26 marzo 2025

FANTOZZI: UNA MASCHERA ITALIANA

Diventare Fantozzi di Claudio Giunta Professore di Letteratura italiana all’Università di Torino The Belliner n.31 *Estratto dall’omonimo articolo presente nella raccolta «Una sterminata domenica. Saggi sul paese che amo» edito da Mulino e consultabile sul blog di Claudio Giunta (claudiogiunta.it) Negli ultimi quarant’anni si è certamente potuto ridere di cose più intelligenti (anche se si è spesso riso di cose meno intelligenti), ma se si guarda semplicemente alla quantità, al numero, di niente e di nessuno si è riso più che di Fantozzi. I residui di queste risate, oltre che ben fermi nella memoria, sono tutti visibili nel linguaggio che adoperano gli italiani nati tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta. Quando Giorgia Meloni (classe 1977) dice in parlamento (29 aprile 2013) che c’è «un leggerissimo problema di copertura finanziaria», quel leggerissimo pronunciato calcando sulla prima sillaba, lég-gerissimo, viene da Fantozzi («ho una leggerissima sudorazione»). Quando Paola Cortellesi (classe 1973) annaspa nello sketch della doppiatrice (Magica Trippy), quell’annaspare – bocca spalancata, palpebre a mezz’asta – viene da Fantozzi. E poi merdaccia, coglionazzo, vadi, venghi, dichi, fogna di Calcutta, puccettone, salivazione azzerata, mani due spugne, fronte imperlata di sudore, la poltrona in pelle umana, la nuvola da impiegato, il direttore galattico, il megadirettore naturale, il Dir. Gen. Lup. Mann. Gran Farabut: tutto questo lessico della disperazione e del sopruso, il lessico usato e subito da chi sopravvive non solo ai piani bassi dell’organigramma aziendale ma ai piani bassi della vita, è diventato ormai – e stabilmente – lessico famigliare degli italiani, quasi senza distinzioni di ceto, istruzione, provenienza geografica. Si può infatti trovare detestabile sia il linguaggio sia l’immaginario di Fantozzi, ma non si può non prendere atto della loro efficacia, un’efficacia superiore a quella di qualsiasi romanzo o saggio, e paragonabile soltanto o pochi o pochissimi prodotti della TV o del cinema contemporaneo. La corazzata Potëmkin di Villaggio è proverbiale come i tre anni di militare a Cuneo di Totò, ma è ancora più interclassista e interregionale (Totò, al nord, lo vedono, rivedono e citano a memoria soprattutto gli intellettuali); e ‘fantozziano’, ‘fare come Fantozzi’, sono diventate espressioni d’uso comune non in quanto designano uno stile o un modo di vedere il mondo (e insomma non merce per intellettuali come ‘felliniano’ o ‘lynchano’ o ‘kafkiano’) ma in quanto isolano, ritagliano e battezzano un determinato pezzo di mondo: la situazione fantozziana c’era già, solo che mancava la parola per definirla, e dunque nessuno l’aveva ancora messa bene a fuoco. Dal 1971 la parola c’è, e questo ha fatto sì che sia diventato impossibile tollerare senza vergogna – per sé o per altri – situazioni fantozziane. Che cos’è dunque, in che consiste, una situazione fantozziana? Da un lato, in una certa inadeguatezza rispetto alle richieste, esplicite o implicite, dell’ambiente nel quale ci si trova ad agire. In questo senso, Fantozzi è l’archetipo dell’uomo medio sensuale, quello che vorrebbe starsene in casa a guardare la partita ma viene trascinato dalla vita e dalle convenienze in posti impensati come il cineclub (al quale Fantozzi è culturalmente inadeguato) o il campo da tennis (al quale Fantozzi è fisicamente inadeguato) o un ricevimento elegante (al quale Fantozzi è inadeguato per ragioni di censo e di maniere). ‘Fantozziano’ è, qui, il nome della frizione tra un uomo semplice e le infinite trappole che la vita moderna, o la vita tout court, semina sul suo cammino: fantozziano è il rapporto che il rag. Ugo Fantozzi ha con il mondo, e fantozziane le punizioni che il mondo gli infligge. Dall’altro lato, il mondo all’interno del quale Fantozzi agisce è il mondo di una grande azienda, perciò ‘fantozziano’ è soprattutto il rapporto che il rag. Ugo Fantozzi ha con i suoi colleghi e con i suoi superiori. Proprio qui sta uno dei tratti più originali di Fantozzi. Perché nei film e nei libri sul lavoro girati e scritti prima di Fantozzi il nemico era facile da riconoscere: era il padrone, o era il meccanismo