hans Castorp, in un sanatorio di lusso a
Davos, in Svizzera, su un altopiano incantato, aperto verso il cielo e
lontano dalla pianura, dalla vita e dal grigiore delle occupazioni quotidiane.
Nel 1939, quando la nuova guerra non era ancora iniziata, Ernst Jünger -
che aveva alle spalle l'esperienza del precedente, grande conflitto - riprese
il tema dello sguardo dall'alto sulla valle dove si svolgeva la normale
esistenza degli esseri umani.
Jünger scrive in una prosa dura e lucida che spesso
lascia nel lettore un'impressione dell'imperturbabile considerazione che
l'autore ha per sè stesso, un'impressione di dandismo, di sovrana
freddezza, e alla fine di banalità. Ma anche le pagine meno promettenti
s'illuminano all'improvviso per un lampo di genialità aforistica, e
le descrizioni più strazianti sono sempre attenuate da un desiderio di
valori umani in un mondo disumanizzato.
Voi tutti conoscete la
selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è
irrevocabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale
si sia lontananza di luoghi. Le immagini risorgono, più ancora allettanti
nell’alone del ricordo, e vi ripensiamo come al corpo di una donna amata, che
morta riposa nella profonda terra e che simile a un miraggio riappare,
circonfusa di spirituale splendore, suscitando in noi un brivido di sgomento.
Sempre di nuovo ritroviamo negli affannosi sogni il passato, in ogni suo
aspetto, e come ciechi brancoliamo verso di esso. La coppa della vita e
dell’amore ci sembra non essere stata colma fino all’orlo, per noi, e nessun
rimpianto vale a ridonarci tutto ciò che non abbiamo avuto. Oh, fosse questa
tristezza d’insegnamento per ogni nuovo attimo di felicità.
A valle e all'orizzonte la
Marina appariva disseminata attorno di piccole città con mura e torri ancora
dell'epoca romana e castelli merovingi sovrastanti e cattedrali ingrigite dal
tempo. Tra l'una e l'altra città giacevano grosse borgate, e quivi, attorno ai
comignoli, sciami di colombe svolazzavano; e vi erano i mulini, verdastri per
il musco, verso i quali si vedevano gli asini trotterellare in autunno, con i
loro sacchi ricolmi; e castelli annidati su alte rocce, e conventi dalle oscure
mura e dagli stagni pescosi, nei quali la luce si rifletteva scintillando come
in uno specchio.
Se da quelle alte balze rocciose noi contemplavamo le città erette dall'uomo
per suo albergo e conforto, per viverci e per adorarvi gli dei, gli evi si
confondevano l'un l'altro ai nostri sguardi, e quasi uscendo dai sepolcri
aperti, i morti invisibilmente si radunavano intorno a noi. Essi, i morti, sono
sempre a noi vicini, quando il nostro sguardo si posa pieno d'amore su paesi
edificati in antiche età; e come la opera loro prosegue a vivere in quelle
pietre e nel solco dei campi, così il loro spirito [aleggia] fedelmente
protettore sui paesi e sulla terra.
Alle nostre spalle, verso settentrione, si stendeva la Campagna sino a trovare
il suo confine sulle Scogliere di Marmo, che la separavano dalla Marina, simili
ad un bastione. Questa cita di prateria si protendeva in primavera come un
soffice tappeto fiorito, nel quale i greggi di manzi andavano lentamente
pascolando, quasi nuotassero in una variopinta spuma. Nel meriggio i greggi
riposavano alla fresca ombra degli ontani e dei pioppi, che formavano isole
frondose nell'ampia pianura, donde di frequente saliva il denso fumo dei fuochi
accesi dai pastori. Si scorgevano inoltre, sparse lontane, le grandi fattorie
con stalle e fienili, alti da terra, che adducevano l'acqua delle sorgenti agli
abbeveratoi.
L'estate quivi era assai calda e umida, mentre l'autunno, quando i serpenti
vanno in amore, questa striscia di terra era come una steppa desertica,
solitaria e bruciata. Al suo margine opposto, essa confinava con una palude, e
in quella regione non vi era più traccia di abitazione umana. Quivi solo
capanne fatte di un intreccio grossolano di giunchi, come se ne costruiscono
per la caccia delle anatre, vi erano rade sulle rive degli oscuri paduli, e tra
i rami degli ontani sedili nascosti erano foggiati, simili a nidi di
cornacchie. Questa zona era già dominio del Forestaro, e di qui il terreno
cominciava ad elevarsi e aveva inizio la foresta. Dai margini di questa, a
guisa di larghe falci, dal popolo denominate le Corna, strisce boscose si
protendevano nella zona dei pascoli.
Tale era la regione, che dalle Scogliere di Marmo il nostro sguardo poteva
abbracciare; e vedevamo da queste guglie la vita, che radicata nella terra
antica e ben educata e disciplinata, al modo come il vignaiolo fa con la vigna,
sbocciava e dava frutto; e anche vedevamo i limiti e i confini di quella forma
di vita, cioè le montagne, tra le cui cime la libertà aveva dimora, ma presso
popolazioni barbariche e incolte; e a settentrione infine le terre paludose e
oscure, donde la sanguinosa tirannide minacciava.
Assai di frequente, quando sedevamo insieme in cima alle guglie rocciose, noi
consideravamo quante cose siano necessarie, perché il grano venga infine
raccolto e se ne faccia il pane e perché lo Spirito possa con sicurezza aprire
le ali al volo.
Ernst Jünger, Sulle scogliere di marmo,
traduzione di Alessandro Pellegrini, Mondadori, Milano, 1942
Nessun commento:
Posta un commento