Ieri su DIALOGHI
MEDITERRANEI , recensendo un bel libro di Giuseppe Muraca dedicato alle riviste
culturali italiane del secondo 900, mi sono soffermato particolarmente nell'
analisi della celebre rivista di Elio Vittorini, convinto come sono dell'
attualità di quel progetto.
Mi è stato obiettato che è
improponibile oggi una rivista come IL POLITECNICO perché viviamo in un’epoca
storica profondamente diversa da quella che ha generato quel progetto. L’obiezione
ha più di un fondamento ma è anche vero che oggi, come ai tempi di Vittorini,
c' è tutto un mondo da ricostruire. E per ricostruire il mondo c’è bisogno
proprio della cultura sognata da Vittorini.
In ogni caso ripropongo di
seguito le pagine dedicate al POLITECNICO
anche perché vanno oltre il libro di Muraca. (fv)
La prima idea de IL POLITECNICO sorge nel clima della
Resistenza antifascista, intorno al 1943, quando sorgono i primi Comitati di
Liberazione Nazionale (C.L.N.). L’idea diventa progetto nel corso delle
riunioni organizzate da Elio Vittorini a Milano, nei primi mesi del 1945; a queste
riunioni partecipano diversi intellettuali antifascisti tra cui i futuri
redattori: Franco Fortini, Franco Calamandrei e il famoso grafico Albe
Steiner. Ai promotori si uniscono presto, come collaboratori, Giansiro
Ferrata, Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Giulio Preti, Oreste Del Buono, Sergio
Solmi, Antonio Giolitti, Antonio Banfi, Felice Balbo, Carlo Bo e Italo Calvino.
La rivista segna una svolta nella storia culturale nazionale,
innanzitutto per la volontà di superare lo steccato tradizionale tra le due
culture: la cultura scientifica e quella umanistica.
IL POLITECNICO settimanale nasce nel settembre del 1945 col
sostegno, anche finanziario, del PCI e viene stampata dall’editore Einaudi.
Accanto a Vittorini si ritrovano, alla fine della guerra, i migliori
intellettuali antifascisti del tempo di area comunista, socialista e cattolica.
Allora si trattava di ricostruire tutto, non solo le case e le industrie, ma
anche gli animi e la società. Vittorini, in specie, comprende che non basta
dichiararsi antifascisti per rinnovare la società italiana. Per evitare che gli
orrori generati dal fascismo e dalle guerre possano ripetersi, occorre un
cambiamento profondo della stessa cultura e del senso comune.
Il primo numero del Politecnico esce il 29 settembre del 1945 con un memorabile editoriale firmato dallo scrittore siciliano intitolato Una nuova cultura che si apre con queste parole: «Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini».
Vittorini chiarisce, nelle prime righe dell’articolo,
il suo pensiero:
«Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno abbia vinto in
questa guerra. […]. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di
soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di
case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le
quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più
sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau. Di chi è la
sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che,
attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei
bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era
sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini
sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e
distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa “cosa” che c’insegnava la
inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa “cosa” che c’insegnava
l’inviolabilità loro? Questa “cosa”, voglio subito dirlo, non è altro che la
cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo
latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo
ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce,
Benda, Huizinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Lin Yutang e Santayana,
Valéry, Gide e Berdiaev. Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa
cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha
avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad
esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e
perché il fascismo ha potuto commetterli? Dubito che un paladino di questa
cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa darci una risposta diversa da
quella che possiamo darci noi stessi: e non riconoscere con noi che
l’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse
nessuna, influenza civile sugli uomini [corsivo mio] [1].
Ecco il punto: la vecchia cultura ha fallito perché, essendo
patrimonio esclusivo di una èlite, è rimasta sostanzialmente estranea alla
società e a gran parte del popolo. In altri termini, sono stati i suoi limiti
di classe a rendere inefficace la grande cultura del passato; Vittorini lo dice
chiaramente questo quando afferma:
«Essa (la vecchia cultura) ha predicato, ha insegnato, ha
elaborato princìpi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma
non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha
condotto eserciti per la società. […]. La società non è cultura perché la
cultura non è società» [2].