inumano della produzione, dinanzi al quale i lavoratori erano, come si dice, tutti nella stessa barca. Ma Fantozzi vive al crepuscolo dell’età della produzione industriale. I suoi uffici sonnolenti, le sue gite aziendali, i suoi impiegati che giocano a battaglia navale annunciano già l’età del post-industriale, del terziario, e insomma di tutta la fuffa che per un certo numero di anni ha fatto credere un po’ a tutti che fosse davvero possibile restare la quinta o sesta potenza industriale liquidando le industrie. Fantozzi lavora già in un’azienda-ministero che non produce nulla. E da questo pseudo-lavoro (che cosa fa, veramente, Fantozzi?) ricava più mortificazione che stress. Quando si pensa a libri che parlano del mondo del lavoro si pensa a Donnarumma all’assalto o a Memoriale, non a Fantozzi, il che è comprensibile, è anche giusto, perché quelle di Villaggio, a differenza di quelle di Ottieri o di Volponi, non sono rappresentazioni realistiche, sono parodie. Nel mondo reale non ci sono direttori che si fanno chiamare Dott. Ing. Grand. Uff. Lup. Mann. o che hanno in ufficio poltrone in pelle umana e un acquario in cui nuotano gli ex dipendenti. Ma basta solo citare queste trovate deliziose per capire che Villaggio ha saputo darci qualcosa che prima non c’era: non la sottomissione e l’ossequio, che sono dei luoghi comuni dai tempi del Travet di Bersezio; e nemmeno l’aria irrespirabile dell’ufficio, la guerra silenziosa tra impiegati, che è già un motivo di Gogol’; ma qualcosa di simile a ciò che Bachtin ha chiamato lo ‘scoronamento dell’eroe’. Nei libri e nei film dedicati al lavoro i padroni si possono disprezzare o odiare come nemici, ma sono sempre nemici seri. Nei libri e nei film di Fantozzi, invece, i padroni e i dirigenti, prima di essere padroni e dirigenti, sono soprattutto degli imbecilli: gente ignorante, incapace, superstiziosa, meschina, puerile, piena di tic e di manie assurde, a cui nessuna persona sensata affiderebbe la direzione di una bocciofila, figurarsi un’azienda. Fissando l’attenzione sui lati ridicoli del mondo del lavoro, Villaggio gli ha tolto un po’ di quell’aura sacrale che lo circondava nel giornalismo e nella letteratura engagée. Ha fatto per l’ufficio qualcosa di simile a ciò che Fellini ha fatto per la scuola in Amarcord. Sono parodie, certo, ma parodie che introducono nel ritratto un elemento di verità. Esiste un prototipo del capitano d’industria? E a chi assomiglia di più, al Ciro Nasàpeti delle Mosche del capitale o al Catellani di Fantozzi, il patito di biliardo che venera la vecchia madre? Al primo, certamente. Ma i Catellani esistono. Esiste la catellanità. Il Sole 24ore, 23 marzo 2025 fantozzi, il nostro pinocchio novecentesco Arcitaliano/1. Il ragioniere, nato dai libri di Paolo Villaggio e consacrato poi dai film, aveva un’inconsapevole vocazione profetica: sapeva in anticipo da che parte avrebbe soffiato il vento Giuseppe Lupo Capita raramente che un personaggio letterario diventi una figura in cui un’intera nazione possa specchiarsi e ritrovare i suoi caratteri identitari. Il primo pensiero non può non andare a Pinocchio, la cui vicenda, non a caso, prende avvio in coincidenza con il processo di unificazione ottocentesca. Ma lo stesso discorso vale anche per il ragionier Ugo Fantozzi, che nasce come un funambolo dai libri di Paolo Villaggio nel 1971 e subito si consacra in versione cinematografica, inanellando una serie di pellicole tanto esilaranti quanto fortunate proprio quando il Novecento ha impresso una direzione aziendalistica ai destini del Paese. Quest’uomo dagli improbabili congiuntivi e il basco calcato in testa, questa sagoma dai modi goffi e burleschi perfino quando sta alla guida dell’automobile Bianchina sembra uscita per ventura dai titoli di coda della commedia dell’arte, forse pure una certa parentela con i fescennini del teatro di Plauto e si candida a rappresentare quel ceto medio un po’ guascone e un po’ parassita, ma comunque pur sempre intriso di una visione borghese che fatica a scrollarsi di dosso il ruolo di comprimario rispetto alle sorti della politica e della storia: uno stipendio poco dignitoso nonostante il diploma, un capo che si diverte a mortificarlo, moglie e figlia poco rispondenti ai canoni