04 ottobre 2014

ANTICHI MAESTRI


Dal sito http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/    questa mattina mi piace prendere questo pezzo:


 EROS NEUTRALE

di Gianni Fumagalli

E’ stata una recente conversazione sulla scuola ad evocare il ricordo e sono bastate due parole, pronunciate da un’amica, Mosè Bianchi, per accendere la magia delle Petit Madeleine. Allora tutto un mondo caduto nell’oblio è riaffiorato nitidamente alla memoria con il suo caleidoscopio di volti, voci, luoghi.
Nella seconda metà degli anni sessanta decisi di passare ai corsi serali dell’Istituto Tecnico Statale per Geometri Mosè Bianchi di Monza. Avevo frequentato il biennio diurno ma volevo assicurarmi una relativa autonomia economica, così cercai un lavoro e continuai gli studi la sera. La classe nella quale fui inserito rappresentava un’ampia gamma della categoria dei lavoratori e accoglieva studenti dai diciassette ai quarantacinque anni. C’erano operai insoddisfatti del lavoro che svolgevano e speravano nella scuola per un riscatto sociale, buoni disegnatori che cercavano un attestato per le loro competenze, impiegati statali che ambivano al diploma per un avanzamento di carriera, professionisti affermati che necessitavano del titolo di studio per regolarizzare le loro l’attività, lavoratori autonomi e piccoli artigiani curiosi di conoscenze tecniche. Poi c’ero io, timido e spaesato, intimorito dalla vita fuori le mura di casa e incapace di relazionarsi su un piano paritario con chicchessia. La vita mi trascinava in situazioni che non avevo scelto, chiamandomi a decisioni che altri avevano preso per me. In questa condizioni la scuola non faceva eccezioni; se qualcuno mi avesse chiesto perché ero lì, molto candidamente avrei risposto: “non lo so”. Ma l’essermi trovato in quella realtà è stato come vivere una scuola nella scuola. Non tardai molto a vincere quell’imbarazzo e a calarmi nella vita vissuta.

La scuola non difettava rispetto ai corsi diurni se non in quantità, le ore scolastiche erano di quarantacinque minuti anziché sessanta ma nel suo complesso il corpo docenti eccelleva. Il serale poteva godere di un vantaggio rispetto ai corsi del mattino perché ci lavoravano abili professionisti che di giorno svolgevano la loro attività e la sera la insegnavano, spesso con passione. Ne ricordo particolarmente tre ma su tutti l’insegnante di Italiano e Storia. Giovanni Buttafava era un uomo d’altri tempi; del secolo precedente conservava una gentilezza non affettata e una riservatezza al limite della timidezza. Aveva una cultura immensa della quale non aveva mai fatto vanto e che comunicava ad una classe di assonnati e distratti studenti con la discrezione di chi è consapevole di seminare bene ma, in ultima istanza, di lasciare a tutti la libertà di dire si o no a tanta ricchezza. Insegnava in una lingua raffinata ma comprensibile, rispetto alla quale eravamo lontani anni luce. Eppure sentivamo la sua autorevolezza culturale, elargita senza pegni e ricatti, ricambiata da noi con una considerazione e un rispetto incondizionati. Parlava, traduceva e pubblicava in inglese, russo, tedesco e francese. Autore di una pregevole Storia della Letteratura Russa. Raffinato critico cinematografico e recensore per decenni per il settimanale L’Espresso. Amico personale e traduttore del poeta russo Josif Brodskij, premio Nobel per la letteratura nel 1988– del quale scrisse: ”Il poeta è un viaggiatore solitario. La battaglia con i materiali biografici è la sua esperienza più intransigente e vittoriosa.” Per la morte prematura, avvenuta il 10 luglio 1990, Brodskij dedicherà all’amico italiano il poema Vertum. Ero immaturo, presuntuoso e impertinente come molti giovani che volevano rovesciare il mondo in pochi anni. Allora non colsi, se non con rare emozioni, il valore umano e la ricchezza culturale di questa persona. Dopo alcuni anni Giovanni Buttafava entrò in punta di piedi nella mia vita e silenziosamente vi imase.
Per tutti era l’ingegnere, talmente catturato dalla sua professione sembrava non avere nome ma semplicemente essere l’ingegnere. Lavorava alla Telettra e a noi insegnava topografia, una materia asettica, fatta di angoli e logaritmi, che lui sapeva trasformare in un gioco intelligente. Era riuscito a portare tutti alla sufficienza pur adottando una didattica rigorosa che non regalava niente. Il suo metodo, supportato da una chiarezza cristallina, consisteva nel coltivare una forte motivazione in ogni studente, rafforzandola con la convinzione che la topografia si può imparare divertendosi. E così fu per tutti; la soddisfazione di riuscire a risolvere una poligonale chiusa con una tolleranza consentita di soli due millesimi era pura gioia.
Il professor Vecchi insegnava Agraria Estimo e Economia per questo passava molte ore in classe con noi. Era un tipo piccolo, magro, tutto nervi e di una simpatia contagiosa. Nelle movenze sembrava Charlie Chaplin, mentre la sua parlata era rapida, intermittente e ubriacante Cercava in tutti i modi di alleviare il carico di lezioni e studio per dei poveri studenti lavoratori – come usava chiamarci – con trovate divertenti e in alcuni casi esilaranti. Conosceva molto bene le discipline che insegnava ma, per il fatto che non faceva interrogazioni ma solo una prova scritta per quadrimestre e per giunta lasciandoci consultare il libro di testo, ci sgravava notevolmente dal peso di uno studio sistematico. Toccava le vette del divertimento quando, vedendoci stanchi e distratti, sospendeva la lezione per leggerci parti della sua Commedia Erotica. Si era imbarcato nella trascrizione in chiave “spinta” della Divina Commedia sostenendo che Il Sommo Poeta l’avrebbe scritta nello stesso modo se solo fosse vissuto in un tempo meno bacchettone. Ricordo solo l’incipit e non so quanti canti avesse scritto allora, ma posso confermare che quelle sospensioni erano molto attese, apprezzate e divertentissime.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrova tra le gambe una bella fica,
ché dopo il mio agir era sfinita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta gnocca selvaggia e aspra come una mula
che nel pensier rinova la premura.