Questo editoriale scosse l’intellighenzia del tempo. Nei
numeri successivi della rivista intervennero tanti a dire la loro ma penso che
pochi compresero fino in fondo il senso delle parole di Vittorini. Ancora oggi,
infatti, tanti dimostrano di non averle ben comprese .
Il programma del Politecnico puntava anche
ad aggiornare e sprovincializzare la cultura italiana, mettendola a confronto
con le diverse culture del mondo intero. Gli articoli e le inchieste dei primi
numeri del settimanale comprendevano analisi accurate sul latifondo meridionale
e le grandi industrie italiane; notizie aggiornate sulla Russia sovietica, sul
franchismo e la guerra civile spagnola, sulla società e sulla letteratura
americana. Non mancavano, inoltre, contributi teorici sulle diverse
interpretazioni del marxismo, dell’esistenzialismo e della psicoanalisi,
articoli di divulgazione scientifica, di critica letteraria,
cinematografica, artistica e di costume.
Vittorini, insieme ai suoi più stretti collaboratori – tra
cui spiccavano Franco Fortini, Carlo Bo, Felice Balbo, Giulio Preti – riescono
a creare un vero e proprio laboratorio politico-culturale sperimentale che si
poneva il compito di formare le masse e di cambiare la società italiana. Il
lavoro del settimanale venne avviato con grande entusiasmo, Vittorini scriveva
a molti intellettuali per invitarli a collaborare. Fortini ha ben descritto il
clima e l’entusiasmo che animava i redattori della rivista:
«Capitavano i personaggi di quegli anni: operai affamati,
giornalisti, avventurieri, ex partigiani, ragazze scappate di casa, […].
Arrivavano montagne di manoscritti la più parte diari di guerra, di prigionia,
di vita operaia. […]. Si aveva l’impressione che dovunque il settimanale
giungesse molti animi scossi dalla recente esperienza rispondessero alle nostre
incerte astruse parole. Era per noi la conferma della scoperta che avevamo
fatto durante la guerra; quella delle incredibili possibilità
della nostra provincia, delle energie latenti delle classi mute (corsivo
mio) […] Era l’indistinto caos delle culture italiane, quello che vedevamo
attraverso quelle lettere; e per la prima volta ci venne per la mente che
l’opera alla quale era degno consacrarsi fosse di conoscere davvero che cosa
significassero quelle culture e misurarle col mondo grande dei paesi lontani»
[corsivo mio] .
Le parole di Fortini ci sembrano particolarmente felici e
calzanti per capire lo spirito che animava i principali autori della rivista.
D’altra parte lo stesso Vittorini affermava che «Per fare Il
Politecnico ci vogliono le fiamme sul didietro».
Eppure Vittorini si accorse presto di essere stato lasciato
solo sia dalla casa editrice (Einaudi) che stampava il settimanale che dal
Partito (il PCI di Togliatti) che l’aveva inizialmente incoraggiato. La
trasformazione del Politecnico da settimanale a mensile non fa
che sancire il suo progressivo isolamento: «il passaggio da settimanale a
mensile – scrive ancora Fortini – coincide con la fine dell’idillio tra gli
intellettuali che avevano aderito al comunismo nello spirito dei C.L.N. e i
dirigenti politici del Partito che si apprestava ad affrontare le difficili
prove degli anni seguenti» (Muraca, 2024: 13)
La rottura tra la Direzione del PCI e Vittorini, in gran
parte, è un segno delle prime avvisaglie della guerra fredda che dividerà
l’Europa proprio in quegli anni. Ad innescare la polemica è un articolo di
Mario Alicata pubblicato dal periodico comunista Rinascita che attacca senza
mezzi termini la linea culturale del Politecnico considerata troppo ecumenica
ed aperta nei confronti dell’Occidente e della cultura borghese. Contro
Vittorini interviene lo stesso Togliatti in una nota nello stesso periodico che
Il Politecnico, ormai trimestrale, pubblica nel Natale del 1946. Il
segretario nazionale del PCI, dopo aver ricordato di aver “salutato con gioia”
la nascita del Politecnico, rimprovera allo scrittore siciliano di
aver tradito il programma iniziale della rivista e di procedere in modo
equivoco alla ricerca astratta del nuovo, del diverso e del sorprendente.
