“Parthenope”
e, più in generale, il cinema di P. Sorrentino divide la critica ed il giudizio
del pubblico. Oggi sul Corriere del Mezzogiorno tocca al novantenne
Goffredo Fofi dire la sua. Noi, pur senza condividere il suo giudizio, lo riproponiamo
di seguito. Ma Fofi non è il Vangelo e a
quanti si riparano dietro di lui ricordiamo
che, proprio negli anni settanta che adesso santifica, proprio Fofi mostrò di non aver capito nulla del cinema di Pasolini (fv)
“Mezzogiorno
di fuoco”
di Goffredo Fofi
<Sorrentino
e Parthenope
senza
Poesia e senza Storia>
Il film di
Paolo Sorrentino
Partenope è
un atto d'amore per Napoli, in quanto tale lodevole e benvenuto.
Racconta la
città nei suoi anni Settanta e conclude sull'oggi, sul ritorno a Napoli di
Partenope, la protagonista del film, finita a insegnare antropologia
nell'università di Trento. Gli anni Settanta napoletani Sorrentino li ha visti
da bambino , essendo nato proprio nel ‘70.
E non mi
sembra che si sia molto documentato su un decennio che, per chi l’ha vissuto
con qualche intensità, è stato uno dei più belli dello scorso secolo, per la
città.
La musica,
il teatro, il cinema, la fotografia e perfino la letteratura hanno prodotto in
quel tempo artisti di grande valore, opere di grande sostanza. E, pensando
all’uso che ne fa Sorrentino, anche le più adulte opere di un grande scrittore
come La Capria, alla cui idea della «bella giornata» e agli ambienti e ai
momenti di Ferito a morte il regista si è apertamente ispirato, aggiungendovi
qualche crudele bizzarria alla Malaparte: invece del pranzo a base di sirena,
il bambino-mostro figlio del professore universitario di antropologia che nel
film indica a Parthenope la sua strada di intellettuale, con notevole
superficialità. Ma non c’era solo la «bella giornata» nella Napoli di quegli
anni, e non c’era solo una formidabile vitalità delle arti, c’erano altre cose
di peso sociale e culturale qui appena sfiorate, come la contestazione
studentesca o il nascente femminismo, e c’erano Pomigliano d’Arco e Bagnoli con
la loro classe operaia in lotta, c’erano i disoccupati organizzati e c’era un
fermento sociale e pedagogico nel «proletariato marginale» dei vicoli, che è
stato in parte narrato in un bel saggio storico di Luca Rossomando. Appena
sfiorati, come a disagio, Maradona e il colera...
In quegli
anni vivevo a Napoli anch’io, e credo che gli amici che erano napoletani veraci
avrebbero detto di Sorrentino che era «un chiattillo», una definizione
«antropologica» che aveva allora gran corso. Insomma, il film di Sorrentino non
scava in niente e non dimostra un senso della Storia, ma purtroppo ha un senso
fragile anche della Poesia, E la sua Parthenope non sembra mai prender corpo,
vivere e respirare come emblema di una città e della sua bellezza, come gli
avrebbe desiderato che fosse. In definitiva il suo è un film superficiale
storicamente e proprio «antropologicamente», e di una scarsa poesia, con un
fiacco personaggio centrale a sostenerla. Un’occasione perduta, insomma, alla
quale ci si augura che il regista sappia e possa rimediare in futuro, con altri
film meno ambiziosi ma più profondi e sentiti.
E per quanto
riguarda San Gennaro, chiamato in ballo con una certa rozzezza, ha ben altro
spessore il recente recital che Mimmo Borrelli - un attore in grande crescita -
ha elaborato con l’aiuto prezioso e mai invadente di Roberto Saviano. Altra
convinzione e altra forza, ben altra «napoletanità».
GOFFREDO FOFI
PS: Le scene bunueliane in cui Sorrentino, sfiorando la blasfemia, prende in giro il Vescovo di Napoli e la devozione popolare a S. Gennaro credo che siano alla base di tante critiche al film. Se Sorrentino avesse letto Sciascia, forse, avrebbe tagliato quelle scene. I Santi contano ancora tanto in questo Paese. (fv)
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