Trovai un’affinità immediata con il compagno di classe Lucchesini Isidoro detto Doro, allacciando un’amicizia profonda e duratura. Barba e capelli folti, occhiali alla Allen Ginsberg, un sorriso solare gli ornava spesso il viso e una voce cristallina lo rendeva riconoscibile all’istante. Doro è stato per tutta la durata degli studi lo spirito candido e libero della classe. Le sue battute all’indirizzo di compagni e insegnanti erano pungenti e argute, colpivano nel segno senza mai essere offensive. Aveva trovate che animavano come una scossa la sonnolente monotonia di alcune lezioni. La sua mente rapida e brillante era sempre la prima a cogliere cambiamenti, umori, sottili novità. Era il centro propulsore di tutte le iniziative positive; la sua presenza univa e rallegrava, Doro portava un sole splendente in tutta la casse.
Nell’anno scolastico 67/68 i venti di cambiamenti che soffiarono in tutto il mondo occidentale si fecero sentire anche nella nostra scuola. Alcune figure avevano prematuramente colto la forza e la portata storica di questo momento e si ponevano come i profeti del nuovo verbo. Angelino era un tipo che catturava l’attenzione, piccolo, capelli neri e folti, aveva uno sguardo intelligente e una smorfia da lottatore, ma soprattutto un eloquio ubriacante. Sferzava i compagni di classe meno sensibili e refrattari alle problematiche sociali con invettive al vetriolo sottolineandole con bestemmie di fuoco. I suoi improvvisati comizi, che non perdeva occasione di tenere in classe o nei corridoi, si concludevano spesso con la medesima frase:”è ora che la nostra società si liberi, una volta per sempre, dalle ingerenze cattolico-piccolo-borghesi”, con la sottolineatura di un porco… finale. Frequentò i cinque anni ma, coerentemente, non si presentò all’esame finale perché sosteneva che una simile prova non stabilisse per nulla il grado di maturità di un candidato ma solamente il suo livello di servilismo verso il potere. A suo modo era un piccolo Trotsky e di lui, dopo la scuola persi ogni traccia.
Gianfranco invece era un trentacinquenne impiegato all’INPS che incarnava la soddisfazione dell’uomo che sa accontentarsi di quello che riceve dalla vita. La sua faccia paffuta e la voce calma infondevano tranquillità. Ma Gianfranco aveva un difetto, tendeva ad esagerare le sue prestazioni sessuali e a volte i suoi racconti viravano verso l’incredibile. Una sera raccontò che, assieme a un gruppetto di amici, pagarono una prostituta e, comprato un chilo di baghette, l’allegra brigata se la spassò mangiando ‘pane e figa’. Alle sganasciate incredule dei compagni che avevano ascoltato l’assurda storia, Gianfranco non replicò ma si limitò a dire con la sua voce pacata: “provare per credere”. Si dice che la realtà superi la fantasia e, nel male e nella perversione, questo è vero. Nessuno però credette al suo racconto che ebbe ripercussioni per tutta la nostra permanenza a scuola. Il culmine del tormentone si verificò con la cena della maturità. Per l’occasione furono preparati per i professori degli inviti personalizzati stile matrimonio con tanto di descrizione del menù. Su quello della professoressa di diritto l’antipasto