Vittorini nel numero natalizio che pubblica la lettera di Togliatti fa sue
alcune osservazioni critiche del segretario del PCI ma si riserva di
rispondergli in modo più articolato e approfondito successivamente. Cosa che
farà tre mesi dopo, ed esattamente nel n. 35 del marzo 1947, in una lunga
lettera aperta che affronta il tema di fondo dei rapporti tra cultura e
politica.
Lo scrittore siciliano, innanzitutto, ritorna a parlare della
sua idea di cultura precisando di essere «l’opposto di quello che in Italia
s’intende per ‘uomo di cultura’. Io non ho studi universitari. Non ho nemmeno
studi liceali. Potrei quasi dire che non ho affatto studi. Non so il greco. Non
so il latino. Entrambi i miei nonni erano operai e mio padre, ferroviere, ebbe
i mezzi per farmi appena frequentare le scuole che un tempo si chiamavano
tecniche. Quello che io so o credo di sapere l’ho imparato da solo nel modo
vizioso in cui si impara da soli. Le lingue straniere, per esempio, le so come
un sordomuto: posso leggere o scrivere in esse, tradurre da esse, ma non posso
parlarle né capire chi le parla». Lo scrittore siciliano precisa, innanzitutto,
di essersi iscritto al PCI per motivi umani e politici e non ideologici. È
stata l’esperienza della Resistenza al fascismo a condurlo, insieme a tanti
altri, al PCI. Nella prassi Vittorini ha verificato che i comunisti «erano i
migliori, e migliori anche nella vita di ogni giorno, i più onesti, i più seri,
i più sensibili, i più decisi e nello stesso tempo i più allegri e i più vivi» .
A seguito del V Congresso Nazionale (1945/46) l’adesione di
Vittorini al PCI è ancora più convinta perché egli interpreta il deliberato del
Congresso di non porre alcun obbligo ideologico ai militanti come una chiara
apertura ad una lettura non dogmatica del pensiero di Marx: «ha riportato il
marxismo italiano sulla strada più propria del marxismo, che è la grande strada
aperta della filosofia come ricerca e non il vicolo cieco della filosofia come
sistema». Anche per questo, afferma con forza Vittorini, «il diritto di
parlare non deriva agli uomini dal fatto di possedere la verità, quanto
piuttosto dal fatto che si cerca la verità» [corsivo mio]. Di
conseguenza Vittorini vede nel libro di Lenin, Materialismo ed
empiriocriticismo, considerato un testo sacro in URSS, il rischio di
una ricaduta del marxismo nel Sistema e nel dogmatismo. Questo rischio il
marxismo italiano non lo corre grazie soprattutto al pensiero di Gramsci.