di un femminismo barricadero urlato nei cortei da chi indossava pantaloni a zampa di elefante. Anche da questi elementi passa la condizione della sua tragica modernità. È lui il vero volto di un’Italia che in quegli anni restava aggrappata al mito del posto fisso nonostante l’austerity avesse minato le sicurezze dell’economia occidentale, lui che si trova perennemente in ostaggio di desideri repressi e occhieggia il mondo dei ricchi eppure non prova rabbia e nemmeno invidia perché sa che il suo è un destino da perdente e, nel declinare in chiave capitalista quel che rimaneva vivo degli antichi rapporti di vassallaggio, alla svolta di un secolo che invece si era presentato come rivoluzione vittoriosa del Quarto Stato, si candidava a erede di una tradizione più avvezza a subire i soprusi che a combatterli. Siamo alle solite: non era bastato il Novecento per riscattare gli ultimi, il lavoro continuava a essere vissuto come una liturgia che pretendeva le sue vittime e stavolta non toccava agli operai offrirsi in olocausto, ma agli impiegati negli uffici, quei dipendenti di cui troppo poco si è occupata la narrativa aziendale, ai quali veniva data la libertà di escogitare trucchi fantasiosi per sottrarsi all’ingerenza dei vertici: il naso chiuso da una molletta dei panni, la patata in bocca, la testa infilata in una pentola, l’accento svedese. Non abbiamo mai capito cosa producesse la ditta per conto della quale il nostro antieroe ogni giorno parcheggiava l’auto di sguincio e correva a timbrare il cartellino. Oggetti di lusso? Beni di consumo? Servizi? Chissà. Ma questo passa in second’ordine. L’importante era fingere di stare alla scrivania, aspettare le ferie agostane e scansare la gara ciclistica o il cineforum con annesso dibattito. Poi via libera al grottesco, all’iperbole: la figlia che sposa uno scimmione, il carro funebre che finisce nel corteo dei gitanti, il vescovo con il mignolo tranciato invitato a fare bim bum bam durante il varo della nave. Non si ride mai senza malinconia: sta qui il punto di forza del nostro personaggio che non obbedisce ad alcuna ideologia, non ha un pensiero politico e anticipa di gran lunga le aspirazioni a un’esistenza senza impegni che sarà l’immagine più convincente del successivo decennio. Può sembrare anomalo, ma in un’Italia dove le tute blu si illudevano di abbattere i muri della fabbrica per guadagnare l’accesso all’aldilà – La classe operaia va in paradiso di Elio Petri è del 1971 – le peripezie del ragionier Fantozzi significavano che era inutile ostinarsi a lottare, inutile ricorrere al furore delle piazze. Nessuna protesta, nessuno sciopero, nemmeno i sindacati che alzavano la voce, l’unica velleitaria forma di rivincita sarebbe stato inveire contro il film di ?jzenštejn e probabilmente, in quegli anni di animosità politica, qualcuno avrà perfino sospettato traccia di qualunquismo. Ma Fantozzi aveva un’inconsapevole vocazione profetica. Sapeva già in anticipo da che parte avrebbe soffiato il vento del futuro e non possedeva nulla del “borghese piccolo piccolo”, il personaggio violento e vendicativo che sarebbe venuto fuori dalla penna di Vincenzo Cerami, nel 1976. Il ceto medio italiano era uno, ma le scelte di vita diverse e con Cerami siamo esattamente agli antipodi del fantozzismo: i ministeri, il terrorismo, il farsi giustizia da sé. L’Italia di Paolo Villaggio, invece, è ancora propensa a credere nelle favole del successo pur inseguendolo con modi alla buona. Sarebbe stato necessario aspettare gli anni Ottanta per vederle realizzate, queste favole, una per una: l’ascesa della borghesia, l’aspirazione a godersi la vita, l’irruzione del lusso nelle abitudini quotidiane, i Mondiali di calcio finalmente vinti. In quel clima di generale leggerezza chi si sarebbe ricordato della corazzata Potëmkin? P.S. Devo fare ammenda perché nel 2013, nell’allestire con Giorgio Bigatti la prima antologia della letteratura industriale, Fabbrica di carta, avrei potuto inserire qualche pagina dei libri di Villaggio nel capitolo sugli impiegati. Non l’ho fatto ed è stata l’ennesima umiliazione patita dalla sua creatura. Dovessi ristamparla, ora direi: «Venghi, venghi, ragionier Fantozzi!».

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