recitava: “pane e figa”. Quando Zanforlin, un Totò in versione veneta, lo consegnò nelle mani della prof., raccontò, ai compagni che lo attendevano ansiosi che, nel leggere il menù, si lasciò scappare un controllato sorriso di circostanza. Il commento di Zanforlin fu:”mi sa che a quella lì gli piace solo pane e pirla”. Gianfranco non mostrò mai risentimenti per la figura burlesca che gli avevamo cucito addosso, specie dopo quell’episodio. Continuò la vita scolastica ebbro della sua calma olimpica. Anzi, fu proprio lui, da esperto frequentatore di bordelli e sale a luci rosse, ad organizzare la nostra spedizione a Mendrisio, nel Canton Ticino, durante una spudorata bigiata collettiva, proprio per vedere un film a luci rosse.
La partenza fu fissata per le diciotto di un grigio mercoledì novembrino, proprio davanti alla scuola. Tre macchine caricarono quindici compagni di classe e poi via! In meno di due ore eravamo davanti al botteghino con l’impiccio della dogana sbrigato velocemente. Gianfranco premeva perché si arrivasse alla biglietteria prima delle otto, anche se i film iniziava alle nove. Da navigato frequentatore di quelle sale, sapeva che i biglietti venivano messi in vendita alle otto e che dopo soli quindici minuti erano tutti esauriti. E noi arrivammo alle otto meno un quarto con una fila di un centinaio di persone ordinatamente già in attesa. I posti erano circa duecento suddivisi in tre piccole sale. Ci accodammo cercando di animare l’attesa con battute di spirito e rumorose risate. Ad un tratto Zanforlin irrigidisce la gamba sinistra mentre il braccio destro lo solleva, piegandolo a novanta gradi, all’altezza del mento, poi, con un’andatura grottesca, si lancia a superare la coda ripetendo senza sosta: ”permesso invalido, permesso invalido, permesso invalido…”. Qualcuno cominciò a rumoreggiare, partirono al suo indirizzo insulti, un marcantonio addetto all’ordine lo afferrò per il bavero spostandolo di peso e invitandolo, con le buone, a sloggiare in fretta. Lo osservammo tornare indietro con la testa china e sorridere a fior di labbra grattandosi la nuca. – Ma cosa ti è saltato in mente? Gli gridammo tutti.- Volevo imitare Ugo Tognazzi nel film I mostri. Con questi svizzeri di merda non si può neanche scherzare – fu la sua risentita risposta.
Il film era una triviale storia di sesso; una bomba erotica acquista un appartamento in un codominio portando scompiglio fra tutti i mariti che inventano ogni tipo si scusa per entrare in quella casa dove la porta è sempre aperta.
Il pubblico era costituito da persone di mezza età, prevalentemente pendolari italiani, pochissimi giovani, nessuna donna. Tra le volute di fumo esaltate dal fascio di luce del proiettore, osservavo i volti di quell’umanità adorante. A volte la trance estatica veniva rotta da una battuta volgare; scoppiavano risa scomposte, altri commenti ad alta voce, poi l’attenzione riprendeva il sopravvento.
Tornammo a casa in un silenzio irreale; avevamo in animo quel vuoto espresso da una delusione presentita.
Mosè Bianchi! Avranno le tue mura conservato anche un solo frammento di questa effervescente vita?

Nessun commento:

Posta un commento