Nel corso di questa lettera il Direttore del Politecnico fa
più di una concessione a Togliatti, riconoscendo apertamente di essersi
sbagliato sui rapporti tra politica e cultura; concorda pienamente nella
critica a Benedetto Croce e ammette che «c’è anche nella cultura la tendenza
all’inerzia» (ivi: 127-130). Soltanto nelle conclusioni Vittorini prende
nettamente le distanze da Togliatti e, precisamente, nei paragrafi
intitolati: Suonare il piffero alla rivoluzione? e Uno
sforzo contro l’arcadia (ivi: 132-138). È in queste pagine che
lo scrittore di Uomini e no difende a spada tratta le sue
scelte culturali, spiegando le ragioni per cui ha pubblicato sulla rivista
Hemingway, Kafka e tanti altri scrittori borghesi. Vittorini afferma:
«Rifiutare e ignorare i migliori scrittori della crisi del
nostro tempo, significa rifiutare tutta la letteratura problematica sorta dalla
crisi della società occidentale contemporanea. […]. Molta letteratura della
crisi è senza dubbio di provenienza borghese. Discende dal romanticismo, è
intrisa di individualismo e decadentismo. Ma è anche carica della necessità di
uscirne. Si può chiamare letteratura della borghesia solo nel senso che è
autocritica della borghesia. I suoi motivi borghesi sono motivi di vergogna
d’essere borghesi e di disperazione d’essere borghesi. Dunque è rivoluzionaria»
L’atteggiamento critico giusto nei confronti degli autori da
cui vogliamo prendere distanza, osserva Vittorini, non è quello di ignorarli o
insultarli ma quello che hanno utilizzato con intelligenza sia Marx con Balzac
che Gramsci con Benedetto Croce. Suonare il piffero alla
rivoluzione non è rivoluzionario, conclude polemicamente la sua lunga
lettera a Togliatti
Lo scontro tra Vittorini e il PCI di Togliatti rimane uno
degli episodi cruciali della politica e della cultura del nostro ultimo
dopoguerra. Muraca, pur ricostruendo in modo problematico questo scontro, alla
fine riesce a cogliere i termini reali del conflitto:
Prima di tutto, dal punto di vista teorico, il marxismo
problematico e antidogmatico del Politecnico contraddiceva «la
linea storicistica del ‘meridionalismo democratico’ (la linea De
Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci ai quali sarebbero stati innestati, con l’inizio
della guerra fredda, Stalin e Zdanov) su cui si basavano sia l’azione che la
ricerca politico-culturale del ‘partito nuovo’ e dei suoi intellettuali
organici» (ivi:17) Inoltre le posizioni di sinistra espresse dalla rivista (ad
esempio, i continui attacchi rivolti al Vaticano) mettevano in discussione la
linea politica e la strategia delle alleanze del Partito di Togliatti che, per
la verità, poco aveva in comune con il pensiero autentico di Gramsci.
Riguardo a quest’ultimo va detto che Vittorini – prima ancora
di conoscere integralmente gli scritti del sardo e alcuni documenti relativi
alla rottura che c’era stata nel 1926 tra i due dirigenti comunisti nel
giudicare la piega che aveva preso l’ URSS dopo la morte di Lenin – è stato uno
dei primi ad intuire l’originalità del pensiero gramsciano. Non a caso
pubblicherà sul Politecnico mensile un saggio dell’eretico Lukacs
e alcune lettere dal carcere di Gramsci. Cose che contribuiscono ad evidenziare
la modernità e la lungimiranza della rivista.
Muraca in conclusione fa suo il bilancio critico del Politecnico di
uno dei principali redattori della rivista, Franco Fortini:
«Nata da una forse ingenua fiducia nel garibaldinismo
culturale; cresciuto fino ad intravedere quale avrebbe dovuto il lavoro di
gruppo di intellettuali che intendessero operare al rinnovamento del proprio
Paese; finito quando, all’avvicinarsi del lavoro difficile, oscuro e rischioso,
si è rilevata la debolezza teorica, l’incertezza, la mancanza di pazienza, di
costanza, di tenacia e l’anarchico individualismo tradizionale ai nostri uomini
di lettere, il Politecnico non avrebbe meritato […] tanto lungo
discorso se la sua vicenda non seguitasse ad essere piena di insegnamenti. Se
soprattutto –e questo è il suo merito, che nessuna critica può contestargli – i
principali problemi d’oggi sono quelli medesimi che esso ha posti e, per primo,
descritti in forma generale: da quello, affermato dalla sua esistenza, di un
linguaggio non tecnico né volgarmente divulgativo a quello dei rapporti fra
dirigenti culturali e dirigenti politici, da quello delle relazioni fra il
pensiero marxista e le altre correnti del pensiero contemporaneo a quello di
nuove possibili vie di metodologia critica»
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